SPERDUTI
L'isola non ha finito con te...
INTRODUZIONE
Molto tempo fa, l'uomo era alla costante ricerca della verità, proprio come tuttora in fondo. A volte però, alcune risposte forse è meglio non conoscerle, per evitare così certe conseguenze spiacevoli. Nel mezzo dell'oceano, in costante movimento nel tempo, c'era un'isola tropicale. Era bellissima ed ospitava immense foreste ricche di frutta, diverse specie di animali, tra i quali alcuni estinti da anni, e immense montagne e vallate, tutte ricoperte di verde. Era un'isola sconosciuta e irraggiungibile dall'uomo, proprio per il fatto che si muoveva nello spazio temporale cambiando spesso posizione. Infatti nessuno ci aveva mai messo piede, profanando, così, forse l'unico luogo al mondo dove la natura non veniva modificata e rovinata dalle costruzioni artificiali. Nel corso dei secoli, solo il protettore dell'isola ci viveva sopra. Ciò che veniva protetto da generazioni, non era altro che una luce intensissima, proveniente dal centro di quest'isola e contenuta a sua volta sotto ad una grotta. Un giorno però, degli uomini arrivarono sull'isola e trovarono quella luce, cercandone un uso personale per poter abbandonare quel luogo maledetto e pieno di misteri, visto che era impossibile andarsene a causa del suo continuo movimento nel tempo. Alcuni riuscirono nell'intento, e raggiungendo tale luce, fecero sì che il tempo divenisse controllabile e manipolabile dalla mano dell'uomo. I danni furono irreversibili. Jackob, ora aveva bisogno di altre persone per proteggere quel posto, così si intromise nella vita privata di alcuni, secondo lui, candidati per tale ruolo, e li condusse con l'inganno sull'isola. Sceglieva persone sole, come lui, prive di uno scopo, e le convinceva a trovarne uno nuovo, più grande e più importante di qualsiasi altra cosa al mondo. Jakcob però aveva un fratello gemello. Era la reincarnazione del male. Quando vennero dati alla luce, alcuni secoli prima, la loro madre, ovvero l'ex protettrice dell'isola, non ebbe il coraggio di eliminare il bambino cattivo, così li fece crescere entrambi. Quando furono grandi però, dovette spiegare loro che erano su quell'isola per una ragione, ovvero quella di proteggerla dagli altri uomini, che descriveva curiosi, egoisti e manipolatori, e che solo uno di loro avrebbe preso il suo posto come protettore. Infondo aveva ragione. È nella natura dell'uomo la curiosità. E nonostante non sia un peccato, spesso può portare a rovinare le cose e a mettersi nei guai. Jackob accettò di proteggere l'isola, mentre il fratello cattivo si unì agli altri uomini e profanò quella luce per trovare un modo per andarsene da quel dannato scoglio. Così facendo però, perse il suo corpo umano, e si trasformò in un mostro di fumo nero, rimanendo imprigionato per sempre in quel luogo maledetto. Successivamente cercherà disperatamente altri sostituti, per rubargli il corpo e fuggire via da lì. Quando gli ultimi candidati di Jackob arrivarono sull'isola precipitando con l'aereo della Oceanic 815, nel 2004, rubò il corpo ad uno di loro, Jhon Lock e lo usò per tentare la sua missione a cui aspirava da anni: semplicemente andarsene. Sull'isola vivevano ancora alcuni indigeni, ovvero coloro che rimasero lì da generazioni perché non erano mai riusciti ad utilizzare la luce per fuggire. Costoro si allearono ai pochi supersiti rimasti del volo Oceanic 815, e li aiutarono a prendere il posto di Jackob e a sconfiggere per sempre il mostro di suo fratello. Quest'ultimo, che per lasciare l'isola doveva per forza eliminare suo fratello, riuscì finalmente ad ucciderlo, tramite uno degli indigeni, al quale non andava più di prendere ordini dal protettore, che, tra l'altro, non aveva mai incontrato di persona, e fino ad allora si era semplicemente fidato delle leggende che si propagavano da genitori a figli. Fu Jack Shepard a diventare il nuovo Jackob. Il supersite del volo 815, aiutato dai suoi amici, per uccidere il fratello di Jackob e prendere il posto di quest'ultimo, dovette spegnere momentaneamente la luce, calandosi dentro la grotta che la proteggeva. Così facendo, però, l'oscurità si sbloccò e iniziò a salire su per il vulcano principale dell'isola. Riuscirono appena in tempo a riaccendere la luce, prima che il male si diffondesse per tutta la Terra, seminando distruzione. Per la prima volta nella storia, alcuni "candidati" riuscirono a scappare dall'isola, usando un altro aereo, il volo Ajira 316, atterrato li nel 2007, dopo che alcuni superstiti del volo Oceanic 815, che se ne erano andati ma che il destino riportò poi indietro, ritornarono laggiù per salvare i loro amici. Nel centro dell'isola, sottoterra, erano rimasti alcuni di quei primi uomini che un tempo provarono a raggiungere la luce. Essi si trovarono costretti a restare li per l'eternità, senza invecchiare e morire mai, a proteggere la porta dell'oscurità, per evitare che essa uscisse fuori. Allora cercarono anch'essi dei candidati per fargli prendere il loro posto. Con l'inganno rubarono la vita ad alcune persone e le condussero li, con lo scopo di fuggire da quella maledizione ed essere di nuovo finalmente liberi. I nuovi arrivati, dunque, ignari ovviamente di tutto, dovranno competere con l'essenza più forte che c'è: il destino. Dovranno fare scelte importanti, che comporteranno eventuali sacrifici, pur di fare la cosa giusta. Ciò che conta è che il male rimanga al suo posto, sotto le viscere...
EPISODIO 1 - LO SCHIANTO
Jack Shepard, prima di chiudere gli occhi, fece appena in tempo a vedere l'aereo Ajira 316, pilotato da Frank Lapidus, che stava sorvolando l'isola in direzione dell'Australia, sperando di avvistare terra e poter atterrare, portando in salvo i pochi supersiti rimasti. James Ford e Kate Austin fecero appena in tempo a far salire sull'aereo Claire Littleton, raggiungendo così Mais Strong e Richard Albert, a bordo del velivolo. L'isola aveva smesso di tremare. L'uomo nero era stato ucciso dall'eroico gesto di Jack, che sacrificò la vita per salvare quella dei suoi amici. Quando Desmond Hume riprese conoscenza, chiese a Benjamin Linus e Hugo Reyes, che cosa fosse mai successo. Neanche loro seppero dare una risposta concreta. In effetti era accaduto tutto così in fretta... Jake che riaccende la luce, l'isola che smette di sprofondare, la morte del fratello di Jackob... Ora erano rimasti la, sull'isola, solo loro tre, e dovevano ricominciare da capo, a lottare per sopravvivere. Come i vecchi tempi...
8 anni dopo:
C'era ancora il sottofondo di una canzone allegra di Lady Gaga nella cuffia sinistra degli auricolari di Justin, quando si svegliò per terra, in mezzo a una fitta giungla. Era tutto silenzioso intorno a lui, ma non era un silenzio naturale, ovvero un suono sordo, come se ci fosse stata un'esplosione. Justin si alzò barcollando, con la testa che gli girava a mille. Peggio di un post- serata, pensò ironico. Attorno a lui c'erano solo alberi e fitta vegetazione. L'ultima cosa che si ricordava, era di essere su un aereo con un suo amico e che quando una luce bianca intensa travolse il velivolo, lui perse i sensi. Di altre persone non c'era traccia, ma lui sentì in lontananza della grida e man mano che l'udito si ripristinava, cominciò a correre in direzione di quella urla. Scavalcò cespugli e radici. Era tutto dolorante e faceva fatica addirittura a mantenere l'equilibrio. Non riuscì a fare caso a quanto tempo e per quanti metri corse, ma ecco che sbucò su una spiaggia enorme. C'erano pezzi di metallo fumanti ovunque e molti bagagli, sedili o comunque pezzi di aereo sparsi su tutta la spiaggia e nel mare. Probabilmente doveva essere precipitato. Molte persone erano in acqua, mentre altre aiutavano i feriti a raggiungere la costa. Justin intravide del fumo nero in mezzo alle alte onde dell'oceano. L'aereo aveva tentato un ammaraggio! Era ancora a galla, ma il mare mosso lo stava facendo affondare. Non esitò un attimo, mentre la testa continuava a girargli, e si buttò in mare per aiutare gli altri.
Un'hostess camminava in mezzo alle corsie dei sedili sul volo 0023 di Pechino - Sidney. Era un viaggio lungo e molto noioso. Dei ragazzi sui venti/venticinque anni, scherzavano e ridevano, guardando delle foto sui cellulari. Alex, l'amico di Justin, disse di dover andare al bagno e si alzò, mentre l'amico prese delle cuffiette dallo zaino e le collegò al cellulare per ascoltare un po' di musica. Era sera ormai e non riusciva proprio a prendere sonno. Dopo aver visto due o tre film sullo schermo del sedile, decise di provare a chiudere gli occhi con della musica in sottofondo. Di solito funzionava per farlo addormentare. Nella testa aveva mille pensieri, ma in fondo era come se non ne avesse. Era partito con l'amico per cercare una vita migliore, entrambi ventenni, con la grinta e il coraggio necessario. Pensava solo a una cosa: a quando diamine sarebbe finito quel terribile viaggio! Odiava viaggiare, sia in macchina che in treno, o tanto meno in aereo. Fatto sta che per raggiungere l'Australia non c'era tanta scelta, un giorno e mezzo sarebbe stato necessario. Tuttavia gran parte del viaggio ormai era andato, mancava solo il tratto finale, previste circa sette ore. Erano saliti sul volo 0023 da poco più di quattro ore, quindi non doveva mancare ormai molto. Prima che facesse buio i passeggeri fecero in tempo a vedere sotto di loro l'immenso oceano indiano. Fino a li era stato un viaggio tranquillo, compresi gli scali, prima a Roma e poi a Pechino. Certo, per Justin fu comunque traumatico, ma nessuno si aspettava ciò che sarebbe accaduto qualche istante dopo. Alex era in bagno da un paio di minuti ormai. Justin poco prima, lo vide mentre aspettava che uscisse una persona che stava già dentro. Era preso bene al pensiero che tra poco sarebbero sbarcati nel "paradiso terrestre", e Lady Gaga nelle orecchie lo aiutava ancora di più a stare allegro. Lo distrasse un passeggero dall'aria curiosa seduto a pochi sedili affianco a lui, che ordinò un cocktail, e poi ci fu il primo sobbalzo. Si accese la spia d'emergenza e la voce del comandante invitò i passeggeri a sedersi e ad allacciare le cinture. L'aereo fu avvolto da una luce bianca fortissima. Ci furono altri sobbalzi più forti, e poi il buio totale...
Era ormai il tramonto quando i pochi supersiti del disastro aereo si ritrovarono seduti intorno ad un fuoco, acceso sulla sabbia, vicino ai primi alberi della giungla. Quel posto aveva l'aspetto di un'isola tropicale e in effetti faceva caldo, anche se la sera invitava ad accoccolarsi vicino al focolare. Erano state recuperate un po' di provviste e a giro ci si divideva la cena. C'erano due medici, un uomo e una donna, che probabilmente viaggiavano insieme. Avevano allestito un tendone e stavano curando dei feriti. C'erano state molte vittime purtroppo, e l'ultimo chiarore del giorno fu sfruttato per portare i cadaveri a riva e sotterrarli. Successe tutto così in fretta che nessuno si rese conto veramente della situazione. Eppure era cosi, erano precipitati su un'isola dell'oceano indiano e ora non restava che aspettare i soccorsi. Il nervosismo salì quando, dopo parecchie ore, non si vedeva ancora nessuno. Il comandante e altri del personale dell'aereo continuavano a ripetere le stesse cose. Che gli elicotteri di salvataggio avrebbero rintracciato la scatola nera, eccetera eccetera... Alex era li con Justin. Si erano ritrovati fortunatamente e stavano bene entrambi.
I due ora camminavano con i piedi a mollo nell'acqua. "Hai una sigaretta?", chiese Justin all'amico. "Se ne è salvata qualcuna... un po' umide, ma fumabili", rispose Alex. Quest'ultimo diede al compagno un pacchetto di patatine, dicendo che era l'ultimo rimasto e che lui non aveva più fame. Justin lo ringrazio e si infilò la bustina nella tasca della felpa. Ora non aveva fame neanche lui. Più tardi Alex decise di andare a coricarsi vicino ad un albero. "Non vieni?", chiese all'amico. Justin rispose che non aveva voglia di dormire e che sarebbe rimasto a fissare il mare ancora un po'.
"Non riesci a prendere sonno, vero?", chiese un uomo sulla trentina, che si sedette accanto a lui sulla sabbia. Il ragazzo lo guardò curioso, e poi l'altro si presentò: "Piacere Robert" - "Justin" - "In Australia per lavoro o divertimento?" - "Un po' tutte e due le cose.." - "Ahah già.. anch'io" - "Hai perso qualcuno nello schianto?" - "No, viaggiavo con un amico ma lui sta bene. E tu?" - "Solo i miei occhiali..", sorrise Robert. I due restarono ancora un po' sulla spiaggia a chiacchierare. Finita l'ultima sigaretta, si recarono entrambi vicino agli alberi, dove il resto dei passeggeri si era momentaneamente accampato per la notte. Justin ancora non si spiegava come fosse possibile che dopo essere precipitato sul terreno solido dell'entroterra, fosse sopravvissuto senza rompersi niente. Ma era stata una giornata pesante, quindi va beh, meglio cosi.. chiuse gli occhi e si addormentò.
EPISODIO 2 - UNA STRANA COINCIDENZA
In un'immensa sala conferenza, Jhon si preparava per il discorso. Ne aveva fatti tanti prima d'ora, ma tutte le volte era nervoso lo stesso. Dopo essersi sistemato la cravatta e avere ricevuto il supporto morale dai suoi amici e colleghi, ecco che venne chiamato a salire sul palco. Il paleontologo Jhon Evergrand salì, sorrise e strinse la mano al presentatore, che gli lasciò spazio vicino al microfono. Jhon aveva studiato archeologia tutta la vita e finalmente la sua occasione gli si presentò. Fu localizzata un'isola nel pacifico dove si vociferava che esistessero ancora forme di vita primitive. Era inutile girarci intorno, lui sperava proprio di trovare dei dinosauri! Dopo lunghe documentazioni e tanti, ma tanti incontri con studiosi ed esperti, finalmente gli era stata fornita la giusta posizione dell'isola, con le coordinate per raggiungerla. Tutto questo però aveva qualcosa di strano. Sembrava che dovesse accadere tutto di nascosto, stile top secret. Lui non si chiese il perché più di tanto, quando gli furono proposti 3 milioni di euro da un'associazione segreta, di cui promise di non parlare con nessuno. Dunque, sarebbe andato in un posto dove avrebbe avuto carta bianca per le sue ricerche e sarebbe stato faccia a faccia con la natura preistorica, e in più lo pagavano! Perché mai avrebbe dovuto fare domande? Si, in effetti riuscirono a persuaderlo bene, ma a lui, che comunque un po' se ne rese conto, non interessava. Era troppo eccitato all'idea di raggiungere quell'isola. Uscito dalla sala conferenza, si trovò circondato da persone, interessate a fargli domande, come degli avvoltoi. Fortunatamente fu scortato dalla sua equipe fino alla macchina, che lo portò lontano da quell'incubo. Lui odiava il contatto con la gente, e soprattutto essere al centro dell'attenzione. Un ragazzo, sui vent'anni circa, era da poco suo allievo e braccio destro, e Jhon stravedeva per lui. Era molto sveglio e in gamba, e piacere a uno come Jhon non era per niente semplice. Questo ragazzo, Tim, era uno dei pochi ad esserci riuscito. Ora anche lui era eccitatissimo all'idea di partire con Jhon in questo viaggio incredibile. Una vera e propria avventura.
Entrambi si trovavano in aeroporto, in coda alla cassa, per prendere il biglietto aereo del volo 0023, che da Pechino li avrebbe portati a Sidney, come prima tappa. Poi da li sarebbero andati in un'agenzia di viaggi, ovviamente segreta, dove dei colleghi li avrebbero indirizzati sull'isola.
"Stai bene?" gli chiese Tim al suo professore. Lui rispose di si e si sollevò dalla brandina che allestirono con le liane per i feriti. Si trovavano su una spiaggia meravigliosa, alla luce di un sole splendente. Un vero e proprio paradiso terrestre. Tim invitò Jhon ad alzarsi lentamente ma lui non lo ascoltò, e balzando in piedi rischiò infatti di perdere l'equilibrio. Probabilmente aveva preso una botta in testa, si ricordava solo di essersi ritrovato in mare e di essere quasi annegato in mezzo a quelle forti onde. Ecco che ora si riprendeva e si ritrovava insieme agli altri trenta supersiti, su quella che sembrava essere un'isola non segnata dalle mappe, nel mezzo dell'oceano. Per un attimo gli passò per la mente un pensiero vago, ma poi lo cacciò via subito. Non poteva essere possibile che quella fosse la stessa isola che doveva raggiungere una volta sbarcato a Sidney! In effetti le coordinate avrebbero potuto coincidere e quella sembrava proprio un'isola sperduta, ma sarebbe stata una coincidenza troppo folle. Un verso proveniente dalla giungla interruppe i suoi pensieri e tutti si allarmarono. Sembrava il ruggito di una iena. Era molto acuto e potente nello stesso tempo. Sembrava provenire da lontano e rimbombava tra gli alberi. Poi ci fu un rumore tra i cespugli e all'improvviso ecco che sbucò fuori un cinghiale, che si mise a correre in mezzo alle persone. Di colpo dietro di lui comparve una specie di pantera tutta nera, ma a cui nessuno seppe attribuire un nome. Era grande quasi il doppio del cinghiale e nel giro di pochi secondi gli balzò addosso e lo azzannò al collo, uccidendolo, per poi divorarselo. La gente si allontanò tutta. Quando quel predatore si rese conto di essere circondato da altri esseri viventi, fece degli ululati, afferrò il corpo morto della preda e fuggì nella giungla. Tutti rimasero senza parole.
Poco più tardi scoppiò una discussione accesa... Ma il personale dell'aereo non poteva farci niente se nessuno arrivava a salvarli e se nessuno conosceva la loro posizione! Nella ressa si decise di organizzare una spedizione ed entrare nell'entroterra per cercare del cibo. Finché i soccorsi non arrivavano bisognava pur nutrirsi per sopravvivere. Molti non erano d'accordo, visto quello che era uscito poco fa dalla giungla. Però non c'era altra scelta, i viveri scarseggiavano. Fu Jhon ovviamente, con tutta la sua attrezzatura e la sua esperienza, a voler prendere il comando e a fare da guida. Tim gli chiese se era sicuro di quello che stava facendo e lui non rispose, ma fecce un cenno approvatorio, come per dire che ne sarebbe valsa la pena...
Jhon ordinò un altro cocktail alla hostess, che glielo portò subito. Nel frattempo disse a Tim: "Avanti, continua a leggere!", leggermente brillo. E Tim, ormai esasperato, non dissentì e continuò a leggere ad alta voce dal fascicolo, che gli avevano dato quegli strani signori di quella misteriosa società, prima di partire, insieme a tutto il resto dell'attrezzatura. Jhon era un tipo solare, dipendeva dai momenti. A volte restava serio e impassibile per parecchie ore, e a volte, come in quel momento sull'aereo, era tutto preso bene e scherzava con chiunque gli sedesse intorno, iniziando a bere come se non ci fosse un domani. Tim era abituato ormai a quel genere di situazioni. Quando iniziò a conoscere Jhon si imbarazzava sempre da morire, ora invece aveva imparato a comprenderlo meglio. Jhon a un certo punto si lamentò del drink, dicendo che non era possibile che un su un aereo di una compagnia di volo come quella non potessero servire Gin puro ai passeggeri. Per lui era come una specie di oltraggio. Jhon era abituato a bere bevande da gentiluomo, non certo quei ridicoli drink per ragazzini. Tim gli disse scherzando che non doveva approfittare del fatto che avevano tutto pagato, da chi gli aveva assunti, per continuare a ordinare da bere. Un ragazzo passò affianco a lui, nella sua corsia e gli urtò involontariamente un braccio, facendogli cadere un goccio di drink dal bicchiere. Jhon gli stava per bestemmiare dietro, ma proprio in quel momento ci fu un sobbalzo e si accese la spia di emergenza. Mentre il comandante annunciava di restare seduti ai propri posti e di allacciare le cinture, un bagliore di luce intensa inghiottì l'aereo. Jhon si risvegliò in mare. Sentì Tim che urlava il suo nome, nella speranza di ritrovarlo. Jhon era stordito e riuscì solo a emettere un suono lieve dalla sua bocca e a muovere leggermente il braccio. Tim fortunatamente lo vide e cominciò a nuotare verso di lui, in mezzo a quel caos. Jhon era allo stremo delle forze... e lentamente iniziò a sprofondare sotto l'acqua. Quando gli si chiusero gli occhi, fece appena in tempo a vedere la superficie del mare allontanarsi sempre di più, verso l'alto...
