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A Ritmo Di Techno (lato A)
Seduto, posava gli occhi qua e là. Postura improvvisata, cercava senza riuscirci una posizione più comoda. Intanto il vagone su cui viaggiava, uscendo da un tunnel, si era nuovamente riaffacciato sulla città in fase calante. Una serie di sfocate costruzioni aspettava la fine del tramonto. Solo allora, l’alternanza delle finestre buie e di quelle illuminate, avrebbe, attraverso un gioco inconsapevole di rimandi, dato un tocco glamour all’arredo urbano. Del sole rimaneva solo la mancanza del suo timido calore. A gran sorpresa, esso aveva saputo debuttare in maniera convincente in questa sua prima apparizione primaverile. Ora però stavan tornando le tenebre, e con loro, l’ombra di un inverno orgoglioso che non accennava a desistere.
Lentamente, progressivamente aumentando, il rumore dei freni annunciò l’arrivo in una nuova destinazione. Quando questo cominciò a scemare soddisfatto, dietro ai vetri ricompavero scene simili a quelle di poco prima. Una stazione qualsiasi, qualche panchina occupata e i cestini sazi, anzi ingozzati. Individui in attesa. Chi con il giornale ripiegato in fretta sotto il braccio, chi con la borsa abbracciata stretta al fianco, chi inconsapevolmente protagonista di una barzelletta. Senza fretta, si avvicinarono al binario. Un passo, poi un altro, magari tre per anticipare qualcuno, quattro o più, di corsa, per sognare un posto a sedere.
Le porte finalmente si aprirono, come un sipario, e lo spettacolo, ingaggiati attori e pubblico, spettatori e commedianti, ebbe inizio. Jack non era interessato. Ciò a cui si apprestava ad assistere non era altro che una replica già vista. Ogni giorno feriale, intorno a quell’ora, si trasmetteva la solita puntata. E non tanto per i personaggi, che inevitabilmente erano differenti, non tanto per l’ambientazione che era sempre la linea 5 della Seilbahn, e neppure per la sceneggiatura, scritta dalla stanchezza di un qualsiasi giorno lavorativo. Ciò che rendeva monotona e senza appeal questa sorta di telefilm era il regista. Seduto, cuffie in testa, cappellino alla Steven Spielberg, aveva da tempo deposto il megafono con cui parlare alla propria troupe. Sembrava che ci avesse rinunciato, che non avesse più alcun stimolo a partecipare attivamente alla costruzione di quella storia. Aveva provato a dire la sua, ora si limitava a tacere. Ogni scena gli scorreva davanti, lineare, scandita dall’incedere di un tempo monotono. Tutto gli pareva conosciuto, già visto, ma empaticamente estraneo, staccato. Un mosaico di fragili immagini celava una realtà ben più complessa, difficilmente comprensibile e valutabile. Cosi era arrivato ad una forma di astensione di giudizio. Non dava più peso a nulla, nè a quello che accadeva, nè a quello che faceva. Una cosa valeva l’altra, poiché niente avrebbe modificato lo stato di completo caos in cui tutti si trovavano, comparse senza ruolo, ignare di creare stupidi siparietti e di esserne al contempo travolte. Questa casualità, radice della stessa esistenza, poteva trovare conforto in un solo atteggiamento: l’indifferenza.
Neanche si accorse che il treno, lasciata la solita scia di colori grigiastri e suoni stonati, era ripartito di gran carriera. Jack invece sbadigliava a più riprese, anche se di motivi, a parte la sua noia cronica, non ne aveva. Si era svegliato verso l’una. In uno stato tra il confusionale e l’indeciso aveva aperto il frigo, trovandovi poca roba. La sera precedente aveva rimandato l’abituale retata alla drogheria della signora Fruhstuck, dove per ogni euro di spesa dichiarato, ne aveva almeno due nascosti in tasca. Quella vecchia cicciona era troppo immersa nel suo tentativo di sembrare di buon umore per accorgersi dei continui furti che subiva. Ieri Jack l’aveva risparmiata, ma ora si ritrovava senza colazione. Guardò nel lavabo della cucina. Vi trovò una scodella con un po’di latte, abbandonata lì da qualcuno sazio prima del previsto. Si accontentò di quell’avanzo, e di una mela. Nel pomeriggio aveva gironzolato per il paese con il motorino di suo nonno, che pur di non vedere quel nipote per più di cinque minuti, per toglierselo di torno gli dava spesso un cinquantino da giocare al videopoker. Tornato a casa, dopo dieci minuti era già diretto alla stazione dei treni. E dopo 50 minuti di accellerazioni e frenate, ecco la sua fermata. Attese fino all’ultimo, poi di scatto, si alzò e scese.