EPISODIO 3 - DIVIDERSI
I cinguettii degli uccelli e il venticello lieve tra le foglie degli alberi, davano un senso di assoluta tranquillità, ma nonostante ciò regnava un'atmosfera di tensione. Jhon, seguito da Tim, Justin, Alex e altri due giovani, proseguiva studiandosi attorno con estrema caparbietà. Non c'era altro che giungla, per centinaia e centinaia di metri. Solo alberi e fitta vegetazione. Per lo meno avevano trovato un punto, non molto distante dalla spiaggia, dove crescevano alberi da frutto. Appena tornati al campo avrebbero illustrato agli altri dove si poteva raccogliere della frutta. A un certo punto si sentì il rumore docile dello scorrere dell'acqua, in mezzo a dei cespugli. I sei, arrivarono effettivamente ad un ruscello, che li divideva da un'immensa pianura. C'era acqua pulita che bagnava i sassi ai margini di quel piccolo fiume. Era cosi limpida che si potevano vedere sul fondo i pesciolini che nuotavano. Jhon disse: "Bene, abbiamo trovato anche l'acqua. Sembra pulita e potremmo raccoglierne un po'. Tim, passami le borracce... Tim?!". Il suo allievo aveva lo sguardo terrorizzato che puntava verso la direzione in cui stavano camminando, oltre al ruscello. Jhon non capiva, ma quando poi si accorse che anche gli altri fissavano qualcosa, sollevò lo sguardo e lì, vide l'incredibile...
Immensi dinosauri passeggiavano imperterriti nel prato e strappavano foglie dagli alberi più alti o dai cespugli più folti, per poi masticarle con gusto e ingerirle. Nessuno seppe dire una parola, ne ebbe il coraggio di incrociare lo sguardo degli altri. C'erano davanti a loro diverse specie di dinosauri, quali i Brontosauri, enormi bestioni con il collo lungo, e altre creature, tra cui alcune che si reggevano su due zampe con il muso a forma di becco d'anatra, poi c'erano Anchilosauri, Stegosauri e Triceratopi. Tutti impegnati nelle loro faccende quotidiane, ignari della presenza degli uomini sul loro territorio. Tim e Jhon si scambiarono uno sguardo di intesa, misto tra stupore e terrore. Fu Jhon ad avvicinarsi per primo al ruscello. Qualcuno gli urlò di fermarsi, ma lui proseguì. Proprio in quel momento un Anchilosauro si avvicinò dall'altro lato per bere, e quando vide Jhon, fece una specie di smorfia, lo fissò e poi continuò a bere. In seguito al verso, a Jhon venne istintivo sobbalzare leggermente all'indietro. Qualcuno disse che forse era meglio allontanarsi, ma erano tutti troppi eccitati per lo spettacolo che gli si presentò davanti. Un Brontosauro abbassò la testa per studiare meglio i nuovi arrivati e Tim tentò di allungare il braccio con lo scopo di accarezzargli il muso. Justin disse: "Attento!". "Tranquillo, è erbivoro..", assicurò Jhon. Ma il bestione non si avvicinò a sufficienza per essere toccato. Era a dir poco incredibile, sembrava un sogno ma era tutto reale. Come diavolo era possibile che esistessero ancora dei dinosauri e che nessuno lo sapesse? Dove diavolo erano finiti con l'aereo? Se l'avessero raccontato, qualcuno gli avrebbe creduto?
Per tutte queste domande c'era tempo, ora dovevano occuparsi di trovare del cibo. Nell'allontanarsi da lì, diciamo che nessuno riuscì più a esprimere un pensiero concreto, erano tutti troppo scioccati. Chi non lo sarebbe in fondo? Jhon rassicurò gli altri che quegli animali erano erbivori e quindi innocui, ma in ogni caso decisero di aggirare quell'enorme pianura verde, passando attraverso la giungla, per sicurezza. Poco dopo raggiunsero degli altri alberi da frutto. Banane, kiwi, mango... era tutto delizioso. Fecero una bella scorta, mettendo i frutti negli zaini o in alcune sacche che avevano recuperato dai rottami. Fu quasi l'ora di rientrare al campo, ma Jhon disse che lui li avrebbe raggiunti più tardi, perché voleva vedere una cosa. Il gruppo non era d'accordo, avrebbero dovuto restare tutti uniti. Allora Jhon cercò lo sguardo consenziente di Tim, che capì al volo e disse che sarebbe rimasto lui, con l'Indiana Jones dell'isola! Gli altri allora si avviarono verso il campo, mentre Jhon e Tim, invece, tornarono verso la pianura dove avevano visto i dinosauri. "Hai visto?... e se fosse?" chiese Tim. "A questo punto, non ho più dubbi Tim... siamo sull'isola!", rispose Jhon.
Nessuno dei due si sapeva spiegare come fosse possibile, e quante probabilità c'erano di precipitare proprio in quella che avrebbe dovuto essere la loro prossima destinazione, anticipandone così l'arrivo. "Sta facendo buio. Dobbiamo accendere un fuoco", suggerì Jhon guardandosi attorno. Tim disse che forse era ora di tornare, ma Jhon gli rispose che voleva studiare ancora un po' quelle creature dal vivo. "Bene cerchiamo della legna e delle foglie secche", disse allora Tim. "Vorresti accenderlo con quelle? Ahaha tu hai visto troppi film ragazzo", scherzò l'archeologo, facendo arrabbiare Tim, che allora gli chiese, alzando la voce: "E come diavolo pensi di fare allora?!" - "Guarda e impara, giovanotto". Si diresse verso un albero e staccò con uno dei suoi coltelli una specie di gemma. "Con questa...", disse poi. Tim lo guardava come se fosse pazzo, ma poi Jhon sorrise, avvicinò dei bastoni e li posizionò per fare un falò. Estrasse un accendino dal taschino davanti della sua giacca e diede fuoco a quella gemma, che effettivamente si infiammò subito e, una volta gettata sotto ai rami, li fece accendere. Il fuoco era fatto... Tim osservò tutta la scena esterrefatto. Poi fece un ghigno e si sedette accanto a Jhon, guardandolo ammirato. I due iniziarono ad affettare della frutta e a masticarla, quando a un certo punto sentirono dei versi. Ma questa volta non erano versi normali, sembrava il ruggito di qualche predatore. Balzarono entrambi in piedi e si misero a guardare intorno a loro. Jhon tirò subito fuori dei coltelli e ne diede uno al suo allievo, dicendogli di stare attento a come lo maneggiava. Qualcosa si muoveva la in mezzo... erano tanti, ma non sembravano molto grossi. Dai cespugli intorno a loro, sbucarono fuori cinque o sei coppie di occhi lucenti. Quegli occhi si avvicinavano sempre di più e avevano uno sguardo crudele. "Veloci Raptor..." disse Jhon. "Non credo ai miei occhi". Presero dei bastoni infuocati per spaventarli e si misero schiena contro schiena osservando i terribili esseri che si lasciavano alle spalle il bosco e si avvicinavano minacciosi. Il fuoco doveva averli attirati. Il gioco era fatto, due prede servite su un piatto d'argento, non avevano scampo, non potevano salvarsi. C'erano quattro Veloci Raptor, alti circa due metri, che si reggevano su due zampe e avevano la testa allungata, ricca di denti aguzzi e muniti di artigli affilati. Da un momento all'altro gli sarebbero balzati addosso divorandoli senza pietà. Ma un ruggito, per "fortuna", li spaventò e li fece allontanare. Jhon e Tim si guardarono...
"È un carnivoro, ed è più grosso di loro" , disse Tim. Tirarono su velocemente la loro roba, mentre Jhon sarcastico disse a Tim che aveva ragione e che in effetti era proprio l'ora di ritirarsi. Poi dei tonfi, uno dopo l'altro seguiti da un pausa di pochi secondi. I due erano pietrificati.
"Tirannosaurus Rex" , mormorarono insieme. I tonfi si fecero sempre più frequenti e si cominciò a sentire il frusciare di qualcosa di grosso tra le piante. Non ci pensarono due volte, si misero a correre in quella che sembrava la direzione opposta. Un altro ruggito. E questa volta il terreno cominciò a tremare sotto i loro piedi, mentre un enorme Tirannosauro comparve dietro di loro, buttando giù tutto ciò che gli capitava davanti. Non c'era dubbio, il bestione puntava a loro due. Dovevano avere un odore appetitoso, pensarono. Il Tirex gli stava alle costole. Mentre correvano nessuno dei due ebbe il coraggio di girarsi, anche perché era buio pesto e rischiavano di inciampare. È proprio quello che capitò a Tim, che colpì una radice e rotolò giù per un dirupo cadendo su un letto di un fiume asciutto.
Nel frattempo, al campo, la gente si stava innervosendo, non vedendo rientrare le persone che erano andate in perlustrazione nella giungla. Franz inserì il caricatore nella sua Beretta a 12 colpi, e si incamminò verso un fuoco che avevano acceso, mettendo qualcosa dentro a uno zaino. Il pilota gli andò dietro, chiedendogli dove volesse andare, e lui rispose che ovviamente voleva raggiungere gli altri. Un'altra giovane hostess diede ragione al comandante, dicendo che a quell'ora di notte, non avrebbe potuto trovare delle tracce, e che sarebbe stato un vero e proprio suicidio. Anche qualcun altro disse a Franz, e le persone che avevano intenzione di seguirlo, che avrebbero dovuto aspettare almeno il sorgere del sole.
Tim stava scavando su di un fossile, con una piccola spazzola, insieme a una ragazza, una stagista arrivata da poco nell'equipe degli archeologi. I due erano molto vicini, e si scambiavano spesso e volentieri dei sorrisini e delle parole dolci. Erano seduti sul terreno arido del deserto, vicino a uno scheletro di un dinosauro. Ancora non sapevano di che razza fosse, ma erano appena arrivati a intravedere le prime ossa. Attorno a loro c'era l'accampamento, con dei tendoni e molti macchinari. Tutto questo nel centro di una vallata. Faceva un caldo terribile. Jhon passò vicino ai due ragazzini e lanciò una borraccia di acqua fresca a Tim, che la prese al volo. "Tieni, bevi un po' che ti vedo accalorato" disse Jhon sorridendo sarcasticamente. E con lo sguardo indicò la ragazza affianco a lui. Entrambi i ragazzi arrossirono e poi ripresero a scavare. Quando Jhon entrò nella tenda principale per posare dei fogli, si accorse di non essere solo. Qualcuno lo aspettava e lo salutarono: "Buongiorno signor Evergrand". Erano due uomini vestiti in giacca e cravatta. Jhon non capiva come potessero resistere, vestiti da pinguini, con quel caldo che faceva. I due si presentarono, dicendo che facevano parte di una società chiamata Progetto Dharma, e avevano intenzione di assumere Jhon come guida per raggiungere un certo luogo e poter studiare da vicino degli animali selvatici. Jhon rifiutò subito, dicendo che non era interessato e che ora aveva molto lavoro da fare. In quel momento entrò Tim, che iniziò ad ascoltare la conversazione. I due insistettero dicendo che su quell'isola avrebbero avuto a che fare probabilmente con creature preistoriche, rimaste ancora in vita a causa dell'assenza dell'uomo. Jhon era piuttosto scettico, ma quando i due gli mostrarono la somma che gli avrebbero pagato in cambio della sua collaborazione, rimase per un attimo senza parole. Con quei soldi avrebbe potuto pagarsi tutti i debiti e riuscire ad acquistare nuovi macchinari, per non contare tutti i permessi di scavo, in diversi terreni, che avrebbe potuto ottenere! Tim intervenne e sollecitò Jhon ad accettare. Ma lui gli rispose di asciugarsi le stelle dagli occhi, e che se si fosse assentato, nessuno avrebbe potuto portare avanti gli scavi. "Lei dev'essere il signor Redwine... Tim, giusto?" disse uno dei due uomini. " Come sa il mio nome?", domandò il ragazzo incuriosito. Il signore che gli aveva posto la domanda rispose: "Facciamo ricerche approfondite prima di assumere qualcuno. Mi chiamo Shon Lastnood, sarebbe interessato?".
Tim, per la botta presa in testa, aveva perso i sensi, e quando si svegliò, Jhon era scomparso, e il Tirex pure. Era a pancia in giù e appena sollevò lo sguardo si rese conto che era già giorno. Davanti a lui c'era una figura. "Jhon?" chiese Tim. Ma quello non rispose, e man mano che al ragazzo gli si snebbiavano gli occhi, vide che quel tipo era vestito come un indigeno, stile Tarzan. Questo misterioso individuo pronunciò qualche parola in una lingua strana e Tim lo fissò esterrefatto.
Intanto, al campo, si scoprì che James, un uomo massiccio sulla cinquantina, aveva un talento per la pesca. Era infatti lui a procurare il pesce al gruppo, visto che le proteine scarseggiavano. "Hey ragazzo, mi aiuteresti?", si rivolse allo steward. "Ma certo, di che ha bisogno?", rispose il ragazzo. I due si recarono in un punto della spiaggia affianco alla loro, dove c'erano degli scogli, e James tirò su un secchiello pieno di ricci di mare. Poi ne prese uno in mano, estrasse un coltellino, e lo aprì in due. Il giovane steward rimase a guardare mentre il compagno legava tre o quattro ricci in una rete, che poi lanciò in acqua. Dopo pochi secondi disse: "Aiutami a tirarla su!", ed entrambi la riavvolsero, da un capo all'altro, tirandola fuori dall'acqua. Con gran stupore di Henry, la rete era già piena di pesci! "La cena è servita!", disse poi tutto allegro James quando rientrò al campo. Ormai era il crepuscolo e la gente fu felice nel vedere i due compagni che rientravano con qualcosa di commestibile. Sbattettero un paio di orate sui sassi bollenti, sotto ai quali c'era il fuoco, e le lasciarono cucinare.
Jhon si stava specchiando. Era in piedi, vestito bene e profumato. Si aggiustò la cravatta, che detestava, così come detestava tutti gli abiti da pinguino, e raggiunse con Tim il ristorante dove avevano appuntamento. I due uomini del progetto Dharma, li stavano aspettando al tavolo. Dopo una splendida cena, chiesero ancora ai due paleontologi se erano interessati a quell'offerta. Gli dissero inoltre dove andare a ritirare l'attrezzatura e gli ricordarono la somma che avrebbero retribuito, in cambio di collaborazione. Jhon, che era un tipo molto diffidente, cominciò a obiettare riguardo lo stile di pagamento e sul fatto che avrebbe lavorato, abbandonando tra l'altro i suoi scavi, senza nemmeno firmare nessun contratto. Ma l'altro lo interruppe, mostrandogli un assegno, con su la cifra di 4 milioni di euro. A quel punto Jhon, sarcastico, chiese come faceva ad essere sicuro che non fosse un assegno scoperto, e l'altro signore gli disse di tenerlo e di versarlo in banca. Solo quando avrebbe visto i soldi fisicamente sul suo conto, allora avrebbe potuto essere sicuro e accettare così l'incarico. Jhon e Tim, che con lo sguardo stava praticamente implorando il suo professore di sentir ragione, si guardarono e sorrisero.
La sera stessa Jhon rientrò nell'albergo dove alloggiava, e fu felice di togliersi finalmente quella camicia stretta di dosso. Si sedette sul letto a petto nudo e appoggiò i gomiti sulle ginocchia, con la testa china verso il pavimento. Gli piaceva godersi quei pochi momenti liberi per riflettere e stare un po' da solo con se stesso. All'improvvisò però suonò il campanello. Allora Jhon cercò subito una maglietta da indossare, e coi capelli spettinati andò curioso ad aprire. Chi poteva essere a quell'ora? Nessuno sapeva che era li, se non Tim o qualche suo collega di lavoro. Un uomo curioso, tutto vestito di nero, leggermente massiccio e con uno strano bastone in mano, gli si presentò davanti sorridente. Jhon gli chiese chi fosse, e lui subito rispose cordiale: "Scusi signore se la disturbo a quest'ora. Ma deve aver perso questo per strada...". E gli mostrò il bigliettino da visita che gli aveva lasciato uno dei due uomini del progetto Dharma. Jhon lo afferrò e lo guardò stupefatto. Subito dopo rispose: "Ma scusi, lei come faceva a sapere dove mi trovassi?". Allora l'uomo disse: "Nessuno può saperlo, in fondo non sappiamo nemmeno perché ci troviamo qui..." e sorrise. Poi continuò: "Ma in fondo dov'è qui? Se c'è veramente qualcosa che stiamo cercando, credo che dovremmo seguire il nostro istinto.. e lasciare perdere tutte le distrazioni. Beh, le auguro una buona serata professore... buonanotte!". Prese e se ne andò... Jhon rimase allibito, col braccio ancora sospeso e il bigliettino in mano, sulla soglia della sua camera, mentre con lo sguardo fissava l'uomo andarsene giù per le scale dell'hotel.
EPISODIO 4 - PRIGIONIERI
Quando Daniel aprì quella busta bianca, non si aspettava certo che fosse una lettera di Anne. Rimase esterrefatto appena vide il nome della donna che amava, scritto in penna, con una scrittura che gli era familiare. Ormai era quasi un anno che non si vedevano, eppure tra loro c'era ancora qualcosa. Si capiva. L'amore non era finito, anche perché si erano amati così tanto che mai nessuno li avrebbe più immaginati separati l'uno dall'altra. Quando finì di leggere la lettera aveva gli occhi lucidi, anzi scoppiò a piangere come un ragazzino. Era da solo nel suo soggiorno, dove viveva ormai da un anno. Si era trasferito a Londra per cercare una vita migliore. Ora li, serviva una famiglia nobile, che però lo trattava come uno straccio. Beh, non poteva lamentarsi dato lo stipendio che percepiva. Si poteva dire che ora stava finalmente bene. Economicamente si intende. È chiaro che aveva un vuoto dentro. Tanto grosso che colmarlo non era certo un'impresa facile. Solo lei poteva farlo. Lei era la cura alla sua malattia, la malattia peggiore che c'è: la solitudine. Non ci pensò due volte, andò in una cabina telefonica e la chiamò, sul nuovo numero di telefono che lei gli aveva scritto sulla lettera. Rispose dopo il sesto squillo e quasi Daniel non ci crebbe. Si impappinò per l'emozione ma riuscì comunque a dirle che avrebbe preso il primo aereo per tornare in Italia, da lei. In realtà lui non viveva proprio a Londra, ma in un paese fuori città. Quindi in fretta e furia fece la valigia e prese il primo treno che lo condusse in città. Da qui trovò un volo che lo riportò nella sua patria. Quando i due si vedettero in stazione fu proprio una scena da film. Ma quando il destino si accanisce su una cosa, non c'è niente che può impedirgli di ottenere ciò che vuole. Evidentemente i due non erano destinati a stare insieme. Infatti poco tempo dopo, non appena erano andati a convivere e avevano avuto da breve un figlio, lei morì per via di un tumore al cervello, che la stroncò nel giro di pochi mesi. Quindi ecco che Daniel si ritrovò di nuovo solo, questa volta con un bambino da crescere. La sua vita era stata difficile fin da piccolo. Aveva sempre vissuto in condizioni economiche decisamente umili. Inoltre aveva perso entrambi i genitori quando era molto giovane, mentre il suo fratello maggiore viveva in Australia ormai da anni. Non lo sentiva neanche più suo fratello ormai. Il suo carattere fragile, la sua età molto giovane, sommate a tutte le disgrazie che aveva subito, lo fecero cadere nella brutta strada: quella della droga. Il bambino gli fu ovviamente tolto dalle assistenze sociali, lui perse tutti i suoi averi e finì ricoverato in una comunità, dove passò tre lunghi anni, nel corso dei quali scappò diverse volte e tentò persino di togliersi la vita. Col tempo per fortuna riuscì a fare passi avanti, guarendo da questa depressione e abbandonando per sempre la droga. Ottenne una licenza di 3 mesi, nel periodo estivo del 2015. Decise di raggiungere così il suo vecchio fratello, che accettò di accoglierlo per qualche tempo a casa sua. Nel frattempo lui si sarebbe trovato magari un lavoro e chissà, non sarebbe più tornato indietro. Cosa che gli avrebbe fatto bene, dato tutto quello che aveva passato. Ecco che pure lui si ritrovò sul volo 0023, con gli occhi stanchi di chi ha lavorato e combattuto tanto, nonostante la sua giovane età. Il volo si schiantò nella notte del 22 giugno su un'isola non segnata dalle mappe nel mezzo, pare, dell'oceano indiano. Però quando l'aereo ammarò in mare e i supersiti si accamparono sulla spiaggia, era già l'imbrunire. Nessuno si era ancora saputo spiegare questo, ne come mai nessuno li avesse ancora trovati e portati in salvo. Per non parlare delle creature preistoriche presenti sull'isola. Era tutto così assurdo che qualcuno credeva addirittura di essere in paradiso, o all'inferno... o comunque di essere morto. E che l'aereo nello schianto fosse andato distrutto con tutti i passeggeri a bordo.
Era già quasi notte quando Daniel, Robert, Justin e Alex stavano rientrando al campo, ma ecco che vennero fiutati da qualcosa. Stavano camminando in un prato alto, il loro accampamento non doveva essere ormai molto lontano. Però col buio cominciava a diventare difficile orientarsi. All'improvviso si sentì un fruscio in mezzo all'erba. Tutti e quattro si bloccarono. "Che diavolo era?", chiese Robert. "Bah.. sarà qualche animale. Avanti continuiamo", disse Alex con tono superficiale. "Qualche animale?", replicò Justin imperterrito. "Nel caso non ve ne fosse accorti, su quest'isola ci sono dei fottuti dinosauri!". Tim li azzittì: "Ehy, dannazione, fate silenzio!". Videro dell'erba muoversi, ma era così alta che non si vedeva chi si nascondesse dietro. "Chi c'è?", urlò Alex. All'improvviso un enorme Veloci Raptor balzò in aria e assalì Robert, che cadde a terra, col dinosauro sopra di lui, intento a sbranarselo. Per lui non ci fu più niente da fare. Nel giro di pochi secondi quel mostro gli aveva aperto il collo con i suoi denti aguzzi! Altri Raptor accerchiarono i suoi compagni, prima che essi potessero soccorrere l'amico. Quando anche gli altri tre pensavano ormai di dover fare la stessa fine, piovvero dal cielo dei fumogeni, che confusero i predatori, dando così modo ai ragazzi di fuggire. "Dobbiamo aiutarlo!" gridò Justin. "Non c'è più niente da fare, dobbiamo metterci in salvo!" gli rispose Alex e lo trascinò via. I tre si misero a correre senza neanche chiedersi chi lanciò i fumogeni in loro aiuto, ma ecco che la risposta gli si presentò davanti. Degli indigeni, vestiti con stracci e liane, li circondarono e ne fecero esplodere altri. I tre persero i sensi.
Nel frattempo Jhon arrivò di corsa al campo. Era già giorno. La gente, che era già preoccupata all'idea che quelli partiti nella giungla ancora non rientravano, si spaventò ulteriormente nel vederlo arrivare affannato, pieno di graffi e coi vestiti strappati. Jhon era ferito, ma non gravemente. Qualcuno gli chiese cosa gli fosse successo, a lui, come agli altri suoi compagni. Lui non raccontò dei dinosauri, ma disse solo che si erano divisi ed era tornato li sperando di ritrovare gli altri. "Non sono tornati", disse rammaricato il dottore. "Maledizione...", borbottò Jhon, fissando nuovamente la giungla. Era stato sveglio tutta la notte, quindi i compagni lo costrinsero a riposare prima di ripartire nella foresta per recuperare i suoi amici.
Daniel ora era in aeroporto. Distrutto, sia dentro che fuori. Con in mano la lettera che gli aveva scritto tanti anni fa la sua ragazza amata. Non l'aveva mai buttata. La tenne sempre con se. Era forse il ricordo più dolce che aveva. Ogni tanto se la rileggeva. Non aveva mai superato del tutto quella batosta sentimentale. Come se non bastasse ora aveva perso anche suo figlio, il loro figlio. Cosa gli restava ormai? Solo quella lettera che si portava sempre in tasca e da cui non si separava mai. Una voce annunciò la partenza del suo aereo, così si alzò, mise via la lettera, prese la valigia e si diresse verso il chek in.
Quando Justin, Alex e Daniel si risvegliarono, erano legati a dei pali, in piedi, uno di fronte all'altro. Si guardarono intorno tutti storditi e si accorsero di essere in un villaggio. È chiaro che ci viveva della gente lì. C'erano capanne, residui di focolari e fili con dei panni stesi. Un indigeno uscì da una tenda e si avvicinò. Altri due lo seguirono subito dopo. Il primo chiese a Daniel chi erano e cosa ci facevano sulla loro isola. Lui rispose che erano precipitati con un aereo e che nessuno era ancora venuto a salvarli. Ironico l'indigeno rispose che avrebbe potuto anche aspettare in eterno, tanto nessuno avrebbe trovato quel posto. I tre si guardarono stupiti. Poi il silenzio di tomba. Era arrivato al campo il loro capo, scortato da altri indigeni. Egli era un tipo grosso e paffuto, ricoperto di strane vestaglie e aveva un cerchio di fiori appoggiato sulla sua testa mezza pelata, dal quale sbucavano fuori piccoli ciuffi di capelli grigi spettinati. Cominciarono a parlare tra di loro in una lingua sconosciuta, ma dal tono si capiva che il capo tribù non era contento della presenza di estranei nel loro territorio. Ordinò così ai suoi uomini qualcosa, ed essi si riattivarono subito al suon della sua voce, raccogliendo bastoni infiammati dal focolare, posto al centro dell'accampamento, e avvicinandosi con essi ai tre pali. Sicuramente quel pazzoide aveva ordinato di dar loro fuoco! Non c'era dubbio... ma una voce stridula di un bambino fermò tutti quanti. Aveva anch'egli una corona di foglie in testa. Avrà avuto si e no 7 anni. Sempre in quella lingua strana, disse qualcosa al capo, che subito fece un gesto col braccio e urlò qualcosa, ordinando agli altri indigeni di fermarsi. Solo allora Alex vide altri pali, di cui alcuni bruciacchiati, e residui di piccoli incendi nel terreno sottostante. Sugli altri pali, compresi i loro, c'erano legna e fogliame, e Alex ne fece cenno a Justin, che si prese male. Quei pazzi avevano già bruciato qualcun altro? Il capo della piccola tribù si avvicino ai tre, ma solo dopo si accorsero che si rivolse esclusivamente a Daniel. Gli chiese infatti il suo nome, fissandolo negli occhi col suo sguardo penetrante. Lui rispose spaventato: "Daniel...". L'altro però improvvisamente si inalberò e alzando il tono della voce gli richiese il nome completo, ovvero nome e cognome. Quando Daniel rispose sulle facce di tutti apparve un'espressione di stupore e subito i tre vennero slegati e accompagnati in una gabbia su una carrozza di legno. Cosa stava succedendo li? Quei tizi conoscevano Daniel? Ora li avrebbero risparmiati?
Tim si alzò in piedi di scatto. Era sporco di fango e aveva qualche graffio sparso per il corpo a causa della sua caduta. L'individuo davanti a lui, ora che erano in piedi sembrava più alto e più massiccio e fece un passo avanti minaccioso senza dire una parola. Tim lo fissò. Lo nascondeva, o almeno cercava di nasconderlo, ma era impaurito. Cercare uno scontro, uno contro uno, sembrava una battaglia persa in partenza, anche perché l'indigeno era armato di una specie di catenaccio con attaccata la punta di un martello gigante. Da come si muoveva si capiva che non aveva buone intenzioni. Per istinto Tim decise di scappare, e subito il tipo lo inseguì. Per quanto potesse essere più agile, Tim si fece raggiungere subito dalle lunghe e possenti gambe dell'indigeno, che lanciò il catenaccio a mo di laccio e afferrò il ragazzo alle gambe, facendolo cadere a faccia in giù. Prima che lui potesse liberarsi, l'indigeno era già in piedi davanti a lui e con la forza lo prese e se lo caricò in spalla.
Nel frattempo Jhon si stava preparando per ripartire nella giungla. Stavolta il medico, il Dott. Rossi, un uomo sulla quarantina, e Franz, un giovane poliziotto intorno ai trent'anni, decisero di andare con lui per aiutarlo. Franz aveva salvato la pistola e qualche proiettile dopo lo schianto e sicuramente sarebbe stato di aiuto nel caso avessero dovuto affrontare nuovamente la fauna dell'isola. Tim, intanto, fu portato nella gabbia dove erano stati rinchiusi gli altri tre suoi compagni. "Buongiorno, piccolo il mondo?", disse appena lo sbattettero dentro.
Poi un tendone nero coprì per intero la gabbia, e calò il buio totale.
EPISODIO 5 - RICERCA DISPERATA
Era notte fonda e Jhon, il Dott. Rossi e Franz camminavano ancora nella giungla, armati e costantemente in allerta. L'archeologo aveva dato uno dei suoi coltelli al medico, per difendersi, mentre il poliziotto aveva la sua pistola. Ogni minimo rumore o verso che proveniva dalla giungla li faceva sobbalzare. Ancora Jhon non aveva raccontato dei dinosauri, ma in ogni caso gli altri due avevano già visto quello strano predatore simile a una iena, che qualche notte prima era venuto a far loro visita nella spiaggia, vicino al loro campo.
La carrozza dove stavano i prigionieri cominciò a camminare e lentamente i quattro ragazzi si svegliarono, chiedendosi dove li stessero portando. Daniel era pensieroso. Non sapeva se lo preoccupava di più il fatto che quegli ostili abitanti dell'isola lo conoscevano o che quel bambino avesse un'aria tanto familiare. E casualmente era stato proprio quel marmocchio a riconoscere Daniel e impedire così che venisse ucciso insieme ai suoi compagni. Tim provò a urlare per chiedere dove li stavano portando ma ovviamente nessuno rispose e Justin gli suggerì di risparmiare il fiato.
Era tutto spento, la folla era in delirio. Regnava un'atmosfera magica e alcuni fumi cominciarono a riempire la pista, accompagnati da effetti luminosi prodotti dai piccoli fari posti agli angoli del tetto del locale. Poi le prime note, alcune luci fosforescenti si accesero e iniziò il delirio. Vedere la gente che si scatenava quando era lui a deciderlo, gli dava una soddisfazione immensa. Fare il deejay era la passione della sua vita. E a soli 20 anni Alex era già riuscito a suonare in alcune discoteche e locali famosi di Milano. Tutte le volte la tensione era forte, ma una volta salito in console passava tutto e iniziava il puro divertimento. A fine serata, si concesse un drink e si incamminò verso la macchina parcheggiata fuori, con i suoi amici, che aveva incontrato nel locale, in mezzo alla folla. "Ragazzi vado un attimo a pisciare la dietro", disse - "Non ti perdere ti raccomando.. ahaha", scherzò un amico.
Arrivo in fondo al parcheggio buio, si mise dietro a una macchina, abbassò la cerniera e tirò un sospiro di sollievo. Quando finì e fece per tornare indietro, un uomo gli chiese se avesse da accendere, e lui spensierato tirò fuori l'accendino. L'uomo, grosso e di mezza età, vestito con un cappotto nero e uno strano cappello in testa, nel prendere l'accendino gli accarezzò lievemente la mano, tanto che Alex la ritirò disgustato. Poi disse: "La felicità non è una cosa che si può trovare cercandola. È solo la dimostrazione che possiamo essere noi a scegliere, se cercare la luce o l'oscurità. Tutti possono cambiare, è solo questione di cuore." Poi gli riconsegnò l'accendino, con la sigaretta in bocca e gli augurò una buona serata. Si girò e se ne andò. Alex rispose a stento, ringraziando e contraccambiando. Ma ancora fissava quell'uomo, che se ne andava da solo nel buio, fino a quando sparì. Aveva lo sguardo perso ed era rimasto un attimo fermo a riflettere. Ma poi arrivò un suo amico che quasi lo spaventò e si dimenticò di quella scena, tornando a ridere e scherzare col resto del gruppo.
Era l'alba. Faceva anche un po' freschino. Il telone fu tolto bruscamente da quella gabbia, posta sulla carrozza. I quattro, con gli occhi flesciati dalla luce del sole, guardarono fuori. Ora si trovavano in prossimità di alcune grotte. Furono abbandonati lì e gli fu detto di non farsi più rivedere, altrimenti li avrebbero uccisi. Poi diedero fuoco alla gabbia e se ne andarono. I quattro ragazzi, ancora un po' intontiti esplorarono le grotte, e videro della roba abbandonata. Qualcun'altro era stato li. Poi iniziarono a discutere. Su quell'isola c'era gente. Ma quel posto non era conosciuto dall'uomo, in quanto non segnato sulle mappe. C'erano solo questi indigeni che probabilmente non comunicavano col resto del mondo e vivevano lì, da soli. Il fatto che uccidessero tutti quelli che involontariamente finivano laggiù, nel loro territorio, un po' li allarmava. Ma si tennero presente che a loro, per qualche strano motivo, li avevano invece risparmiati. Ora forse avrebbero dovuto semplicemente tornare al loro accampamento sulla spiaggia e starsene buoni, senza girovagare nell'isola e dar fastidio a nessuno, e solo cosi sarebbero riusciti a sopravvivere nell'attesa dei soccorsi. Già, i soccorsi... ormai era una speranza che si allontanava ogni giorno di più. Ora dovevano tornare al campo. Constatarono che forse avrebbero dovuto raggiungere la spiaggia e farsela tutta a piedi. Ma Daniel non era d'accordo, l'avrebbero allungata. Chissà quanto era grossa l'isola. Magari sbagliavano direzione. Alex approvò. Justin invece era dalla parte di Tim. Attraversare la giungla con gli animali che c'erano non era il massimo delle cose. Il fatto è che avevano fatto il tragitto nella gabbia tutto al buio, e quindi ora non sapevano proprio dove si trovavano.
Alex disse a Justin che si sarebbe alzato un attimo per andare in bagno. Nel camminare lungo la corsia di sedili, sull'aereo, urtò involontariamente un signore che stava sorseggiando un cocktail. Non se ne accorse e proseguì oltre. Raggiunse il bagno, aspettò che uscisse un altro signore, che lo guardò da capo a piedi, e poi si chiuse dentro. In fretta e furia rovistò tra le mille inutilità che aveva in tasca, facendo cadere fazzoletti sporchi e altre cianfrusaglie. Poi finalmente trovò una scheda e un cannoncino. Infilò la mano nelle mutande e tirò fuori una bustina di cocaina. Si inginocchiò a terra, chiuse il water, e aprì la busta, stendendo la coca sull'asse. Poi con la scheda la aggiustò bene, formando una riga, si infilò il cannoncino nella narice e la sniffò. Per qualche secondo rimase in estasi. Tutto intorno a lui iniziò a girare a rallentatore e fu come se per qualche istante il tempo si fermasse. Poi all'improvviso un sobbalzo! L'aereo cominciò a scuotersi tutto e lui si ritrovò come chiuso in una centrifuga. Poi successe qualcosa... qualche lungo interminabile secondo di mancanza di fiato, seguito da un botto terrificante! ... Appena riaprì gli occhi si ritrovò in mare, riemerse in superficie e raggiunse subito un gommone di salvataggio che si era aperto a pochi metri da lui. Uno steward l'aiutò a salire. In pochi minuti raggiunsero la spiaggia e qui si incontrò con Justin. Si abbracciarono, ma erano ancora traumatizzati. In più Alex era in botta. E tutto questo lo aveva scosso dieci volte di più del normale!
EPISODIO 6 - UNA NUOVA VITA
Era pieno giorno. I 22 sopravvissuti rimasti sulla spiaggia, erano impegnati nelle loro faccende quotidiane. Ormai rassegnati che i soccorsi non sarebbero arrivati tanto presto, avevano iniziato ad arrangiarsi per vivere su quell'isola. Avevano allestito un capannone che fungeva da cucina, diverse tende per dormire la notte e dei teloni per raccogliere l'acqua piovana. Si erano proprio arrangiati bene in fondo. La dottoressa Elouise aveva appena medicato il braccio della piccola Margot, che si era graffiata durante il disastro. "Su, dì grazie", disse la mamma della bambina alla piccoletta. Margot sorrise timida e la dottoressa le disse di tenere la garza per ancora qualche ora e che poi sarebbe finalmente guarita. Le due donne si scambiarono un sorriso e poi mamma e figlia si allontanarono insieme. Erano passate quattro notti da quando otto di loro erano partiti nella giungla. Col Dott. Rossi, collega di Elouise, erano partiti un paleontologo e un poliziotto. Forse questo rassicurava un po' la dottoressa, ma probabilmente non bastava. Chissà cosa si nascondeva nella giungla? Senza contare che erano passati diversi giorni ormai e non erano ancora rientrati.
Il padre di quella bambina, se ne era andato tanto tempo fa. Margot era troppo piccola per ricordarselo. La madre, una ragioniera, per mantenerla spesso faceva doppio lavoro, andando a curare delle anziane. La piccola soffriva del fatto che vedeva poco sua mamma. Ma in fondo non era mai sola. Stava un po' dalla nonna, quando era più piccola, fino a quando dopo qualche anno si spense anche lei. Poi iniziò ad andare a scuola e nel pomeriggio frequentava un circolo dove poteva studiare o giocare con altri bambini. Ora di anni ne aveva 8, era un po' timida si.. ma piuttosto sveglia. Però c'era un problema. Diciamo che rispetto alle sue coetanee era un po' diversa. In alcuni momenti aveva strani atteggiamenti e le succedevano cose inspiegabili. A volte sembrava come se per pochi secondi vivesse in un'altra dimensione. Del tipo che si assentava, dormiva o sveniva, ma con gli occhi aperti. E poi ritornava. Nessun medico si era mai spiegato che cosa le succedesse. Altre volte invece parlava come se fosse un'altra persona e poi tornava in se. La madre non era religiosa, ma una sua amica di infanzia le aveva fatto strani ragionamenti riguardanti la possibilità che la bambina avesse due personalità, o roba simile. Ovviamente non le credette e continuò a cercare soluzioni scientifiche, nonostante non se ne trovassero mai.
Da quando Margot era arrivata sull'isola, si comportava in modo strano. Ma questa volta molto più spesso. Era come se quel posto le facesse uno strano effetto. Non era l'unica in fondo a sentirsi strana. Tutti si erano accorti che quell'isola era particolare. Un luogo misterioso e affascinante nello stesso tempo. La notte arrivò presto. Justin, Alex, Tim e Daniel si trovavano accampati intorno a un fuoco su una spiaggia, dove avevano trovato i residui di un vecchio accampamento. Come se già qualcun altro fosse naufragato lì. C'erano tende, pezzi di aereo, addirittura una culla costruita coi rami e il bambù. Oltre ai rottami, avevano trovato anche dei vestiti e vecchi viveri in scatola, tutti marchiati "Dharma". Probabilmente un aereo o una nave che trasportava della merce, si era schiantato lì e i naufraghi avevano costruito un accampamento prima di essere salvati. E se fossero stati loro a rapirli? Magari quella gente non era mai stata salvata e non era mai riuscita a lasciare l'isola. Magari erano li da tanti anni, e ora erano diventati gli indigeni di una nuova civiltà. Oppure, cosa più plausibile, vennero uccisi dagli indigeni dell'isola. Chissà se ora anche i loro compagni al campo erano in pericolo? Fatto sta che quel bambino, che Daniel era convinto di conoscere, aveva fatto in modo che venissero risparmiati. Proprio a un passo dall'essere incendiati vivi, non appena li catturarono. Questo significava sicuramente qualcosa.