Conosceva benissimo quella stazione e quella zona della città, Mainfield. Lì c’era il “Brandon”, il locale conosciuto per aver creato intorno alla musica techno un vero e proprio culto. Decine di ragazzi e ragazze si ritrovavano quasi quotidianamente nel piazzale antistante il dismesso capannone industriale, come gli anziani di paese fanno di domenica sul sagrato della chiesa. Jack era uno dei personaggi “storici” di quel luogo, nonostante il mese successivo avrebbe compiuto solo 23 anni. Aveva iniziato a frequentare il “Brandon” poco dopo il divorzio dei suoi, quando aveva più o meno 15 anni. Era novembre e Friedrich, il coetaneo vicino di casa, lo aveva trascinato e poi convinto a seguirlo in quello che definiva “un posto da sballo”. Bastava entrare da quella porta di legno completamente scheggiata e pasticciata, e avrebbe capito cosa intendesse. Jack non solo aveva capito che cosa intendesse l’amico, ma riuscì perfino ad avvertire qualcosa in più. Vide in quel posto un nuovo punto di partenza, una seppur diroccata base sopra la quale però poteva poggiare, senza che nessuno lo giudicasse per quel che era stato, ma solo per quello che sarebbe stato da quel momento in avanti. In quegli otto anni era diventato un volto conosciuto, rispettato, temuto. Conosceva quasi tutti gli avventori e con molti di quelli che non si facevano più vedere da quelle parti, non a caso ci era venuto alle mani almeno una volta. Pretendeva rispetto e anche i legami più forti, per esempio con Stephen, Mark, e Oliver, avevano avuto inizio con una bella scazzottata. Col sangue che ancora scorreva, da una narice, da un labbro, da un ginocchio, si erano stretti le mani infangate, sancendo l’inizio di un’alleanza consolidatasi nel tempo. Quei quattro erano conosciuti nel giro come le “Aquile di Thor“, rapaci indipendenti ed isolati ma in grado, all’occorrenza, di sferrare un attacco unico e coordinato, imprevisto come un tuono e rapido come un fulmine.
Quella sera, in via del tutto eccezionale, si presentò al “Brandon” solo. Salutando volti indecisi con sfuggenti cenni del capo, si avvicinò a passi sempre piu convinti verso l’ingresso. L’assordante volume non lo invase, c’era abituato. Il locale non era tanto grande ed aveva una struttura alquanto semplice. Pianta a forma rettangolare, sui due lati corti c’erano rispettivamente l’entrata e l’imponente bancone in alluminio, d’impatto come un altare, posto sul fondo e su un piano leggermente rialzato. Sui due lati lunghi una serie di divanetti, ognuno al massimo di tre, quattro posti, ma abitualmente caricati dal peso di almeno cinque-sei persone, braccioli esclusi. D’altronde la capacità del locale non garantiva alcuna corrispondenza biunivoca tra posti in pista, che occupava una buona percentuale dell’area centrale del rettangolo, e posti a sedere. Così, tra bocche secche e gambe prossime al collasso, bar e divanetti costituivano piccole oasi dove si riversavano intere tribù di beduini del suono. Sul lato lungo destro vi era, nell’angolo vicino all’ingresso, la postazione di colui che aveva il compito di manovrare i battiti, sia delle possenti casse, sia di quelli cardiaci.