Il dott. Rossi era stato chiamato con urgenza per un incidente all'ospedale dove lavorava. L'uomo che era stato sparato, era lo stesso che gli aveva praticamente rovinato la vita, visto che era andato a letto con sua moglie tempo fa. E ora ecco che lo ritrovò li, in sala operatoria, in bilico tra la vita e la morte. E lui doveva salvarlo. Era il suo mestiere, gli toccava. Probabilmente avrebbe cercato di curarlo anche se non fosse stato obbligato. Odiava quell'uomo, ma in fondo non riusciva ad odiare nessuno veramente, perché si sentiva una persona buona.
Ora quell'individuo aveva una ferita da arma da fuoco, e rischiava di morire. Si mise il camice e la mascherina e iniziò a operarlo. A intervento finito, il dottore, che ora stava mangiando qualcosa ai distributori automatici, fu avvisato da un'infermiera che il paziente si era svegliato. Rossi entrò nella sala, posò qualcosa dall'altra parte della stanza, su un mobiletto, passando oltre il lettino.
"Mi hai salvato la vita", disse il paziente. "Gia.." - "Perché?" - "E perché non avrei dovuto?" - "Io non l'avrei fatto" - "Beh, fortuna che non sono te" - "Avresti dovuto mandarmi all'inferno" - "Sono un uomo di scienza, non credo in queste cose... Prendi queste pastiglie e riposati. Hai subito un delicato intervento chirurgico. Non costringermi a doverti ri-operare". Il dottore abbandonò la sala operatoria e tornò alle macchinette. Qui c'era un uomo, piuttosto massiccio, leggermente ricurvo con un giaccone nero e un cappello strano. Non sembrava tanto anziano, ma dava un senso di inquietudine. Il dottore lo guardò mentre provava a raccogliere una monetina che gli era caduta, e che non riusciva a prendere, come se avesse la schiena bloccata. Allora Rossi si inchinò e glie la raccolse, dicendo: "Tutto bene?". L'altro rispose: "Si, molto gentile.. grazie", e sorrise. "Voleva qualcosa dalla macchinetta? Posso aiutarla?", chiese poi Rossi - "A volte ciò che cerchiamo disperatamente per tutta la vita, lo abbiamo proprio a portata di mano.. ma non ce ne rendiamo conto. No, grazie dottore. Sono apposto cosi. Ora vado, buona giornata", rispose l'uomo. E se ne andò...
Il dottore rimase incredulo a fissarlo, mentre si allontanava col suo strano bastone, che prima non aveva notato. Dopo qualche secondo di puro smarrimento, si riprese e infilò la moneta nel distributore per bersi un caffè latte caldo.
Jhon si fermò di scatto, come se avesse percepito qualcosa. Gli altri due si bloccarono anch'essi.
Erano nel mezzo della giungla. In quella zona, era cosi fitta che si vedeva a malapena l'azzurro del cielo. "Che c'è ? Hai sentito qualcosa?" chiese Franz. "Shh" fece Jhon, continuando a fissare davanti. Poi senza dire niente cominciò a muoversi lentamente e gli altri due lo seguirono. Con una mano spostò un cespuglio cercando di fare il meno rumore possibile. "Allora, vuoi dirci che succede?" si alterò Franz. "Silenzio! Ti ho detto di fare silenzio.." bisbigliò Jhon, voltandosi di scatto, col dito sulla bocca. Avanzarono ancora un po', e fu li che potettero vedere la scena macabra di un predatore, simile a quello che arrivò in spiaggia qualche giorno prima, che masticava con gusto il fianco di un Triceratopo, morto, disteso a terra. I tre restarono un po' a fissare affascinati, soprattutto Jhon, ovviamente... fino a quando Rossi disse: "Ehy, coraggio, allontaniamoci di qui..". E così, sulle punte dei piedi, si ritirarono. "Avete visto? È incredibile!", disse Jhon con gli occhi illuminati. "Gia, più incredibile del fatto che non è ancora arrivato nessuno a salvarci! Probabilmente stiamo perfino perdendo tempo, i tuoi amici saranno già stati divorati da quei cosi", disse Franz. "Non puoi saperlo", replicò Jhon. Allora Franz rispose: "Nel caso non te ne fossi accorto, noi siamo armati, ma loro non lo erano, per cui che ne dici di tornare indietro e farla finita con questa missione suicida? Se arriveranno dei soccorsi, guarderanno in spiaggia. E non trovandoci potrebbero andarsene... Non voglio perdere questa occasione. Quindi io dico di tornare indietro, siete d'accordo?". Il dottor Rossi stava per balbettare qualcosa, ma subito Jhon intervenne: "Per quale motivo sei voluto venire con noi, Franz?". Il poliziotto rimase un secondo in silenzio, e poi disse: "Beh, per ritrovare gli altri è ovvio... e poi vi serviva una pistola". Nel suo tono si percepì qualche nota di insicurezza nel rispondere. Ma Jhon spezzò il silenzio: "Sta bene, tornate pure. Io proseguo. Nulla di personale, ma credo che se non vogliate rischiare la vita, sia bene che rientrate prima che faccia buio". E Franz, sarcastico: "Pensi che siamo stupidi, come ritroviamo la strada di casa senza il nostro segugio?". Rossi intervene: "Tranquillo, la so io la strada. Su forza andiamo..". Cosi si girarono e se ne andarono verso la spiaggia, mentre Jhon sparì tra i cespugli.
"Chi si crede di essere?" disse Franz. Il dottore gli rispose: "Non lo so, ma in fondo sembra in gamba. Io mi fiderei di lui". Un pallone andò a sbattere contro un albero e poi rotolò in mezzo a dei cespugli. "Che diavolo?..." esclamò Franz. Da dove veniva quel pallone? L'avevano visto entrambi. Era come se qualcuno gli avesse dato un calcio, ma lì intorno non c'era nessuno. "Chi c'è?", urlò nuovamente il poliziotto, togliendo la sicura alla pistola e impugnandola guardandosi intorno sospettoso. Un ruggito enorme li fece sussultare. Entrambi si guardarono e poi senza pensarci la seconda volta, iniziarono a correre. Un enorme Tirannosaurus Rex uscì dagli alberi e iniziò a inseguirli. "Non volarti, corri!". Franz inciampò, ma si rialzò subito. Il dottore urlò: "Da questa parte!!", e il compagno lo seguì fino a dentro delle liane robuste, che creavano una specie di rifugio. Dei passi pesanti fecero tremare la terra, e poi un altro ruggito potentissimo. Un albero si spezzò e cadde davanti a loro, facendoli spaventare. Poi il silenzio assoluto... Passò qualche minuto interminabile. Entrambi avevano il fiatone e il cuore che batteva a mille. Fuori sembrava tranquillo. A un certo punto Franz decise di uscire, dicendo che andava a controllare. Il dottore tentò di fermarlo, ma poi lo seguì anche lui. "Ok, via libera", disse il primo. Non fece in tempo a dirlo, che una testa enorme scese dall'alto e afferrò il corpo del poliziotto, che non potette più fare niente per liberarsi. L'enorme dinosauro stava masticando il corpo del povero Franz davanti a Rossi, che rimase nascosto a guardare terrorizzato la scena. Schizzi di sangue, la pistola che cadde sull'erba, e poi passi che si allontanavano... Il tirannosauro si era mangiato Franz e ora se ne stava tornando da dove era venuto!
EPISODIO 7 - IL BUNKER
"Maledizione, devo farmi la barba!", esclamò Justin. "Perché non provi con quei rametti là? Sembrano taglienti", rispose sarcasticamente Alex. "Ragazzi, sono giorni che camminiamo e non sappiamo nemmeno in che direzione stiamo andando", disse Daniel. Erano seduti intorno a un fuoco, sulla spiaggia di sera, e oltre a qualche frutto trovato nella giungla, non avevano mangiato niente. La mancanza di proteine cominciava a farsi sentire. Daniel teneva spesso una foto in mano. "Chi è quella?" chiese Tim. "La tua ragazza?" - "Non più ora", rispose gelido l'altro e la mise via. "Stavi andando da lei?", insistette Tim - "Ehy amico, non ne voglio parlare, ok?". Un movimento tra i cespugli li distrassero. Tutti si voltarono di scatto in direzione della giungla. Tim sussurrò di stare calmi, di non muovere un muscolo. Tim, chiunque fosse, ne sapeva sempre più degli altri, su ogni cosa. Conosceva sia tutti i nomi delle piante, che degli animali. Ma fino a quel momento neanche la sua mente scientifica era riuscita a riportarli a casa. Si scorse qualcuno che correva in mezzo alla giungla. Sembrava un bambino, ma nell'oscurità si vedeva ben poco. Daniel gli urlò di fermarsi e scattò in piedi per inseguirlo. Gli altri, stupiti per il comportamento del compagno, balzarono anche loro in piedi, presero dei bastoni infuocati per fare luce, e lo seguirono, correndogli appresso.
Suonò la sveglia. Erano le 7 del mattino. Dalla persiana filtrava un raggio di sole, che creava un'atmosfera piacevole nella camera di Justin. Senza guardare, con una mano spense la sveglia, facendo traballare qualcosa sul comodino, e poi si alzò. Andò in bagno per sciacquarsi la faccia e si sistemò i capelli. Era ancora in boxer e canotta quando andò in cucina per fare colazione. Accese la caffettiera e infilò una tazza di latte nel forno a microonde. Poi accese la tele, prese un paio di jeans e una maglietta abbandonati su una sedia e se li infilò. Al notiziario si parlava di una tempesta che avrebbe colpito la riviera Ligure nelle prossime settimane. Finita la colazione, tirò su uno zaino e si chiuse la porta di casa alle spalle. Scese in box, tirò fuori il motorino, si mise il casco e un giubottino per il vento e si infilò nella trafficata strada del lungo mare, per andare a lavoro. Non ci si stancava mai di assaporare i deliziosi profumi mattutini del mare, del pane fresco e dei fantastici bomboloni alla crema, per i quali Justin andava matto. Tra i claxon delle auto e le urla dei pescivendoli lungo la strada, Justin arrivò finalmente al supermercato dove lavorava. Parcheggiò il motorino nel cortile sul retro e togliendosi il casco vide passare dei colleghi, che salutò con il braccio. Da li si poteva sentire invece il delizioso odore di focaccia ligure, che proveniva da un panificio vicino, e che faceva venire l'acquolina in bocca a qualsiasi ora. Rinvenuto da tale estasi, Justin entrò. Andò nei camerini e iniziò a cambiarsi. Il responsabile del punto vendita lo raggiunse poco dopo. "Buongiorno Justin", disse. "Buongiorno a te, Peter", rispose il ragazzo. Poi lo guardò di nuovo, mentre si stava infilando le scarpe antinfortunistiche e gli chiese: "Che c'è?". Il responsabile lo rimproverò per aver confuso della merce che a Justin fu incaricato di consegnare a domicilio. Lui chiese scusa, ma l'altro replicò che era sempre la stessa storia, e che se avesse avuto dei problemi, avrebbe dovuto cercare di risolverli, senza farli influire sul suo rendimento lavorativo. Non era la prima volta che Justin combinava qualche guaio. Non perché fosse impedito o svogliato, ma perché in quel periodo era sommerso di pensieri e probabilmente aveva bisogno di una vacanza. L'estate si avvicinava, ma questa volta il suo superiore gli diede l'ultima possibilità, dopo di che l'avrebbe fatto licenziare! L'aveva combinata grossa sta volta... quindi chissà se avrebbe fatto in tempo a godere delle sue ferie, prima di essere cacciato via, pensò impaurito.
Justin aveva già cambiato tantissimi lavori in pochi anni. Aveva lasciato la scuola a 17 anni, perché non aveva più voglia di studiare, e così decise di provare ad iniziare a lavorare. Detto fatto, un mese dopo era già stato assunto come magazziniere, nella sua città d'origine, Milano. Lavorò lì per due anni, fino a quando cadde nella droga e cominciò a non presentarsi sul posto di lavoro, facendosi così licenziare dai suoi ex titolari. Poi fece anche l'aiutante nei cantieri, il corriere delle pizze e tanti altri piccoli lavori, che però non gli servirono a niente. Non riusciva mai a mettere via un centesimo. Per questo decise di trasferirsi in Liguria, dove riuscì a trovare lavoro presso quel supermercato e con lo stipendio che percepiva poteva permettersi un affitto nella casa dove viveva. Lavorava li ormai da quasi un anno e si trovava bene in fondo, perché era in un posto di mare, come aveva sempre sognato e inoltre, allontanandosi dalla famiglia e dalle brutte compagnie che lo avevano rovinato, riuscì a trovare finalmente un po' di serenità. Era ormai un annetto che non si faceva, ma ancora adesso a volte stava male e ne sentiva la necessità. Prima di lasciare la città, ebbe la fortuna di uscire dalla droga. Cosa che non aveva fatto invece il suo migliore amico, Alex, che ci era ancora dentro. I due non si parlavano ormai da tanto tempo. A Justin gli mancava, perché erano cresciuti insieme. Però in effetti era meglio così. Se avessero continuato ad essere amici, probabilmente ora chissà dove sarebbe...
Ora Justin stava sistemando della merce sullo scaffale, aprendo mano a mano le scatole dal carrello, e riponendo i singoli prodotti nella loro postazione. La sua corsia era libera in quel momento. Non c'era molta clientela di mattino. Spensierato, mentre canticchiava qualcosa, gli si avvicinò un uomo che gli chiese dov'era lo zucchero. Justin, tranquillamente gli indicò la seconda corsia sulla destra. E poi riprese imperterrito a rifornire lo scaffale. Era convinto ormai di essere solo, eppure si spaventò quando vide lo stesso uomo, che gli aveva chiesto informazioni qualche istante prima, li a pochi centimetri sulla sua destra, immobile che lo fissava. Era massiccio, abbastanza alto e aveva una specie di cappotto nero che gli copriva tutto il corpo. Sulla mano destra teneva un bastone strano, che sembrava quasi un ramo di un albero scolpito e decorato, e in testa aveva uno strano cappello, che gli oscurava gli occhi, facendo risaltare così il suo faccione imponente. Justin non riuscì a spiaccicare una parola e continuava a fissare l'uomo con un misto di stupore e spavento. Così il signore disse: "Nella vita non importa che scelte facciamo. L'unica cosa che conta è saperle portare avanti. Grazie per lo zucchero, buona giornata". Tirò fuori, non si sa da dove, una scatola di zucchero, che fece scuotere con la mano destra. Sorrise e se ne andò. Justin continuò a rimanere senza parole e fissò l'uomo che si recava verso le casse. Come aveva fatto a raggiungere la corsia dello zucchero in cosi pochi secondi? Perché non si era accorto che in realtà l'uomo non si era mai allontanato da lui? Poi pensò che forse si era distratto e che il cliente avesse avuto intanto tutto il tempo necessario per raggiungere la corsia interessata e poi tornare lì. Si, ma chi era? Perché gli aveva detto quella strana frase? L'aveva già incontrato prima? Non si ricordava di lui, eppure sembrava che l'altro lo conoscesse! Dopo qualche lungo secondo tornò in se, eliminò gli strani pensieri, e si rimise a lavorare.
I quattro ragazzi stavano correndo disperatamente nella giungla. Ormai stava facendo buio e di certo non era una buona idea. Però avevano visto qualcuno, e Daniel ora lo stava inseguendo. Non potevano lasciarlo andare da solo. A un certo punto lo persero di vista, e tutti e tre iniziarono a chiamarlo, urlando il suo nome. Poi Justin scorse qualcosa alla sua destra e urlò: "Di qua!". E cosi si rimisero a correre, ma niente... l'avevano perso. Si sentiva solo il cinguettare degli uccellini e un lieve venticello tra le foglie. All'improvviso un pallone andò a sbattere contro un albero e poi rotolò in mezzo ai cespugli, sfiorando Justin. "Che cos'era? L'avete visto anche voi?", chiese il ragazzo. Prima che gli altri potessero rispondere, un Velociraptor saltò all'improvviso fuori dalla giungla e balzò addosso a Justin, facendolo cadere all'indietro. Il dinosauro gli stava sopra ed era questione di pochi attimi, prima che lo azzannasse e se lo divorasse. Gli altri due rimasero pietrificati e si fecero indietro. Successe tutto nell'arco di pochi secondi, che nessuno ebbe il tempo per fare qualcosa. Poi uno sparo. Il velociraptor fu colpito sul fianco sinistro da un enorme proiettile, emise un gemito e schizzò via terrorizzato. Justin era salvo. Non ci credeva ancora! Non fece in tempo neanche a sospirare, che un uomo uscì fuori dalla giungla e li chiamò, invitandoli a seguirlo in fretta. I tre non ci pensarono due volte. Alex e Tim aiutarono Justin ad alzarsi e corsero dietro a quell'uomo, che aveva in mano un fucile. Arrivarono davanti a delle porte di metallo, che sembrava conducessero sotto terra. L'uomo le aprì in fretta e furia e gridò: "Svelti! Dentro!". I ragazzi, increduli, non se lo fecero ripetere un'altra volta, e scesero per le scale, che in effetti portavano sotto terra. L'uomo che li aveva salvati si richiuse le enormi ante di metallo alle spalle e accese una luce, che illuminò tutte le scale.
Si trovavano in un bunker. Quel posto era a dir poco inquietante. C'erano pareti vecchie, molte lampadine fulminate ed evidenti segni di abbandono. L'uomo passò in mezzo ai ragazzi e li invitò a seguirlo. Finite le scale, iniziavano diversi corridoi. Ogni tanto c'era il simbolo del Dharma sulle pareti, lo stesso simbolo che avevano già visto il giorno prima sugli alimenti in scatola in quel vecchio accampamento abbandonato, sulla spiaggia. I ragazzi seguirono il tizio che era entrato in una stanza. Era una specie di sala operatoria, o comunque un luogo dove venivano fatti esperimenti medici. Si capiva dalle vecchie attrezzature impolverate. L'uomo aveva addosso un'uniforme grigia coi simboli Dharma sulle ginocchia, uno sul cuore delle stesse dimensioni, e uno invece più grande sulla schiena. Quel tizio doveva avere una sessantina d'anni. Capelli un po' lunghi e spettinati e lo sguardo vivace. Nei movimenti era piuttosto frettoloso, anche se ora erano al sicuro. E anche nel modo di parlare. I tre ragazzi erano in piedi, appena dentro la porta e lui continuava a rovistare negli armadietti, dando loro le spalle. Prima che qualcuno potesse dire qualcosa, l'uomo lanciò una scatoletta di fagioli a ognuno di loro e poi appoggiò sul tavolo operatorio, che era in mezzo alla stanza, posate in buste di plastica e crackers. Si aprì anche lui una scatola di fagioli, appoggiato dall'altro lato del letto, contro dei tavolini, e iniziò a mangiare. I tre erano rimasti ancora immobili a fissarlo. "Beh, non avete fame?", disse lui. Alex, che era il più ingordo, prese un cucchiaio e iniziò a divorarsi quei legumi. "Ah già, vorrete sapere chi sono...", parlò ancora l'uomo. Justin disse: "Si, innanzi tutto grazie per averci aiutato. Però potrebbe spiegarci dove ci troviamo e chi è lei?". Il tipo del progetto Dharma appoggiò bruscamente la scatola di fagioli ancora a metà e si sollevò dicendo: "Forse voi, dovreste spiegarmi chi siete e cosa ci fate su quest'isola... Io qui ci lavoro, siete anche voi membri del progetto Dharma?". "Progetto Dharma?!" esclamò Tim. "Mi sembrava familiare quel simbolo! Ecco dove lo avevo già visto! Senta, non so chi sia lei, ma io e il mio capo, siamo stati assunti da voi, e ora siamo precipitati insieme a queste altre persone su quest'isola. Ci potreste aiutare? Avete delle ricetrasmittenti, o qualcosa per comunicare con la terra ferma?". L'uomo sembrò ignorare le problematiche dei nuovi arrivati. "Mi prendete per fesso?! Un aereo? E io dovrei aiutarvi... dunque vediamo. Sono stato abbandonato qui tre anni fa. Non è rimasto più nessuno della mia equipe su quest'isola. Sono andati via tutti. Oh certo! Sono rimasti gli ostili, già... tipi poco amichevoli. Li avete già conosciuti? No, ovvio. Non sareste qui ora ahahah... già, loro e... ovviamente i dinosauri. Quelli di cui fu affidato a me, il compito di addestrarli e assistere alla loro crescita. Ma... come avete già potuto notare, la situazione ci è sfuggita di mano. Ora loro sono liberi, nella giungla! E i miei coraggiosissimi ed esimi colleghi hanno pensato bene di svignarsela, lasciandomi qui. Già.. perché avrebbero dovuto preoccuparsi di me? In fondo sono solo io che gli ho fatti nascere! Prima che la Struttura venisse distrutta dalla Recluta, certo.. E io, che li ho cresciuti e ho permesso loro che si potessero ambientare, in questo nuovo habitat! Beh, acqua passata. Quindi scusatemi tanto, ma non credo di essere la persona più idonea per aiutarvi! Soprattutto in queste circostanze, come potete vedere...".
"Ma dovrà pure avere un modo di comunicare col resto del mondo, ci sarà un modo per lasciare l'isola!", esclamò Alex a bocca piena, che aveva appena finito sia i fagioli che i crackers, e aveva appoggiato il tutto sul lettino. Prima che lo scienziato potesse rispondere, Tim, sempre più nervoso intervenne: "Un momento, quindi sta dicendo che il progetto Dharma non esiste più da tre anni? E chi è che ci avrebbe assunto, a me e al professor Evergrand?". "Senti, giovanotto. Io non so come voi siate finiti in questo inferno. Ma ti assicuro che chiunque ti abbia promesso di lavorare ai grandiosi progetti sugli animali preistorici, di studiarli da vicino, piuttosto che scavare dei ridicoli fossili, beh, probabilmente ti ha mentito!!! Qui, NON C'E PIU NIENTE DA POTER STUDIARE, LO CAPISCI? È andato tutto distrutto. I documenti, i vaccini, i progetti... TUTTO!", rispose lo scienziato, alterandosi. Tim rimase un secondo a pensare, poi disse, con la voce un po' più bassa: "Dovevo immaginarlo che fosse una truffa... nessun contratto, stipendio da politico... era una truffa!". Ora era come se parlasse da solo: "Ma allora chi erano quelle persone che ci hanno ingaggiato?". Adesso si rivolse di nuovo allo scienziato: "Siete dei farabutti! Dei truffatori!". "Calma ragazzo! Io non c'ero quando qualche misterioso benefattore vi ha portati qui. Io ero già su quest'isola.", replicò l'uomo del bunker. Rimasero diversi minuti a discutere su quanto fosse ingiusta la vita. Justin chiese allo scienziato come aveva fatto a sopravvivere là per tutto questo tempo, mentre Tim era interessato a quella famosa 'Recluta', che aveva menzionato poco fa nel suo racconto. Pare che l'uomo fosse sopravvissuto tutto quel tempo con lo scatolame, marchiato Dharma. Si era fatto una scorta prendendo il cibo da un'altra parte. E quella Struttura di cui parlava, pare che fosse il luogo dove facevano nascere i dinosauri, e che fosse stata poi distrutta a causa di un incidente, provocato dalla perdita di controllo di questo nuovo esemplare, che avevano dato alla luce loro stessi. Una vera e propria macchina da guerra, da come fu descritta dallo scienziato. Alex e Justin erano sempre più meravigliati a sentire quei discorsi su animali estinti da milioni di anni, che ora girovagavano li con loro, sulla stessa isola. Tim un po' meno, dato che si aspettava già di trovare complicazioni simili, proprio come il suo professore. Erano mille le domande che i sopravvissuti del volo 0023 avrebbero voluto fare, ma all'improvviso, un rumore metallico, stile tonfo, li interruppe. "I Raptor... ci hanno trovato!", esclamò lo scienziato. "Come fanno a...?", disse Justin, ma fu interrotto dallo scienziato, che schizzò pazzo fuori dalla stanza col suo fucile legato a tracolla. "Un momento!" , disse Tim.
"Dove va ora?", chiese ancora scocciato il giovane archeologo. Lo scienziato, già in mezzo al corridoio, si fermò e voltandosi disse con voce gelida: "Li avete portati voi, qui!". "Noi?", replicò Tim, "Le porte sono chiuse no?". Lo scienziato si voltò nuovamente: "Ahahah... tu sei un paleontologo vero? Bene. Sappi che quelle creature sono state geneticamente modificate. E se pensi che delle semplici porte di metallo li possano fermare, beh, sappi che...". Un tonfo fortissimo! E il rumore di qualcosa di pesante, che cadde e rotolò per le scale... i Raptor avevano abbattuto le porte... stavano entrando!
Tutti corsero dietro al professor Gulam. Così c'era scritto sul suo tesserino di riconoscimento, appeso alla sua divisa. Entrarono in un'altra stanza, si distribuirono delle armi e poi lo scienziato raggiunse un contatore e spense tutte le luci. Ora erano al buio nascosti... Pochi secondi di inquietante silenzio, e poi dei rumori. Erano gli artigli dei Raptor che sbattevano a terra. Stavano camminando all'interno della struttura. "State giù", bisbigliò Gulam. Ora si trovavano tutti dietro ad un tavolo, nella stanza buia porta, la cui era stata chiusa dallo scienziato, prima di accovacciarsi anche lui. Un verso acuto, seguito da rumori di roba che cade a terra e altri piccoli versi in lontananza... Poi la sagoma di uno di quei mostri passò dietro al vetro della finestra della loro stanza. Fortunatamente il dinosauro non li fiutò e continuò lentamente a camminare, passando oltre. Poi un'altra sagoma uguale, e un'altra ancora. Rimasero lì per un po'. Lunghi minuti interminabili di alta tachicardia e sudore freddo. Sembrava un film horror. Poco dopo Gulam si alzò e andò a spiare fuori. Probabilmente aveva un piano. Infatti: "Ora mentre io li distraggo, voi scappate fuori. Se altri di loro dovessero sorprendervi durante la fuga... non esitate ad usare le armi. Sono già carichi a proposito, col colpo in canna... Non tornate indietro per nessun motivo. Schizzate subito via, in mezzo alla giungla. Questo posto ormai l'hanno scoperto, e non ci potremo ritornare mai più!". "Venga con noi" disse Alex, "Possiamo farcela. Sono andati di là..". "No", rispose Gulam. "Sono troppo furbi. Più astuti ancora dei primati e dei delfini. Inoltre devo recuperare della roba importante prima. Ora forza! Andate! Io vi raggiungo. Non potete farcela altrimenti...". Senza più polemizzare, i tre ragazzi uscirono sulle punta dei piedi dalla stanza e si avviarono verso l'uscita, coi fucili in mano. Il professore era già andato nella direzione opposta del corridoio, proprio dove si erano diretti i tre Raptor. C'erano le luci dei neon notturni per fortuna a illuminare, seppur lievemente, il corridoio del bunker. C'erano anche i segnali delle uscite di emergenza accesi. "Da dove pensate che arrivi tutta questa elettricità?" chiese Alex. Avevano già quasi raggiunto l'uscita quando sentirono dei versi e degli spari, susseguiti dalle grida del professore. "Via!" urlò Justin. E scapparono verso le scale. Qui dovettero scavalcare una delle ante che era finita in basso cadendo, mentre l'altra si trovava ancora parzialmente appesa all'ingresso, ma completamente sfondata e deformata dall'abbattimento provocato dai dinosauri. Scapparono di fuori e appena raggiunti gli alberi, sentirono altri spari e poi il silenzio. "Dovremmo tornare là a vedere che succede", bisbigliò Justin. "No, non è una buona idea. Mi dispiace ma il professore dovrà cavarsela da solo. Non possiamo più aiutarlo. Adesso andiamo via, forza!", rispose Tim. E tutti e tre si diressero correndo nella giungla.
EPISODIO 8 - DI NUOVO TUTTI INSIEME
Notte fonda: Margot si svegliò urlando e piangendo. Tutti, per prima la madre, si recarono sul posto per vedere cosa stesse succedendo. Cercarono di tranquillizzarla. La madre era più disperata di lei. Alla fine riuscirono a chiederle cosa fosse successo e lei rispose, con le pupille dilatate, sussurrando: "Franz.. Franz.. Robert..". Aveva lo sguardo fisso nel vuoto, ma non fissava niente. Era come fosse sonnambula, ma tremava e sudava freddo. Qualcuno disse: "Cosa ha detto? Voi avete sentito?". Elouise rispose che aveva pronunciato i nomi di alcuni di loro, quelli che erano andati in spedizione nella giungla. Charlotte allora si rivolse alla figlia, singhiozzando più di lei: "Amore che stai dicendo!? Che cosa gli è successo?!".
Poco dopo la bambina si addormentò di nuovo. Per lei era come se avesse fatto un incubo, che però il giorno dopo avrebbe dimenticato. Restarono in molti svegli a discutere sull'accaduto, mentre la dottoressa teneva per mano Charlotte e la consolava.
Il Dott. Rossi stava ancora tremando, guardando il braccio di Franz, caduto sul terreno davanti al rifugio di liane, dove quest'ultimo era stato divorato dal Tirex. Era l'alba e lui non si era mosso da lì. Si alzò e pensò che forse ora poteva avventurarsi nella foresta per tentare di raggiungere il campo. E così fece, sospirò, contò fino a cinque e uscì dalle liane...
Matteo Rossi, si alzò dal tavolo. Strinse la mano a tutti i suoi colleghi e finalmente si recò verso l'uscita dell'ospedale, passando prima a prendere le sue cose, per poi tornare a casa. Quando stava per timbrare il badge, la voce di Elouise lo interruppe. Lei quella sera faceva il turno notturno e vedendo andar via, l'amico e collega Matteo Rossi, andò verso l'uscita per salutarlo e dargli la buonanotte. Lei, che era anche psicoanalista, era stata molto vicino a Rossi. Soprattutto dopo il divorzio con la moglie e successivamente la morte della figlia. Non aveva mai superato la perdita di Emily, la ragazza diciassettenne che venne investita una sera, la prima sera tra l'altro, in cui era uscita da sola con gli amici per la prima volta. Un pirata della strada dissero... qualche ubriaco probabilmente. Anche una sua amica rimase vittima dell'incidente, ma riportò solo qualche lieve ferita, mentre per Emily non ci fu proprio niente da fare. La macchina l'aveva colpita in pieno, mentre la ragazza attraversava la strada per andare a prendere la navetta notturna con gli amici, appena usciti dalla discoteca. Questo era successo quattro anni fa, quasi cinque per l'esattezza. Ovviamente un genitore non supera mai una disgrazia simile. Matteo però, era abbastanza forte di carattere, e inoltre non aveva troppa scelta... doveva comunque andare avanti!
Ormai il chiarore del sole cominciava ad illuminare il percorso. Alcuni raggi filtravano in mezzo agli alberi più alti, illustrando a Rossi il cammino per ritornare alla spiaggia. Il dott. Rossi era distrutto. Sia distrutto fisicamente, per le ultime giornate d'inferno passate, sia distrutto dentro. Ora era perfino precipitato su quella pazza isola. Per un uomo semplice e comune come lui, questo era troppo...
Anche Justin, Tim e Alex stavano camminando nella giungla, esausti, ma senza il coraggio di fermarsi, dopo quello che gli era capitato. Ora sapevano pure che c'era un predatore più feroce in giro per l'isola. Questo di certo non li tranquillizzava. Intravidero qualcosa. Erano tornati alla pianura dove per la prima volta videro dei dinosauri, con Jhon e Robert. Sentirono anche qualche verso in lontananza. Anche se quei bestioni erano enormi, in qualche modo quel punto li faceva sentire al sicuro, e comunque vicini a casa. 'Casa'... ormai cominciavano a dimenticare cosa significasse quella parola. Stavano tutti iniziando una nuova vita su quell'isola, e cominciavano a rassegnarsi che qualcuno potesse venire a salvarli.
Mentre Jhon camminava sentì delle urla. Allora, curioso, si diresse nella direzione da dove pensava che provenissero. Oltre gli ultimi cespugli c'era un dirupo. Era un letto di un fiume, ma molto profondo, ed era secco. Appeso a delle liane c'era qualcuno. Jhon di corsa si sporse e vide Daniel, che cercava disperatamente di arrampicarsi per mettersi in salvo. Jhon gli chiese come ci fosse finito lì. E l'altro disse che era inciampato e rotolato giù da un pendio. Ma Jhon non intendeva questo, era piuttosto banale che fosse finito lì cadendo. Quindi allungò un braccio e lo aiutò a tirarsi su. Daniel era tutto graffiato e sporco di terra. Aveva la camicia e i pantaloni strappati ovunque. Jhon gli passò una borraccia e fece bere l'amico. Poi gli chiese cosa ci faceva da queste parti, perché non era tornato con gli altri alla spiaggia. Lui gli raccontò del rapimento, omettendo la parte in cui quel misterioso bambino lo riconobbe e fece così liberare lui e suoi compagni. Poi gli disse che tornando si erano imbattuti in alcune bestie e che scappando si erano divisi. Ora non sapeva come ritrovare la strada di casa però. Allora Jhon, gli indicò l'est. Avrebbe dovuto andare nella direzione del suo dito indice. Così avrebbe raggiunto grossomodo la spiaggia dove si erano accampati. Daniel gli chiese perché non voleva tornare con lui. E il paleontologo rispose che ora avrebbe seguito la sua strada. Così Daniel si incamminò verso la spiaggia, e Jhon tornò a esplorare l'isola, col suo zaino e il suo coltello.
L'aereo 0023 Pechino - Sidney proseguiva tranquillamente il suo viaggio. Finora non aveva ancora subito turbolenze o altro. Il viaggio era andato liscissimo. Matteo ed Elouise erano seduti vicini.
Entrambi dovevano raggiungere l'Australia per un congresso di medici che si sarebbe tenuto laggiù.
Il dottore si alzò per andare in bagno. Trovò libero e, appena finito i suoi bisogni, quando aprì la porta si trovò davanti un ragazzo. Aveva un aspetto orribile e gli tremavano le mani. Sembrava avesse fretta di entrare in bagno. Forse si sentiva male, pensò. "Tutto bene giovanotto?", gli chiese. L'altro rispose che era solo un po' di nausea, ma Rossi riconosceva perfettamente i sintomi dell'astinenza da droga. Avrebbe voluto aiutarlo, ma in quell'ambito sarebbe stato solo disagevole per entrambi. Più avanti, nello scompartimento successivo, c'erano persone che scherzavano e ridevano di gusto. Tutto questo dava un po' di ottimismo a Matteo, che proprio in quel periodo stava cominciando a ritrovare il sorriso. Appena fece per sedersi, un enorme vuoto d'aria lo scaraventò in aria. L'aereo iniziò a vibrare e pochi secondi dopo un immenso bagliore di luce bianca travolse il velivolo... e poi perse i sensi.
Quando si risvegliò, era sull'isola, sdraiato all'ombra sotto una palma in una spettacolare spiaggia tropicale. Sembrava il paradiso. C'era Elouise sopra di lui, che lo medicava. "Hai preso una bella botta in testa", disse la dottoressa al collega. "Dove siamo?", chiese Matteo - "Siamo precipitati su un'isola deserta pare... quei signori laggiù hanno detto che presto rintracceranno la scatola nera e arriveranno i soccorsi", e indicò i membri dell'equipaggio, che erano in piedi in mezzo alla spiaggia e discutevano con altri supersiti. "Quanti siamo? ... Quanti sopravvissuti?", domandò Rossi. "Una trentina", rispose Elouise abbattuta. All'improvviso, una bestiaccia simile ad una iena gigante, balzò fuori dai cespugli, una ventina di metri più in la, e attaccò un cinghiale davanti a tutti. Subito dopo la creatura si ritirò nella giungla, con la preda tra i denti. "Fantastico...", concluse ironico Rossi.
Era quasi il tramonto ormai. Finalmente si intravedeva il mare. Matteo era esausto. Si appoggiò un attimo a un tronco di un albero, quando sentì qualcosa frusciare tra le foglie. Subito si allarmò e cominciò impaurito a guardarsi intorno. Alle sue spalle sbucò Daniel. Matteo stava già per lanciargli una pietra in testa. "Tranquillo! Sono io!", urlò l'amico.
Entrambi proseguirono insieme verso la spiaggia, quando si imbatterono in uno spettacolo orripilante. Un corpo, o meglio ciò che restava di un corpo, completamente sbranato, con un gamba staccata, e pezzi di vestiti strappati tutti intorno. C'era una puzza terrificante e centinaia di insetti lungo tutto il cadavere. "È Robert...", commentò Daniel. "Cosa gli è successo?", rispose Rossi. "Siamo stati attaccati da alcuni dinosauri", rispose l'amico. E poi proseguì. Rossi rimase un momento indietro a fissare il cadavere, e poi con un piccolo scattò andò dietro al compagno.
Un'enorme palla rossa stava per sprofondare nell'oceano, all'orizzonte. Le nuvole erano tutte colorate. Un tramonto così bello era raro riuscire a vederlo. Eppure, nonostante tutte le disgrazie, non si poteva negare che quel luogo, dove erano precipitati, era veramente incantevole.
Da in fondo alla spiaggia arrivarono Justin, Alex e Tim, con i rispettivi fucili a tracolla. La gente li vide e iniziò a urlare felice, correndogli incontro. Subito dopo di loro si intravidero altre due persone che si avvicinavano. Erano Daniel e Rossi. Elouise stava proprio cercando il volto del dottore in mezzo a quella folla che festeggiava felice il ritorno dei loro compagni. Quando la dottoressa vide Matteo, gli corse subito incontro e lo abbracciò forte, commossa. Tim chiese al gruppo: "Jhon è tornato? Qualcuno lo ha visto?". Gli risposero di no, e lui si voltò verso l'enorme giungla con la faccia sconvolta, e la speranza che non gli fosse accaduto niente di male.
EPISODIO 9 - IN MEZZO AI CESPUGLI
Erano passate ormai sei settimane, da quando l'aereo 0023 si schiantò su un'isola sconosciuta, non segnata sulle mappe, sulla quale vivevano addirittura animali preistorici, che l'uomo credeva fossero estinti ormai da milioni di anni. Presto i passeggeri scoprirono di non essere soli su quell'isola. C'erano degli indigeni, non molto ospitali e piuttosto ostili. E inoltre c'erano, sparse nella giungla, delle costruzioni umane. Pare che un'equipe di scienziati avesse trovato quell'isola molti anni prima e aveva iniziato a farci degli esperimenti. Pare che siano stati proprio essi ad aver dato vita a gran parte della fauna e della flora presente sull'isola. Poi qualcosa deve essere andato storto. Un incidente forse, che causò la perdita del controllo di queste bestie, che iniziarono a ribellarsi e a uccidere gli scienziati, che così scapparono via dall'isola. Solo uno ne era rimasto, e viveva in un bunker, fino a quando Justin, Alex e Tim non trovarono tale struttura, facendosi seguire involontariamente da alcuni predatori, che trovarono il posto, rendendolo così inabitabile e non più sicuro. Di che fine avesse fatto lo scienziato nessuno ne ebbe idea. Jhon Evergrand, invece, ogni tanto tornava alla spiaggia, portava della frutta o a volte, quando ci riusciva, portava dei cinghiali che aveva catturato. E poi via... di nuovo in esplorazione, in quell'isola che lo affascinava tanto. Spesso si portava Tim con lui, il suo allievo. Andavano a caccia insieme, oppure cercavano i dinosauri erbivori e li osservavano da vicino. Era tutto apparentemente magnifico, come se fosse una vacanza. Però la gente iniziava a innervosirsi non vedendo arrivare nessuno a salvarli. Nella spiaggia i trenta supersiti del disastro aereo, che ormai erano diventati vent'otto, avevano allestito un accampamento, con tendoni, cucine e dispense per l'acqua e il cibo. Si erano arrangiati bene. Tra loro c'erano tre membri dell'equipaggio, tra cui il comandante dell'aereo e due ragazzi, uno steward e un'hostess. Poi c'erano due medici, che viaggiavano insieme, una donna con la figlia, e un gruppo di ragazzi che andava in Australia per cercare una vita migliore. Tutta gente buona e tranquilla, che per colpa del destino, ora si ritrovava insieme in quel luogo misterioso. Per ora la vita proseguiva tranquillamente. Il cibo non mancava mai, gli ostili, se non venivano disturbati, non davano più loro la caccia, e nemmeno i dinosauri, che pare stessero tutti concentrati nell'entroterra. Avevano trovato un buon posto per sopravvivere, sempre nell'attesa disperata che una squadra di soccorsi arrivasse li per prenderli. Ogni notte tenevano acceso un falò e a turno sorvegliavano il campo. Chi sorvegliava si occupava anche di tenere acceso il fuoco.