Dj Lehrer scrutava distratto dall’alto del suo piano rialzato l’intera sala, come se stesse cercando qualcosa, un qualcosa che non si può vedere. Come un marinaio d’altri tempi, puntava deciso con lo sguardo l’orizzonte, in attesa di un contatto visivo con quello che stava cercando. Lui non voleva scoprire l’America, ma avvistare ciò che ogni timoniere o disc jokey devono saper cogliere. Un attimo, quella linea immaginaria che divide il conosciuto dal potenziale, il passato costruito da un futuro agente, e sulla quale bisogna essere pronti a proseguire. Dolcemente, con passo dosato ma fermo, in equilibrio precario, sopra un vuoto di possibili delusioni. Lui cercava l’attimo in cui, accendendo la scintilla del ritmo, potesse trovare terreno per un nuovo incendio di passi confusi. Lo avvertì. I corpi dell’eterogeneo gruppo barcollante avevano bisogno di nuova linfa. L’adrenalina stava scendendo. Appoggiato l’orecchio ad una delle cuffie, col collo piegato come quando si parla al telefono con le mani impegnate, sfogliò come una rivista l’ampia selezione di cd masterizzati da cui estrarre l’antidoto. Uno, bianco, con sopra una scritta a mano da pennerello nero indelebile “Kaputt”, gli parve prescrivibile. Lo prese, scelse la traccia due, ”The Immortals?" Mortal Combat Soundtrack”.
Al battere del gong, con cui inizia il pezzo, un urlo di approvazione si elevò nello spazio. Chi era già in pista, abbandonò quell’andatura da podista poco convinto e assunse una postura tonica, come chi sta per iniziare una competizione, una sfida. Mimando le mosse di un combattimento, a metà tra quelle viste nel videogioco e quelle provate davanti allo specchio da piccoli, una cinquantina di teste in trance fendevano l’aria, e con loro tutti gli arti a disposizione. Altri non contagiati da questa epidemia di beat, continuarono a starsene ai lati. Molti si gridavano nelle orecchie, cercando di portare avanti una conversazione alla maniera di due sub che si incontrano sott’acqua. Altri avrebbero invece voluto avviare un dialogo, con la ragazza provocante che ondeggiava pericolosamente o col bel tenebroso con la frangia sugli occhi. E una volta iniziato, non avrebbe avuto importanza che cosa si fossero detti. Le parole, in posti come il “Brandon”, sono solo scivoli di gomma dove far scorrere impressioni, dove scambiarsi sensazioni, nulla più. Non c’è alcun contenuto, significato da veicolare. L’unica cosa è evitare di essere troppo pungenti, altrimenti lo scivolo si buca e il provvisorio canale comunicativo si interrompe. Chi però non aveva il coraggio di aprire questo canale oscuro ed entrarci con le mani a tastoni, rimaneva avvolto dal proprio monologo di pensieri. Qualcuno ci stava pure bene. Schiena contro il muro, ginocchio piegato, suola destra contro il muro.
Mani in tasca disoccupate, Jack aveva passato buona parte della serata in apparente silenzio. Dentro però, il calderone stava ribollendo. Ricordi dimenticati affioravano confusi. Quella serie di pensieri intrecciati ed immagini disordinate apparivano e si dissolvevano con frequenze diverse, più o meno velocemente, ma comunque sempre in maniera non sincronizzata con ciò che accadeva attorno a lui. Non riusciva a cambiare il ritmo della sua testa con la facilità con cui Lehrer cambiava i suoi dischi. Raramente si era sentito cosi poco padrone di sè stesso. Lo spaventava la totale ignoranza del motivo. Mentre gli altri venivano trascinati come in un’altra dimensione comune, dove spensierati fondevano le proprie fantasie, egli sentiva come un peso, dentro, all’altezza del diaframma, che pian piano aumentava e lo bloccava in quel punto, tra le toilette e il bancone del bar. Non poteva essere solo una questione fisica, magari dovuta a quel kebab trangugiato qualche ora prima camminando in Gutenstrasse, mentre stava andando a prendere il metro. Se fosse stato quello, non ci sarebbe stato alcun problema. Avrebbe stoccato un sorso di birra a qualche ragazzino e, digerendogli in faccia, si sarebbe liberato di quella fastidiosa sensazione. No, cazzo, era qualcos’altro. Che non riusciva a vedere; che gli passava davanti come un’ ombra e subito si mimetizzava nel buio delle sue incertezze; che non avrebbe potuto prendere e riempire di botte, come solitamente affrontava i suoi problemi. Ai suoi compari avrebbe potuto chiedere ben poco. Non c’erano e per di più, per quanto fossero dei gran figli di puttana, non avevano ancora il dono di leggere nel pensiero.