Franz si infilò le cuffie e il casco con la visiera. Era pronto, tra poco sarebbe toccato a lui. Impugnò la pistola, la sua fedele Beretta a 12 colpi, e sparò trenta proiettili contro la sagoma, senza sbagliare mai un colpo. Ok, ora si sentiva pronto per tornare sul campo di battaglia. Il comandante del suo distretto di polizia gli riconsegnò il distintivo. Ora era ufficialmente di nuovo in servizio.
Per cinque mesi era stato costretto alla sospensione del servizio per via di un processo in corso, al quale fu poi ovviamente assolto. Fu accusato di tentato omicidio quando lui aveva semplicemente salvato la vita a una persona, sparando al suo aggressore. Quel tipo, Shon, era un delinquente. Aveva lasciato in cinta sua moglie, la signora Charlotte, ed era scappato per non prendersi la responsabilità. La piccola Margot non lo conobbe mai. Nella sua vita non combinò mai niente di buono. Rapine, aggressioni, stupri... era diventato addirittura un truffatore. Andava a letto con le mogli degli uomini ricchi e le convinceva con l'inganno a farsi dare tutti i soldi dei mariti, per poi abbandonarle e scappare via. Quando Franz gli sparò due colpi alla schiena, Shon fu ricoverato nell'ospedale dove lavorava il dottor Rossi, una vittima delle sue truffe, al quale aveva rubato la moglie tempo addietro. Fu proprio Rossi a operarlo e a salvargli la vita. Quando l'uomo fu dimesso, scomparì completamente dalla circolazione. Sicuramente venne arrestato e messo in prigione, ma di lui non si sentirono più notizie.
Il primo incarico di Franz, appena tornato in servizio, fu quello di scortare gli assistenti sociali a casa di un certo Daniel Leevpool, per portargli via il figlio. Quest'uomo era un drogato e viveva a sbafo in una casa popolare senza pagare l'affitto e le bollette ormai da mesi. Per l'elettricità si era persino attaccato ai fili delle scale del suo condominio. Di certo un bambino piccolo, che ancora non andava a scuola, non poteva vivere in quelle condizioni. Quando Daniel aprì e si trovò davanti la polizia, capì subito tutto. Chiese dove lo stavano portando e gli agenti gli dissero che prima doveva attendere l'evolversi del processo, per riavere la custodia di suo figlio. Un agente accompagnò il bambino e i due assistenti sociali nella pattuglia parcheggiata di sotto. Appena salirono in macchina, Franz mise in moto e partì...
Quel bambino, nonostante la giovanissima età, diede diversi problemi in caserma. Tanto che furono felici di sbarazzarsene presto. Era piuttosto sveglio e Franz aveva subito notato qualcosa di strano. Aveva uno sguardo gelido, solo quando fissava lui però. Infatti era come se quel marmocchio, Christian, lo perseguitasse.
Quando il giovane poliziotto uscì dalle liane per controllare se il Tirannosauro se ne fosse andato via, non avrebbe mai immaginato di vedere lo stesso bambino, il figlio di Daniel, vestito come un indigeno e con una strana corona in testa, a fissarlo, là, in mezzo ai cespugli, col suo solito sguardo penetrante. L'ultima cosa che Franz vide fu un ghigno malefico sul volto del ragazzino... e poi fu inghiottito dall'enorme bocca del dinosauro, che gli fece un'imboscata, e se lo divorò senza pietà!! Tutto questo davanti al Dott. Rossi, che terrorizzato, rimase nascosto tra le liane tutta la notte, osservando i pezzi rimanenti del corpo di Franz, masticati e buttati a terra dall'enorme predatore.
EPISODIO 10 - LA STRUTTURA
Un grido acuto nel cuore della notte svegliò tutti i sopravvissuti del volo 0023, precipitato quasi due mesi fa sull'isola. Era Charlotte che urlava disperata. Margot era sparita. Qualcuno disse che magari era andata in bagno, ma era impossibile.. non si alzava mai da sola e di certo non sarebbe mai andata di notte nella giungla, visto che aveva paura del buio. Si creò una vera e propria ressa nell'accampamento dei supersiti, quando uno sparo di fucile azzittì tutti quanti di colpo. Era Jhon, che aveva sparato in aria per calmare le persone e farsi dare ascolto. "Tranquilli! Andrò io a cercarla...", annunciò poi. "Tim! Vieni con me?". Tim prese un bastone infiammato dal focolare e gli si avvicinò. "L'ho vista", sussurrò Jhon. Tim capì al volo che si riferiva alla 'Struttura', quella menzionata dallo scienziato pazzo del bunker, qualche settimana prima. "Un momento! Non puoi andare da solo. Ti farai ammazzare", li interruppe il pilota dell'aereo. Jhon allora lo prese da parte e gli chiese di venire con lui, perché forse aveva trovato un posto dove avrebbero potuto cercare aiuto. Quando il pilota gli chiese perché non voleva aspettare la luce del giorno, Jhon gli disse che voleva prendere due piccioni con una fava. La gente avrebbe fatto troppe domande, invece adesso aveva l'alibi della scomparsa di Margot, per potersi addentrare nella giungla. Il pilota accettò. "Grazie" gli disse Jhon. E proprio in quel momento arrivò Charlotte, che si aggrappò alla camicia di Jhon, scoppiando in lacrime: "La prego! Me la riporti sana e salva! La supplico!". "Non si preoccupi", rispose Jhon, "Gliela riporterò tutta intera! ... forza andiamo!", disse poi a Tim e al pilota. E i tre si addentrarono nell'oscura foresta, muniti di zaini, fucili e bastoni infiammati.
Dopo l'ennesima crisi di Margot, Charlotte non ce la fece più. Si presentò di notte dalla sua migliore amica, bussando alla sua porta. "Charlotte? Cosa ci fai qua?", le chiese l'amica in pigiama, strofinandosi gli occhi dal sonno. Margot dormiva in macchina, parcheggiata al confine col giardino della villetta. Si sentivano solo i grilli e qualche motore di auto ogni tanto in lontananza. "Lui dov'è?" chiese Charlotte disperata. "In Australia... sei sicura di volerlo fare?", rispose l'amica - "I dottori continuano a ripetermi sempre le stesse cose. Forse avevi ragione.. e mi dispiace se non ti ho creduta. È che... mio Dio... sto impazzendo!" e si mise a piangere. L'amica, che era ancora sulla soglia di casa sua, l'abbracciò e la consolò. "È un sistema disperato e assurdo lo so. Ma forse un veggente è proprio ciò che può fare al caso tuo", le disse all'orecchio tenendola stretta a se. Quando le spiegò dove poteva trovare questo guaritore, Charlotte acquistò subito due biglietti per Sidney. Ed è così che finì con la figlia sul volo 0023, che da Pechino, purtroppo, non raggiunse mai l'Australia.
Jhon, Tim e il pilota stavano camminando nella giungla. "Sei sicuro che sia una buona idea?", chiese il pilota a Jhon, che marciava a passo svelto in direzione della Struttura. "Certo. Credo che li potremo trovare qualcuno. Dubito che il tizio di quel bunker fosse rimasto veramente l'ultimo del progetto Dharma a lavorare su quest'isola. E se c'è qualcuno, ci sarà anche un modo per comunicare col mondo reale". La sua risposta schietta e decisa fu abbastanza convincente, tanto che nessuno osò dissentire. E continuarono a camminare senza sosta...
Nel frattempo sulla spiaggia, Charlotte non riusciva ovviamente a prendere sonno: "È colpa mia! È colpa mia se si trova qui su questa maledetta isola! Non dovevo portarla qui...". C'erano Elouise e Lisbette, una ragazza di 18 anni, a consolarla, ma quest'ultima frase, più che altro, la donna la pronunciò come se stesse parlando da sola, con gli occhi distrutti dal pianto. Lisbette le chiese cosa intendesse dire, ma l'altra non rispose, e rimase immersa nei suoi pensieri.
L'aereo 0023 volava tranquillo di sera. Charlotte accarezzava la bambina, che era appoggiata con la testa contro la sua spalla, e dormiva beata. Di certo quella piccoletta non immaginava minimamente quanto fosse disperata la madre, e nemmeno tutto ciò che le stava accadendo. Una hostess camminò in direzione di andatura del velivolo con un cocktail in un vassoio, quando alcune luci dell'aereo lampeggiarono per qualche secondo, come se andasse via la corrente. C'era un'atmosfera di pura serenità su quel velivolo. Ma era tutta apparenza. Non passò che qualche minuto, prima che l'aereo iniziò a ballare nel vuoto. Poi si espanse una luce intensa e tutto sparì.
La donna si svegliò a riva, all'alba, tra le braccia possenti di un uomo che tentava di salvarla, credendola svenuta. Lei lo fermò, e appena riacquisì completamente coscienza, iniziò a urlare il nome della figlia, nel disperato tentativo di ritrovarla. Era ancora in mare, con l'acqua che le bagnava le ginocchia, quando qualcuno arrivò dalla spiaggia, tenendo la bambina per mano, mentre correva in direzione della madre. Urla e abbracci. Non esisteva sollievo migliore che ritrovare la propria figlia dopo aver creduto di averla persa!
C'era già la luce del giorno, quando i tre avventurieri raggiunsero un'enorme costruzione nera, piena di finestre giganti, nel mezzo della giungla. Jhon sussurrò: "Eccola, è lei... l'abbiamo trovata". Ebbene si, quell'immensa costruzione davanti a loro doveva essere proprio la famosa 'Struttura', quella in cui veniva data la vita ai dinosauri. Pazzesco...
"Dove vai?", Tim rimproverò Jhon, che si stava già avvicinando per entrare. "Dentro. Cosa siamo venuti a fare se no?", rispose il professore. Era inutile, da parte del pilota e del giovane pupillo di Jhon, cercare di metterlo in guardia che lì dentro poteva esserci qualcuno di ostile, visto che quel luogo era segreto. Tuttavia dava l'impressione di una vecchia fabbrica abbandonata. Gli enormi vetri delle immense finestre poste ai lati dell'edificio, erano parzialmente rotti. Per non parlare delle piante rampicanti, che ricoprivano tutte le mura. Ma questo non significava per forza che li dentro non poteva esserci qualcuno. Anzi, probabilmente lo scienziato si era recato proprio li, quando i Raptor invasero il suo bunker. Jhon armò la sua Beretta, che teneva nei jeans oltre al suo fucile, attraversò il pezzo di terreno serrato e raggiunse un ingresso. Gli altri due lo seguirono. Oltre alle armi, presero dagli zaini delle torce, per farsi strada nell'oscura stazione Dharma. C'erano feti di piccoli dinosauri che galleggiavano dentro a delle enormi palle di vetro, con un tubo collegato a un computer, che un tempo, probabilmente, dava loro l'ossigeno. Alcune avevano il vetro rotto, e quindi l'acqua era uscita parzialmente o del tutto, e c'erano i cocci rotti per terra. Queste sfere erano messe in diverse file, parallele al lato più lungo della palazzina, che era rettangolare. Tra una fila e l'altra si creavano delle corsie. Ce ne saranno state una dozzina nel padiglione. Sulle pareti c'erano enormi schermi, molti dei quali danneggiati, e le vetrate, che davano sull'esterno. L'unica cosa che faceva luce la dentro, dato che era tutto buio e gli interruttori non si trovavano. I tre notarono che stavolta, sulle pareti, non c'era lo stesso simbolo che avevano visto nel bunker. Ce n'era un altro, una strana sigla all'interno di un simbolo, molto diverso da quello del Dharma. Le piante rampicanti avevano rotto il vetro ed erano entrate dalle finestre, occupando così anche le pareti interne. Pure la polvere nascondeva parzialmente le scritte e i disegni sui muri. Jhon e Tim stavano illuminando con le torce uno di quegli strani simboli. Rimasero un po' in silenzio fino a quando si incrociarono contemporaneamente gli sguardi... "Pensi anche tu quello che penso io?", chiese Tim. "Già... Credo proprio che tu avessi ragione Tim. Questi bastardi non facevano parte del progetto Dharma". Il pilota, che li ascoltava, non ci capiva niente e chiese di che diavolo stavano parlando. "Sai perché sono qui?", disse allora Jhon. Il pilota lo guardava negli occhi e non rispose. "Bene. Io e il mio fedele e coraggioso dipendente, se non che compagno di avventure...", e indicò Tim, "siamo stati assunti da un certo 'Progetto Dharma', che CASUALMENTE si trovava su un'isola nei pressi dell'Australia, ma che boom... CASUALMENTE si trova anche qui! Su questa isola... Che coincidenza, è? Beh, inizio a pensare che questi truffatori mi abbiano in qualche modo trascinato qui, e adesso vorrei tanto capire il perché!".
"Teoria interessante!", esclamò una voce dall'oscurità. Tutti e tre si girarono e puntarono le torce in una corsia, mentre qualcuno si avvicinava. La voce continuò: "Beh, abbiamo proprio una bella fama in giro, è?", con tono scherzoso. "Chi sei?", urlò Jhon, puntandogli la torcia in faccia. L'uomo ormai era vicino, ma non si vedeva ancora bene. "Il proprietario di questa Struttura ovviamente..", disse l'uomo. Ora era abbastanza vicino da poterlo vedere. Era vestito in giaccia a cravatta, tutto di grigio. Aveva i capelli bianchi e un paio di occhiali, che lo rendevano arzillo. In mano teneva una specie di tablet. Prima che Jhon potesse dire qualcosa, l'uomo continuò: "Capisco che lei abbia mille domande signor Evergrand. Ma ogni domanda porterebbe solo ad un'altra domanda. L'unica cosa che conta è che ora lei sia qui. Abbiamo molto lavoro da fare". Jhon continuava a fissarlo sbalordito. "Ma chi diavolo sei? Come fai a conoscermi?", disse poi. " Glie l'ho detto signor Evergrand, sono il proprietario di questa Struttura. Il suo titolare per l'esattezza. La stavamo aspettando", disse l'uomo voltandosi e iniziando a toccare qualcosa su un mobiletto vicino a una di quelle sfere. Jhon insistette, voleva sapere cosa diavolo stava succedendo li. L'uomo rispondeva solo ciò che pareva a lui, senza dare mai risposte concrete, facendo innervosire Jhon sempre di più. Il pilota a un certo punto intervenne: "Senta, non so perché voi due vi conosciate... ma sono il comandante del volo 0023 da Pechino. Siamo precipitati qui due mesi fa. Avete per caso una radio trasmittente? Potete aiutarci per favore?". L'uomo, che prima era cordiale ed educato, ora rispose freddo senza guardare il pilota in faccia. E disse bruscamente: "No, mi dispiace, non possiamo aiutarvi". "Ma ci dev'essere un modo per lasciare l'isola?!", intervenne allora Tim. Il tizio della Struttura tornò cordiale: "Nessuno può lasciare quest'isola signor Redwine. Dobbiamo tutti collaborare a un progetto più grande". "Come sarebbe, non si può lasciare l'isola?", stavolta Jhon si arrabbiò. "Mi avete ingannato... voi sapevate che sarei finito qui. Ecco perché tutti quei misteri. Il contratto... l'assegno... voi non siete parte del Progetto Dharma, vero?!". "Il progetto Dharma non esiste più da circa trent'anni", rispose il proprietario della Struttura. L'uomo, che stava sistemando dei fogli nei ripiani di uno scaffale, si vide avvicinare Jhon, che gli arrivò minaccioso faccia a faccia. Quindi si fermò e si mise eretto di fronte all'archeologo, che lo fissò negli occhi e domandò: "Come?!". Da lontano quel tipo sembrava più minuto, ma messo vicino a Jhon, era abbastanza alto e robusto. Poi rispose, senza spostarsi e continuando a guardare negli occhi l'archeologo: "Si, è vero. Vi abbiamo ingannati. Ma non avreste mai accettato di venire qui altrimenti. Lo so che sembra tutto una truffa ma, credetemi... ne varrà la pena". Prima che Jhon potesse urlargli contro le sue ragioni, l'uomo estrasse una specie di telecomando e glielo puntò allo stomaco, dandogli una scarica elettrica, che lo costrinse a piegarsi a terra dolorante. Gli altri due, che non se lo aspettavano, si misero in allerta. Tim gli puntò un fucile al viso, ma il tizio fischiò e balzarono fuori dal nulla due indigeni, che nel giro di pochi istanti, tramortirono entrambi, senza dargli il tempo di reagire.
I tre supersiti si svegliarono in una gabbia, sempre all'interno della Struttura. C'era luce in quel punto, perché erano vicini a un enorme portone spalancato che dava sull'esterno. Il bagliore del sole impediva di vedere cosa ci fosse fuori. Tim iniziò a urlare: "Tirateci fuori di qui!!", ma Jhon lo fermò, dicendogli che tanto era inutile. Quegli uomini, chiunque fossero, ormai avevano fatto in modo che loro e gli altri dell'aereo arrivassero li, e non c'era più niente che potessero fare. Jhon aveva il tono rassegnato, ma nello stesso tempo era nervoso, e se ne stava seduto fissando a terra, verso l'esterno della gabbia. Un rumore di passi li fece avvicinare tutti, curiosi alle sbarre. Era Margot, e camminava lentamente verso la gabbia con un vassoio in mano, e il suo solito visino innocente. Incredibile! Stava portando loro da mangiare! "Margot, amore, stai bene? Cosa ti hanno fatto? Stai tranquilla, ti riporteremo dalla mamma!", gli dissero i tre prigionieri. Ma lei sembrava ignorarli. Allungò le braccia e fece passare il vassoio tra le sbarre. Tim lo prese in mano, c'erano sopra dei sandwich. Poi la bambina disse qualcosa in una strana lingua, simile a quella degli indigeni, pensò Tim, e sorridendo si allontanò felice. Raggiunse proprio un gruppo di indigeni e insieme se ne andarono. Jhon, il pilota e Tim, che aveva appoggiato il vassoio su una panca, rimasero letteralmente sconvolti ad osservare la scena...
EPISODIO 11 - IL PROTETTORE DELL'ISOLA
Daniel si svegliò di notte di soprassalto. Accese la luce e andò in bagno. Per raggiungerlo dovette scavalcare il coinquilino collassato a terra. C'era disordine e sporcizia ovunque. A volte si chiedeva come fosse arrivato a ridursi così. Lui, un ragazzo di famiglia, l'orgoglio dei genitori, quando ce li aveva. Era andato tutto a rotoli. Ma in fondo lui sentiva dentro di se che quel Daniel, non era lui. Era soltanto la conseguenza di tutto ciò che gli era capitato. Lui in fondo era buono, quindi non doveva abbattersi se prima serviva una nobile famiglia londinese e ora girava di notte nei quartieri più lugubri per cercarsi una dose! Si sciacquò la faccia e cercò di ricordare. Aveva fatto un incubo. Che suo figlio Christian venisse rapito da casa sua da alcuni uomini vestiti di bianco. Con una specie di camice, ma il sogno era molto confuso e non riuscì a ricordare più gli altri dettagli. Era già un anno che l'assistenza sociale lo aveva privato del figlio. Ora doveva stare in una fottuta comunità di ex tossici. Peccato che lui lo era ancora, un tossico! Infatti alcune notti scappava e andava a trovare i suoi vecchi amici, di cui uno, tra l'altro, gli aveva occupato la sua vecchia casa. Non che gliene fregasse qualcosa. Era una sudicia casa popolare in uno squallido quartiere puzzolente. Però era comunque l'ultimo luogo dove aveva vissuto col suo figliolo, Christian, che gli mancava tanto. Ormai però, cominciava a non sentirlo più suo... era passato tanto tempo. Quando fu l'alba, due sbirri arrivarono in casa sua, dove ora viveva l'amico, e lo svegliarono. Era collassato sul tavolo con una siringa vicino. Daniel conosceva quei due poliziotti. Ne conosceva tanti di poliziotti. Non era la prima volta che andavano a recuperarlo per riportarlo in comunità. Ormai non usavano neanche più le maniere forti. Anzi lo salutavano come fosse un amico che incontravano al bar. Ma Daniel si sentiva ugualmente umiliato. E senza fare resistenza, si diede una rinfrescata e li seguì.
Tre anni più tardi, sull'isola, gli successe una cosa analoga. Si svegliò di colpo in mezzo alla giungla, stavolta. Vedeva tutto offuscato intorno a lui. Nella sua testa era come se fosse notte, ma in realtà c'era la luce del sole. A un certo punto sentì delle risate di bambini, e un pallone sbucò da alcuni cespugli andando a sbattere contro a un albero, per poi rotolare di nuovo in mezzo alla giungla. Daniel chiese sottovoce: "Christian?". Poi scorse dei bambini correre, un maschietto e una femminuccia. "Christian!", urlò più forte. E si mise a correre dietro a loro. Ne era sicuro, uno dei due bambini era proprio suo figlio. Non sapeva perché si trovasse sull'isola, ma non aveva importanza. Ora lui era li, e doveva raggiungerlo. I bambini mentre correvano ridevano. A un certo punto girarono dietro un gruppo di cespugli e Daniel fece in tempo a urlare ancora: "Christian, aspettami!", prima di inciampare a cedere nello stesso dirupo dove Jhon lo salvò qualche giorno prima. Stavolta però, mentre si teneva alle liane, non fu il braccio del compagno a sporgere per aiutarlo. Ma era Margot, che disse, con la voce di Daniel: "Christian, afferra la mia mano!!".
Daniel si svegliò. Si trovava al campo ed era buio. Alcuni dormivano, mentre altri parlavano e ridevano attorno al falò. Daniel, cercando di dimenticare l'incubo, si avvicinò al gruppetto di ragazzi e si sedette vicino al fuoco, su un tronco di legno. Per una decina di minuti si unì con gli altri a scherzare e a bere birre in compagnia. Poi a un certo punto sentì Justin che chiedeva ad Alex come fosse possibile secondo lui, che nessuno li avesse ancora trovati. I soliti discorsi insomma... Poi, con i due giovani hostess e la ragazza, Lisbette, iniziarono a elencare gli strani episodi che si erano verificati, da quando precipitarono sull'isola. A un certo punto Justin nominò il pallone fantasma che rimbalzava tra gli alberi nella giungla e a Daniel si illuminò qualcosa. Interruppe gli altri e con tono serio chiese: "Scusa, puoi ripetere?". Tutti si azzittirono e lo guardarono. "Si, il pallone che va a sbattere sempre contro lo stesso albero e poi sparisce misteriosamente... non l'hai mai visto tu?", rispose Justin. "Ma certo, è tutto chiaro! Ora so dove trovare Margot!", esclamò Daniel, e balzò in piedi correndo nella giungla. "È pazzo?", disse ironico Alex. Il pallone, come aveva fatto a non pensarci! Qualcuno doveva pure calciarlo quel pallone. Non poteva certo volare! Daniel cominciò a correre nella giungla, di notte, col suo bastone infiammato. Sapeva benissimo dove doveva andare, perché nel sogno c'era pure una bambina insieme a suo figlio, che sembrava fosse Margot. Non sapeva neanche il perché, ma si sentiva sicuro su ciò che stava facendo. Raggiunse il punto in cui secondo lui, avevano visto tutti quella palla rimbalzare. Col buio era difficile trovare l'albero, però per via della sua forma particolare, pensò di riconoscerlo, e si mise a cercare tracce nei dintorni.
La comunità dove stava Daniel era una specie di villaggio composto da bungalow, era molto carino esteticamente, ma nonostante tutto lui lo viveva come un inferno, soprattutto quando gli toccava fare le sedute. Lui le odiava...
Un giorno ottenne una licenza per le vacanze estive. Qualche mese prima il fratello, che abitava in Australia ormai da anni, gli scrisse una lettera. Daniel odiava anche le lettere... Dopo tanto tempo si era fatto risentire, ma in fondo non gli era mai stato vicino. È anche vero che abitava dall'altra parte del mondo, ma da quando si era fatto la sua famiglia, non si preoccupò più di tornare a trovare il fratello, ne di sapere come stava. Ormai si sentivano solo per natale e un paio di volte all'anno. Questa volta però, pare che si fosse pentito di essersi allontanato così tanto, e trascrisse i suoi sentimenti su quella lettera. Daniel stava passando un periodo pessimo, e non gli rispose neanche. Ora però voleva approfittare di quella licenza estiva per raggiungerlo in Australia e chiarire. Così prenotò il biglietto, lo stesso che lo condusse a Pechino per lo scalo, che lo costringerà poi a salire sul volo 0023. Proprio all'aeroporto di Pechino, Daniel approfittò dell'attesa per telefonare al fratello da una cabina telefonica. Il numero di telefono lo lesse dalla lettera che aveva ricevuto tempo fa, e che si era portato dietro. Daniel si avvicinò a un telefono per chiamare, ma si accorse di non avere abbastanza moneta, così fece per andare a cambiare i soldi alla macchinetta, quando un uomo gli si presentò davanti. Era un omaccione vestito di nero, con uno strano bastone che dava appariscenza, tanto che quando passava tra la gente, lo fissavano tutti. L'uomo gli chiese se gli servisse una moneta e Daniel, per educazione, rispose che non era necessario e che stava per andare a cambiare la banconota. Ma l'uomo insistette, e poi disse: "Tutti nella vita subiamo dei torti, ma la facoltà di perdonare, è un dono. E ci rende molto umani. Beh, le auguro un buon viaggio signore". Sorrise e se ne andò. Daniel non fece in tempo a pronunciare una parola, e rimase fermo a guardarlo mentre si allontanava, per poi perdersi nella folla. Chi era quell'uomo? Sembrava quasi che conoscesse la sua storia... ma com'era possibile?
Daniel avvicinò il bastone infuocato vicino al tronco dell'albero, e in effetti c'erano dei segni, tutti sullo stesso punto, che potevano essere stati causati da quel pallone, ogni volta che ci andava a sbattere. Un verso animale lo distrasse, ma fu proprio quel verso a fargli guardare per un attimo a terra, e vedere così delle impronte di piedi scalzi. Erano piccoli, probabilmente di due bambini, e camminavano parallelamente nella stessa direzione. Daniel si guardò un'ultima volta intorno, per assicurarsi di essere solo e poi seguì quelle orme. Superò dei cespugli e intravide qualcuno tra gli alberi. Era un tizio vestito con un camice bianco, che cercava di scavare con un bastone tra dei cespugli, che si arrampicavano sulla parete rocciosa. Assomigliava a un rapitore del suo sogno che fece tempo addietro, in cui due uomini simili a quello, si intrufolarono a casa sua per rapirgli il figlio. Notò inoltre che quel bastone era simile a quello che aveva quello strano uomo all'aeroporto. Che strano...
Quando l'aereo tentò l'ammaraggio, Daniel era ancora sul suo sedile, con la cintura allacciata. Appena riprese coscienza, vide che l'acqua del mare iniziava a entrare nell'aereo e che stava lentamente affondando. Aveva la testa del passeggero seduto accanto a lui, appoggiata sulle gambe. Era svenuto su di lui, forse perché non aveva fatto in tempo a prendere l'ossigeno dalla mascherina di emergenza quando l'apparecchio perse quota. Daniel spostò l'uomo, si slacciò la cintura e riuscì finalmente ad uscire dall'aereo, scavalcando cadaveri e borsoni. Si buttò in mare per raggiungere il gommone. Le onde erano alte e bevve molta acqua. Infine, allo stremo delle forze, riuscì a salire a bordo e a portarsi in salvo.
Daniel stava ancora fissando di nascosto quell'uomo, ma per vedere bene cosa stesse facendo, doveva fare luce con la torcia di fuoco, ed è cosi che si tradì. Lo strano uomo si accorse di lui e si arrestò voltandosi di scatto. Aveva un'aria pallida e terrificante, inoltre gli occhi gli si illuminavano al buio. Daniel per un attimo esitò e l'uomo senza pensarci due volte corse via nella giungla. Fu inutile rincorrerlo, quell'individuo era sparito. Tanto per cambiare, adesso, si era pure perso.
Passò una nottata intera a cercare disperatamente la strada di casa, quando a un certo punto incontrò un uomo nella giungla, seduto vicino a un fuoco. All'iniziò si spaventò non riconoscendolo, ma poi, una volta assicuratosi che egli era innocuo, decise di accettare l'invito a sedersi affianco a lui. "Chi sei?", gli chiese Daniel. "Mi chiamo Ben", disse l'altro, "Benjamin Linus, posso aiutarti? Ti sei perso?" - "Si, siamo precipitati qua due mesi fa, e ora non riesco più a trovare il nostro accampamento" - "Oh, mi dispiace. In quanti siete sopravvissuti?" - "Une trentina, ma tu chi sei? Sei reale?" - "Ahah, e perché non dovrei? Dimmi, cosa ci fai a spasso per la giungla di notte? È pericoloso sai? Stai cercando qualcuno?" - "Eheh, in realtà... credo che sto impazzendo" - "E perché mai?" - "Perché chi sto cercando non c'è. Non può essere qui" - "Beh, 'qui' è molto relativo sai... immagino avrai fame, siediti ti offro qualcosa. Ti piace il cinghiale?", gli chiese poi Ben. Daniel allungò un braccio e afferrò un pezzo di carne, appena cotta sul piccolo falò. Poi lo ringraziò e gli chiese: "Cosa ci fai qui? Sei naufragato anche tu in questo posto?" - "Sono qui da tanti anni ormai. Quasi tutta la mia vita. E mi trovo qui, Daniel, perché tu hai smarrito la retta via. E io intendo aiutarti". Daniel balzò in piedi, facendo cadere il piatto con dentro della carne appena scaldata. "Come fai a conoscermi? Tu... come facevi a sapere che sarei passato di qui? Chi sei? Chi siete tutti? Cosa diavolo sta succedendo?", si agitò poi. Ben lo calmò: "Tranquillo, a differenza di altri, non ho intenzione di farti del male. Anzi io voglio aiutarti. Ora se ti siedi, ti spiegherò tutto. Puoi fidarti di me..." e sorrise. Daniel si risedette e poi disse: "Voglio sapere innanzi tutto chi sei". "Certo" rispose Ben. E poi iniziò a spiegare: "Io sono.. uno dei protettori di questa isola. Che, come avrai capito, è speciale... non è un luogo comune. Per questo io e altri miei amici dobbiamo proteggerla. Però vedi... a volte, persone avide e cattive, cercano di raggiungerla per profanare i beni che lei possiede. E così facendo, cambiano le regole. Ci sono regole ben precise da rispettare. Purtroppo alcune persone innocenti sono andate di mezzo, ingiustamente. E ora, beh il risultato è imprevedibile". "Un momento", lo fermò Daniel. "Se ci siete tu e la tua gente a proteggerla, allora perché avete permesso a quegli scienziati di costruire delle basi sull'isola per i loro sciocchi esperimenti?". Ben subito rispose: "Noi non possiamo interferire, devono essere loro a capire i loro sbagli. Noi possiamo solo aiutare la gente a raggiungere il loro scopo". Daniel si stufò: "Senti. Con tutto il rispetto. Non so che posto sia questo e perché c'è gente che si ammazza per raggiungerlo. Ma io sono casualmente precipitato qui col mio aereo, e ora voglio semplicemente tornarmene a casa!". Ben allora disse: "Cos'è che stai cercando esattamente?". Poi prima di lasciar parlare l'altro continuò: "Non sei finito su quest'isola casualmente Daniel... nessuno di noi lo è, nemmeno il resto dei tuoi compagni. Siamo tutti qui per un motivo. Solo che tu non sai ancora qual'è...". "Io voglio tornare a casa", ribadì Daniel - "Non so se l'isola te lo permetterà. In ogni caso, farò il possibile per aiutarvi. Non siete al sicuro su quella spiaggia. Tu e il resto dei tuoi compagni dovete raggiungere questo villaggio", e tirò fuori una cartina. Benjamin indicò un villaggio disegnato sulla mappa. Incredibile... quel tipo aveva una cartina dell'intera isola. Daniel chiese: "È lì che vivi tu?" - "No, ma ci vive un gruppo di persone che sarà lieto di ospitarvi. Lì troverete energia elettrica e delle case in cui potrete stabilirvi momentaneamente" - "Momentaneamente?" - "Immagino che non sei l'unico dei tuoi, che vuole tornare a casa, no? Beh, sia chiaro. Se dovessi cambiare idea, sarai il benvenuto tra di noi..." - "E perché dovrei voler scegliere di restare?", chiese Daniel. "Non si può mai sapere nella vita.. Ora devo andare. È stato un piacere cenare con te stasera", Ben si alzò e prese su lo zaino e la sua roba. Daniel lo fermò: "Ehy, te ne vai così?" - "Si, ho del lavoro da fare. Come ti ho detto prima, svolgo una funzione importante su quest'isola" - "Non puoi portarmi al tuo accampamento?" - "Io non ho un accampamento", sorrise Ben. "Vivo nella foresta". Prese il bastone infuocato e si preparò a incamminarsi. "Ora devi tornare dai tuoi compagni, Daniel. Saranno preoccupati. Ci rivedremo comunque, vai tranquillo...", poi si girò e sparì tra i cespugli. Daniel restò un po' vicino al fuoco a urlare a Ben di fermarsi e tornare indietro, ma invano. Il signor Linus se n'era andato. Ora era solo...
EPISODIO 12 - UN POSTO MIGLIORE
Daniel arrivò al campo che era già l'alba, e raccontò dell'incontro con Ben e del villaggio dove gli fu consigliato di trasferirsi. Ebbe inizio una discussione accesa. Alcuni del gruppo non volevano lasciare la spiaggia, perché pensavano che se fosse arrivato qualcuno avrebbero cercato li. Mentre altri diedero ragione al ragazzo, credendo che se si fossero recati nell'entroterra e avrebbero raggiunto quella comunità di persone, forse avrebbero trovato il modo di chiamare i soccorsi, per non parlare comunque delle comodità di cui avrebbero usufruito. Cibo, acqua, corrente, dei letti per dormire...
"Cosa stai facendo", chiese Alex a Justin. "Senti, capisco che non vuoi venire, dopo tutto quello che abbiamo passato, ma io voglio andare. Devo andare...", rispose l'amico. "Perché? Perché devi andare? Sei impazzito? Vuoi farti ammazzare. Non sappiamo nemmeno se possiamo fidarci di quelle persone!" - "Non mi interessa di quelle persone. Chi ti dice che siamo più al sicuro sulla spiaggia? E comunque, nel caso non te ne fossi accorto. Qui non arriva nessuno! Ci hanno dimenticati. Morti! Per il mondo siamo tutti morti...".
Anche i due medici discussero riguardo alla scelta da prendere, se restare sulla spiaggia o addentrarsi nella giungla. Alla fine constatarono che era meglio rimanere là dov'erano, perché non aveva senso rischiare di farsi sbranare per raggiungere un posto che magari non esisteva neanche. I due ragazzi dell'equipaggio, che indossavano ancora le divise bianche e blu, cercarono di convincere quelli che volevano andarsene, di restare. Perché qualcuno prima o poi doveva arrivare per forza. Ma Daniel era convinto anche lui, che non li avrebbero trovati. E inoltre ora, doveva raggiungere uno scopo... La famiglia si divise in due. Daniel, Justin, Charlotte, che voleva ritrovare la figlia, e altre cinque persone decisero di andare al villaggio Dharma. Mentre il dott. Rossi, la dottoressa Elouise, i due hostess, Alex, Lisbette e le altre dodici persone rimasero sulla spiaggia.
Justin aveva appena litigato col marito di sua madre. Questa volta basta, era troppo, voleva andarsene di casa. Riempì uno zaino con poche cose essenziali, ed uscì dalla villetta, senza nemmeno una destinazione. Col padre non andava più d'accordo, da quando anche lui si era fatto una nuova famiglia. Egli purtroppo era succube della nuova moglie, che lo comandava a bacchetta e aveva fatto capire perfettamente al figlio che non era più il desiderato in casa loro. Anzi, era di troppo, un peso, una spesa eccessiva... Cosi Justin se ne andò anche da là, costretto a sopportare il compagno di sua madre, che si vantava di essere più intelligente e lo trattava come una nullità. Forse per forza dell'amore o per vigliaccheria, la madre era rimasta sempre zitta. Non era cattiva o menefreghista, ma semplicemente faceva finta di non vedere. Forse era rimasta affascinata dal conto in banca del nuovo marito, tanto da sacrificare persino il rapporto coi figli. Insomma, la famiglia di Justin non era il massimo. Solo con i nonni andava d'accordo, ma nonostante con loro ci parlasse e gli dessero ragione su molte cose, sapeva che non poteva stabilirsi da loro, perché erano anziani e sarebbe stato davvero un peso, sia economico che fisico. Quindi quel giorno, decise di andare dal suo migliore amico, che viveva con la madre in una casa popolare. Era il quartiere forse più malfamato di Milano, ma in fondo lì si sentiva a suo agio perché la gente che ultimamente frequentava era proprio di quel genere. Justin arrivò nella via dove abitava l'amico, con la sua Ford del 99, e parcheggiò sotto casa sua, in un vicolo chiuso, pieno di immondizia per le strade e di macchine abbandonate, bruciate o scassinate. Justin parcheggiò e si diresse verso il cancello. Quella macchina, l'aveva comprata col suo secondo stipendio, da quando aveva iniziato a lavorare. Col primo invece si era pagato la patente. Nonostante la madre fosse decisamente benestante, Justin, per come era fatto, non riusciva mai a chiedere niente a nessuno. Si era costruito tutto con le sue mani. E questo, per un ragazzo così giovane, era nobile. Justin citofonò al suo amico, il quale aveva già avvisato per telefono che sarebbe andato da lui, ed egli gli aprì. Alex abitava nell'ultima scala in fondo, dopo il giardino che divideva gli enormi palazzoni, sulla destra, al secondo piano. La zona nonostante tutto era bella, però quei palazzi, esteticamente, sembravano dei campi di concentramento. Appena salì, trovò l'amico ad aspettarlo, sulla soglia della porta. Posò lo zaino e si buttò sul divano, accendendosi una sigaretta. "Ho un po' di erba", disse Alex, "Me l'ha lasciata mia madre". Poi prese due birre dal frigo, le aprì e ne diede una a Justin. La casa era un trilocale. C'era la camera della madre, che era single ormai da anni, la camera di Alex e il soggiorno, vicino all'ingresso con il cucinino e il balcone, che univa sala e cucina. Dal balcone ci si affacciava sul giardino del condominio, che era stupendo, sembrava una giungla. Nonostante quel blocco desse un senso di tranquillità, in quelle case li, si sentivano tutti i rumori e persino i discorsi che facevano i vicini! Spesso c'erano liti, o comunque gente che urlava. Per non parlare della polizia. Era abituale vedere pattuglie che arrivavano a manetta sotto uno di quei portoni, nella via di Alex. Accoltellamenti, sparatorie, giri di droga... c'era proprio di tutto. La madre di Alex era un tipo molto giovanile, e... decisamente alla moda! Era una madre moderna, le piaceva fumare le canne col figlio e si parlava sempre con un linguaggio aperto. Lei stravedeva per Justin, e nonostante sapesse, perché non era scema e ci era passata anche lei, le cose che combinavano i due ragazzi insieme, lo invitava spesso a casa ed era felice di vederlo. A volte pensava a lui e gli faceva dei regalini. Stupidate, tipo magliette da poco prezzo o roba simile. Cose che comunque Justin apprezzava. Ora la madre non c'era, perché faceva l'infermiera di notte e con i suoi turni era difficile vederla a casa. Di giorno spesso faceva commissioni o, giustamente, dormiva, per recuperare le ore di sonno. Alex, comunque, l'aveva avvisata che Justin sarebbe venuto a stare un po' da loro. E lei disse di si, che non c'era problema, ma ovviamente non avrebbe potuto ospitarlo in eterno. Justin era contento di avere un tetto momentaneo sopra la testa, specialmente in una casa dove si sentiva in famiglia, più in famiglia che a casa sua, ma era ugualmente a disagio perché comunque non gli piaceva creare disturbo.