Chinò il capo, appoggiò gradualmente il mento al petto, e sospirò. Abbassò le palpebre e, attraverso di esse riusciva a cogliere ancora l’intermittente luce bianca. Continuava a sentire quel ritmo, e per la prima volta, riuscì a vederlo. Ad occhi chiusi, privatosi volontariamente di quelle scene che gli scorrevano continuamente davanti, gli si parò davanti un’assenza sconcertante. Sia il mondo esterno, sia il calderone borbottante sembravano improvvisamente scomparsi, nascosti chissà dove. Jack non aveva certo intenzioni di andare a cercarli.
Questo stato di pacifica solitudine, sospeso tra la nota realtà esterna e il suo Io più sconosciuto gli piaceva. Gli sembrava di rivivere quelle sensazioni che credeva appartenessero ad un’ infanzia terminata e irrecuperabile, rinnegata con le parole in un pub, ma rimpianta con le lacrime sul suo cuscino. Come quando gli davano un regalo e si apprestava ad aprirlo, quando non vedeva il contenuto del pacco, cosa lo aspettava, ma sapeva che sarebbe stato qualcosa di bello, qualcosa in cui sperava, desiderava. Quando però speranza e aspettativa non coincidono, quando ai regali si sostituiscono scatoloni di cartone senza fiocco, e alle sorpresa desiderata la conseguenza più scontata, cominci a perdere quel’entusiasmo di scoprire, di scartare ed aprire, e ti accontenti della confezione esterna. Quando aspettativa e speranza prendono due strade diverse, vuol dire che sei ad un bivio. Da una parte, percorrendo la strada della speranza, vivi una vita di sogni, fatta di slanci verticali e scale di vapore, potenzialmente sia soddisfacente che frustante. Dall’altra, vivi una vita di progetti, fatta di marce senza soste e obiettivi raggiungibili ma lontani. Jack non aveva preso nessuna delle due strade. Era ancora a quel bivio, da almeno una decina d’anni. Non aveva voluto scegliere tra le due opzioni. Speranze e aspettative eran qualcosa che aveva lasciato agli altri. Lui preferiva starsene seduto, sulla panchina poco prima del bivio, vicino al cartello bianco con scritto “Disillusione - COMUNE: a molte persone…STATO: temporaneamente infinito”. Ma in quella inattesa consapevolezza ritrovata per caso, conscio ora dell’illusione di essere stato consapevole, sentì di avere le forze per alzarsi da quella ipotetica panchina. Intanto alcuni ragazzotti che lo conoscevano, lo osservavano ironicamente, credendo si fosse addormentato, nonostante il volume della musica fosse prossimo ai 130 decibel. Jack non dormiva, nè sognava ad occhi aperti…stava vivendo, di nuovo, pure ad occhi chiusi.
In sottofondo una nuova traccia, ”Mission Impossible theme remix”, sembrava, dal titolo, l’accompagnamento più adatto per la situazione in cui si trovava, ma basi e sintetizzatori eran ormai diventati semplici rumori non ascoltati. Riaprì gli occhi. Il via vai alla toilette era proseguito e proseguiva incessante. Dovevan essere passati al massimo 10 minuti, giusto il tempo dei due pezzi, ma guardando il sudore sulle fronti, potevano essere passate anche due ore. Si aggiustò il cappellino.
Un uomo particolarmente muscoloso stava trasportando una cassa piena di birra in bottiglie da 33 cl., facendosi largo col suo fisico imponente. Giunto nella zona adiacente allo sgabuzzino dietro al bar, la posò a terra e, indicandola, segnalò l’avvenuta consegna al personale di servizio al banco. Murray, il barista svizzero con più buchi (da piercing ) che un tossico dello Zoo, ringraziò mostrando il palmo della mano piena di anelli. Prese la cassa e cominciò a servire i drogati da luppolo. Al suo fianco, intenta a preparare una pinacolada, una ragazza dall’aspetto fine. Capelli neri raccolti, un leggero tratto di mascara a incorniciare i suoi occhi scuri e un velo di rossetto a risaltare le sottili labbra, ora contratte dallo sforzo di shakerare un cocktail. Non l’aveva mia vista, Jack, o forse non l’aveva mai notata. Era come un fiore in mezzo a tutti quei rovi, una rosa con delle spine probabilmente, ma pur sempre una bellissima rosa. Rimase a osservarla, involontariamente, come si osserva un tramonto dal finestrino posteriore di un’ auto in viaggio o come quando, camminando in un bosco, noti uno scoiattolo a pochi metri da te. Temi che un tuo gesto o movimento inconsulto possa farlo scappare e, con esso, il gradevole tepore che quella situazione ti sta donando. Lei continuava a lavorare intensamente, presa dai continui compiti che le si presentavano.
Data la nota capacità di ogni coda di sapersi autorigenerare, c’era sempre qualcuno pronto ad ordinare e qualcuno stufo di aspettare la sua consumazione. Come una catena di montaggio, tra softdrink e Spiritosen, i cocktail prendevano vita in distinti passaggi, portati in questo caso a termine da un unico operaio-barista. Nonostante il suo lavoro non si possa definire “alienante” nel senso che Marx diede a questo termine, il volto degli addetti al banco possedeva un leggero velo di malinconia. Ciò stride un poco con un luogo dove c’è piu euforia che ossigeno, dove oltre a una buona dose di fumo passivo, riesci a respirare eccitazione. Come se, a forza di vedere persone sbraitare allegre il loro divertimento, ne fossero assuefatti a tal punto da diventarne indifferenti. Insensibili però no. Avrebbero ceduto volentieri il posto a quel tizio paonazzo dalla polo pezzata che aveva già speso in birre il corrispettivo della loro paga settimanale. All’atto di un ulteriore acquisto, il giovane rampollo si rivolse poco cavallerascamente alla ragazza che lo stava servendo, quella dai bei occhi neri, la quale, con una stoccata verbale, elegante e precisa, bucò la presunzione del tizio che, se clinicamente possibile, dall’imbarazzo divenne ancor più rosso. Jack non potè udire nulla, ma leggendo il delicato contrarsi del suo labiale, rimase anch’egli colpito per il carattere della ragazza.
Doveva essere un tipo tosto. Dietro quel bel faccino da Ballo delle Debuttanti, nascondeva un temperamento forte, un fuoco trasmessogli dalle sue origini latine. La carnagione confermava la sua mediterraneità, ma non rivelava nulla sul suo Paese di provenienza. Se si fosse potuto effettivamente ascoltare la sua pronuncia tedesca, si sarebbe potuto capire come in Germania fosse solo di passaggio, magari per motivi di studio. Una futura dottoressa, chissà in quale campo. A Jack ricordava quelle intrepide donne avvocato di alcune serie televisive che, accompagnati i bambini a scuola e portato fuori il cane, si fiondano in tribunale a difendere fedeli il loro cliente, ringhiando alla controparte e abbaiando obiezioni su obiezioni al giudice. Oppure la immaginava anche sfilare con un bel camice bianco su un lungo corridoio grigio, a dispensare indicazioni utili e battute sarcastiche ai colleghi più imbranati. Oppure la immaginava senza camice. E senza maglioncino. Senza maglietta. Semplicemente senza.
Si accorse di star divagando.
Dj Lehrer aveva ripreso a rompere i timpani con ”Win the race” dei Modern Talking. Era il pezzo che qualche anno prima lo aveva definitivamente appassionato al genere techno. Sentita innumerevoli volte, ascoltata una sola. L’ultima. Adesso. Mentre la tribù danzante cambiava assetto, Lehrer sorseggiava un Cuba Libre soddisfatto e Monica, la barista mora, sciacquava una pila di bicchieri. L’ultimo ascolto, questo ascolto, era come se fosse il primo, risalente a tanti anni fa. Non era cambiata una sola virgola, una sola nota in quei 04. 43 minuti, ma dentro vagavano quasi 10 anni della sua vita. Ripensò a com’era e a quante cose fossero successe nel frattempo, anche molto dolorose. Ma, nonostante tutto, si trovava ancora al “Brandon” a sentire, per caso, il “suo” pezzo.
Si sentì ringiovanito.
Si sentì più leggero, come se quella musica lo librasse nell’atmofera viziata;
si sentì i muscoli sciogliere e divenire fluidi come il tempo che scorre.
Si sentì eterno. Come la musica. Eco di se stessa.
Come una canzone datata, capace di riproporsi, per essere reinterpretata ancora da una voce tremante, di chi debutta nel mondo dei grandi.
Era convinto, anzi destinato, a non aver più un destino.
Quello lo avrebbe lasciato agli altri.
Per quanto grande possa essere, un destino è pur sempre una meta di una delle infinite strade che ogni istante possa proporre.
Non avrebbe scelto, non avrebbe percorso nessuna di quelle strade.
Avrebbe volato in un dove senza perché.
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