"Perché hai deciso di venire con me?", chiese Daniel a Justin. I due, nonostante la decina d'anni di differenza, parlavano spesso. Avendo vissuto più o meno le stesse disavventure, si capivano e si trovavano bene. "Perché spero di trovare aiuto, è ovvio", non era molto convincente il tono di Justin. Daniel lo capì: "A te non interessa cercare aiuto, vero?", e lo fissò ironico. Justin rallentò il passo e lo fissò, ma prima che potesse rispondere, Daniel continuò: "Tranquillo, non sei l'unico che non vuole andarsene. E non sei l'unico che sta cercando qualcosa... Boh, qui è come se tutto ciò che hai perso, ti fosse data l'occasione di ritrovarlo. È come se quest'isola ti possa rifar trovare la retta via, dopo che l'hai smarrita". Justin scherzando gli disse: "Sei impazzito?". I due continuarono a parlare allegramente, cambiando però discorso, mentre il resto del gruppo li seguiva. Secondo la mappa di Benjamin Linus, quella città doveva trovarsi dietro la prossima montagnetta. Ancora qualche ora di strada, dai...
Non era la prima volta che Justin e Alex, due fedeli amici e compagni di avventure, si dividevano. Esattamente un anno prima, l'estate che Justin si trasferì per qualche settimana da Alex, litigarono e non si parlarono più per un anno. Il motivo del litigio fu una ragazza, di cui si erano innamorati entrambi. La storia in realtà risaliva a molto tempo prima, quando Alex ebbe avuto una cotta per Justin. Entrambi i ragazzi erano bisessuali, ma Justin vedeva Alex solo come un amico, per quanto comunque potesse essere bello fisicamente. Ma non faceva per lui, era un cattivo esempio. Un drogato, una persona sbagliata, che lo portava su una brutta strada. Glielo dicevano tutti, anche la sua famiglia. Ma siccome Justin era molto fragile caratterialmente, si lasciava trascinare facilmente. Justin sapeva tutte queste cose, che forse Alex non era un buon amico per lui. Ma in fondo gli voleva bene ed era l'unico che lo capisse e che parlava la sua stessa lingua. Non era in grado di abbandonarlo. Dopo un po' di tempo, questa cotta per Justin passò. Anche perché ormai Alex si era rassegnato al fatto che dall'altra parte riceveva solo il due di picche. Per un po' andarono avanti a drogarsi e a farsi le serate insieme. I due amici si divertirono molto durante la loro lunga amicizia, anche se le cose che facevano erano sbagliate. Spesso si ritrovavano in giro per Milano di notte, a cercare una dose. Oppure si svegliavano collassati in qualche parco o nel retro di qualche locale. Avevano amici in comune, con i quali uscivano spesso insieme. Ma in fondo non erano per niente amici, anzi, altri disagiati come loro che erano presenti solo quando si trattava di interesse. E l'unico interesse che li legava alla fine era la droga, o il sesso. Spesso anche Alex e Justin avevano rapporti carnali tra di loro, o con altri ragazzi, sia per divertimento che magari, soprattutto, per pagarsi la droga in mancanza di soldi. Una vera e propria 'vida loca' insomma. La madre di Alex cercò spesso di fare uscire il figlio da quel brutto giro, ma siccome le cose le aveva fatte anche lei, si rendeva conto che più di tanto non poteva fare. Ognuno era artefice della propria vita, e gli sbagli servivano a crescere e a capire da soli cosa fosse giusto o sbagliato. Alex aveva un'amica, Jessica, con la quale però, non ebbe mai nessuna relazione. A lui in ogni caso piaceva e tutte le volte che la vedeva ci provava, ma lei lo ignorò sempre. Un giorno, casualmente, la conobbe anche Justin e i due fecero amicizia. Poi anche Justin si infatuò di lei, e si misero insieme. Alex non lo accettò e si arrabbiò con l'amico, accusandolo di avergli fatto un torto e rinfacciandoli tutte le cose che aveva fatto per lui. Se questo era il ringraziamento, allora poteva anche andarsene da lei a sbattere la testa! E così i due si divisero. Per quasi un anno non si parlarono. Nel frattempo Justin si rese conto che con Jessica non si trovava più bene, e i due si lasciarono, restando comunque in buoni rapporti. Subito dopo, in seguito all'ennesima litigata col patrigno, prese i bagagli e partì da solo all'avventura, raggiungendo la costa ligure. Qui girò diversi campeggi con la sua tenda e la sua fedele Ford del 99, quando finalmente trovò lavoro in un supermercato e potette trovarsi un buco in affitto. Era il suo sogno quello di andarsene fuori di casa, vivere da solo, lavorare e non dover più rendere conto a nessuno. Ma ancora adesso Justin non era felice, gli mancava qualcosa. E nonostante il posto di mare, che gli piaceva tanto, aveva sempre un vuoto dentro. Si sentiva solo...
Quando un fine settimana andò a Milano per trovare la sua famiglia e specialmente la sua sorellina di 7 anni, che gli mancava, e a cui anche lui mancava molto, incontrò casualmente Alex. Si concessero un caffè insieme in un bar, e parlarono del più e del meno. I due in fondo si mancavano, era evidente, e decisero così di provare a ricostruire un rapporto d'amicizia. Avevano tante cose da raccontarsi. Per un po' andò tutto liscio e rimasero in contatto, se pur a distanza. Poi però arrivò una bella sorpresa per Justin. Tempo fa era stato beccato in macchina con una minorenne, e fu denunciato per atti osceni in luogo pubblico. Siccome la ragazza aveva meno di diciott'anni, ora si parlava addirittura di stupro, e addirittura 2 o 3 anni di carcere per Justin. Probabilmente l'avrebbe passata liscia se non avesse avuto già dei precedenti, che non fecero altro che aumentare la gravità del fatto. Justin in galera non ci voleva andare! Allora disperato chiamò Alex per raccontargli tutto. "Fortunatamente", si fa per dire, anche l'amico non se la stava passando bene. Aveva seri problemi in famiglia e col lavoro. Tutto questo perché era ancora sotto con la droga. Insomma, uno per una ragione, uno per un'altra, decisero di trasformare in realtà quel loro vecchio sogno di qualche anno fa: partire per l'Australia! Entrambi sognavano già da tempo di lasciare tutto e tutti e scappare in un posto migliore. Erano fissati con l'Australia perché avevano sentito di molti ragazzi, che partivano da soli, come se fosse una vacanza, e una volta sul posto si sistemavano, e non tornavano più. Ora la situazione critica in cui entrambi si trovavano, gli fece annullare ogni ripensamento, e si decisero finalmente a partire. Non ci misero molto a trovare un biglietto a poco prezzo. Trovarono un'agenzia su internet, gestita da Richard Albert e Frank Lapidus, grazie alla quale saliranno sull'aereo 0023, che precipiterà, con entrambi i ragazzi a bordo, su un'isola sperduta nell'oceano indiano.
Il gruppo di Daniel, si fermò a fare una sosta. Erano esausti, camminavano da tutto il giorno. E per raggiungere il campo mancava ancora circa metà strada. Trovarono un posto, vicino a delle cascate e quindi con una parete rocciosa alle spalle, dove accamparsi. Sistemarono delle tende e accesero un fuoco. Poi alcuni di loro tornarono un pezzettino indietro, dove avevano visto degli alberi da frutto, e ne raccolsero un po' con delle sacche. Era quasi buio, e Justin, distrutto dalla stanchezza, si sedete vicino a un fuoco a riflettere. Pensò a come fosse arrivato fino a là. Si chiese se avesse fatto bene a lasciare l'amico dall'altra parte dell'isola. Ma la risposta a quella domanda ce l'aveva già. Era molto tentato di scappare e tornare alla spiaggia, ma dentro di lui sentiva che se aveva preso quella decisione, di seguire Daniel, doveva esserci una buona motivazione. Da quando era su quell'isola si sentiva molto cambiato, ma in fondo lo erano tutti... Era come se fosse diventato più uomo di fede, si sentiva strano. Nessuno ne parlava, forse perché erano spaventati, ma tutti lo sentivano che quel posto era speciale, tutti...
EPISODIO 13 - CASA
Notte fonda. Justin era sdraiato su un fianco e fissava il piccolo laghetto dove andava a cadere l'acqua della cascata. Non riusciva a dormire quella notte, troppi pensieri. Oltre al fatto che continuava a tormentarsi per aver abbandonato Alex sulla spiaggia. Era tutto silenzioso, si sentiva solo lo scorrere dell'acqua e ogni tanto qualche uccello sugli alberi. Un tonfo in lontananza fece muovere una pozzanghera vicino a Justin, e lui se ne accorse. All'inizio non ci fece caso, anche perché stava giusto per addormentarsi. Poi altri tonfi, uno distante dall'altro, si susseguirono facendo saltare l'acqua della pozzanghera. Justin allora spalancò gli occhi. Mano a mano che i tonfi si facevano più vicini, diventavano più potenti e più vicini uno dall'altro. Un pensiero agghiacciante penetrò nella mente di Justin. Era probabilmente un Tirex... Poi si ricordò quello che gli disse Jhon tempo fa, cioè di restare immobile. Solo così il dinosauro non li avrebbe fiutati. Gli altri stavano ancora dormendo, così decise di non svegliare nessuno, per evitare il diffondersi del panico e attirare così l'attenzione del predatore. Justin era terrorizzato e anche se cercava di controllarsi, stava tremando. Ma rimase immobile con lo sguardo puntato su quella pozzanghera, che continuava a far schizzare l'acqua. Ora si iniziò a sentire il fruscio tra gli alberi. E poi quei passi, sempre più pesanti e sempre più vicini... Ora si sentiva il suo respiro! Era li... percepiva la sua presenza, anche se non lo vedeva. Si sentiva addirittura il tenore delle sue corde vocali, represse dalla bocca chiusa. Un'ombra gigante si scorse sulla parete rocciosa. Era passato vicino al fuoco... Justin poteva vedere rispecchiato sull'acqua l'enorme dinosauro che infilava la testa in una tenda. Poi un grido, una donna si era svegliata e l'aveva visto. Il dinosauro balzò subito in piedi facendo volare via la tenda. Tutti si svegliarono e iniziarono a correre. "No fermi! State giù!", urlò qualcuno, ma inutilmente. Stavano già tutti scappando. Sembrava una scena di Jurassic Park: il feroce tirannosauro che inseguiva il gruppo di supersiti, travolgendo ogni cosa gli capitava davanti, e la gente che si disperdeva nell'oscurità della notte. Dopo qualche minuto di caos, in cui Justin rimase nascosto tra i cespugli per un po', iniziò a regnare di nuovo il silenzio assoluto. Il ragazzo contò fino a dieci e poi uscì finalmente allo scoperto. Il loro piccolo accampamento era andato completamente distrutto. Gli altri suoi compagni avevano lasciato lì tutto: tende, zaini, provviste.. Ora Justin era solo e doveva ritrovare il resto del gruppo. Chi di loro era sopravvissuto, almeno...
La macchina a sette porte di Hugo Reyes, era parcheggiata fuori dal Santa Rosa, con lui dentro. Un tempo quel manicomio fu la sua casa, fino a quando capì che il suo destino l'avrebbe portato altrove. Hugo era seduto dietro, al buio. E aspettava... A un certo punto finalmente vide uscire Walt, accompagnato da Benjamin Linus. Ben si mise alla guida, mentre il ragazzo si sedette accanto a lui. Walt si spaventò quando spuntò da dietro il testone di Hearly, che lo salutò e gli propose un nuovo incarico. Quello di sorvegliare l'isola, insieme a lui e a chi era rimasto laggiù. Anche se molti anni prima Ben aveva rapito Walt, quando era ancora un bambino, ora riuscì a ottenere la sua fiducia dicendogli che se fosse andato con lui avrebbe potuto aiutare il padre, Micheal, che era morto sull'isola tempo fa. Padre e figlio, da quando lasciarono l'isola, non si parlarono più, perché Micheal aveva raccontato a Walt di aver ucciso due donne, per salvargli la vita. Questo Walt non lo accettò. Allora Micheal, non avendo più niente da perdere, decise di tornare sull'isola per aiutare i suoi compagni che erano rimasti là, i supersiti del volo Oceanic 815, rimettendoci però la vita.
Erano passati cinque anni da quando Walt fu reclutato sull'isola. Ora era anche lui un aiutante di Hugo.
Justin ritrovò i suoi compagni. Fortunatamente erano tutti vivi. Si erano ritrovati al ruscello e aspettavano proprio lui. Daniel era preoccupato perché lo credeva morto e stava già per tornare indietro a cercarlo. Justin lo ringraziò per il pensiero. Ormai era l'alba. Erano tutti esausti. Secondo la mappa di Daniel, non mancava molto al villaggio. Camminando su una collina arrivarono ai piedi di un prato. Stavano giusto per lasciarsi alle spalle gli ultimi alberi della foresta, quando Daniel si fermò e disse: "Strano... Secondo la piantina doveva essere qui". Poi la mostrò a un signore che camminava al suo passo. Anche lui approvò. "Cosa sono quei puntini qua?", chiese poi. Daniel non seppe rispondere, ma lo fece qualcun altro: "Quella mappa è inesatta!". Era un ragazzo di colore a parlare, era sbucato alla loro destra, non si sa da dove. Si avvicinò passando oltre un albero e raggiunse la pianura dove si era fermato il gruppo. Nessuno parlò, ma rimasero tutti a fissare quel ragazzo arrivato dalla giungla. Justin istintivamente fece per prendere il fucile che portava a tracolla, pensando che quell'individuo fosse un indigeno, ma l'altro lo vide e subito lo bloccò, dicendo: "Quello non ti serve. Non sono un tuo nemico. Ora seguitemi. Vi condurrò io al campo". "Chi sei?", chiese Daniel. "Mi chiamo Walt", rispose l'altro. "Sei un amico di Benjamin Linus?", gli chiese poi. "Si, mi ha mandato lui da voi", concluse Walt. Alcuni dei sopravvissuti cominciarono a mormorare che forse non avrebbero dovuto fidarsi, ma Daniel, che rimase qualche secondo a riflettere osservando il ragazzo, li rassicurò: "Tranquilli. È venuto qui per aiutarci. Possiamo fidarci di lui". Fu lui il primo a fare un passo avanti in direzione di Walt, che ora si trovava davanti al gruppo, sulla pista per raggiungere il villaggio. Gli altri allora lo seguirono.
L'Elizabeth era ormai pronta per salpare. Dopo lunghi lavori di manutenzione, erano finalmente riusciti a ripararla e a renderla pronta per affrontare nuovamente il mare. Quella barca era stata la causa di molte avventure e disavventure per Desmond Hume, che ora si preparava a lasciare, si spera per l'ultima volta, quella maledetta isola. La barca a vela gli fu regalata quasi otto anni prima da Lippy, una supersite del volo Oceanic 815, che finirà anch'ella sull'isola e ci lascerà le penne. Desmond usò quella barca per una solitaria intorno al mondo, organizzata dal suocero Charles Widmoore, per conquistare proprio la sua stima, cosa che non era facile ottenere, specialmente quando gli chiese il permesso per aver la mano di sua figlia. In una tempesta Desmond naufragò sull'isola, dove venne trovato da un ex militare, ora membro del progetto Dharma, che lo truffò per farsi sostituire nel bunker, convincendolo così per i successivi tre anni a premere un pulsante per evitare una fantomatica fine del mondo. Desmond fu abbastanza ingenuo da cascarci, convinto che fosse stato il suo destino ad averlo condotto li. Questo diede tutto il tempo necessario al compagno per riparare di nascosto l'Elizabeth, con l'intento di lasciare lì Desmond e fuggire con la barca. Desmond però lo scoprì e involontariamente lo uccise. Nonostante la barca fosse già stata riparata dal collega, lui non ebbe mai il coraggio di abbandonare il bunker, e rimase a premere quel pulsante fino all'arrivo dei passeggeri del volo Oceanic 815, che presero il suo posto. Desmond tentò la fuga con l'Elizabeth, ma andando alla deriva non fece altro che ritornare al punto di partenza, unendosi così al resto dei sopravvissuti del disastro aereo. Quando alcuni di loro vennero salvati, Desmond ritrovò l'amata donna della sua vita e per altri tre anni convisse con lei, dalla quale ebbe pure un figlio. Ma evidentemente l'isola non aveva finito con lui, infatti lo scozzese fu riportato sull'isola con l'inganno da Charles Widmoore, che aveva bisogno di lui per sconfiggere il fratello di Jackob, ovvero la reincarnazione del male. Quando quella storia finì Desmond rimase sull'isola insieme a Ben e a Hugo Reyes, che aveva preso il posto di Jackob come protettore dell'isola. Però ora lui voleva ritornare dalla moglie e dal figlio Charly. Allora Ben, con l'aiuto di Bernard e altri del gruppo di 'ostili', così vennero soprannominati dal progetto Dharma, riparò la vecchia barca a vela di Desmond, aiutandolo così a ritornare finalmente a casa. Fu un addio commovente, perché nonostante Linus gli avesse sparato un po' di tempo fa, ora era cambiato e si stava facendo perdonare così. I due si strinsero la mano e si ringraziarono per tutto. Poi fu il turno di Hugo, col quale si abbracciarono. Con le lacrime agli occhi salutò anche Bernard e Rose, e poi salì a bordo dell'Elizabeth, lasciandosi così l'isola alle spalle. Era ormai il tramonto quando la barca sparì oltre l'orizzonte.
Il villaggio Dharma era bellissimo. C'erano tante casette, tutte uguali, simili a bungalow, con dei giardinetti sul retro. Erano tutte poste in fila, e in mezzo c'era un enorme prato con altalene, gazebo, panchine e persino un campo da Pallavolo. Lì Daniel e i suoi compagni furono accolti da Cindy, un tempo l'hostess del volo 815, e altri membri di quella piccola comunità. Non erano in molti. Evidentemente successe qualcosa in passato e parecchi di loro rimasero uccisi. Oltre a Cindy c'erano Rose e Bernard, una coppia sulla settantina, Zac e Emma, due fratelli sui diciotto/vent'anni, e altre quattro o cinque persone più o meno di mezza età. "Incredibile..." commentò Justin. "Quale parte?", ironizzò Daniel. Gli otto supersiti del volo 0023 furono accompagnati verso tre casette, dove momentaneamente alloggeranno per i prossimi giorni. Charlotte cominciò a chiedere in giro se qualcuno avesse per caso visto sua figlia, ma non fu così. Allora venne accompagnata da Cindy e Rose in una casetta, quella posta più a destra vicino alla giungla, insieme ad altre due donne del suo gruppo, dove le furono date coperte, vestiti puliti e provviste. Nella casetta posta di fronte, a 'L', dal lato destro, andarono Justin e Daniel, in quella più in la ancora, gli altri tre uomini del loro gruppo. Tutte e tre le case erano ai bordi del villaggio, e alle spalle, oltre ai giardini, un pezzo di prato le separava dall'inizio della giungla. Erano in montagna, per cui non si vedeva il mare, e la foresta intorno al campo si espandeva in salita. Daniel e company erano stati accolti come in una vera e propria famiglia, ma la nostalgia di casa cominciava ad essere forte. Dopo tanto tempo potettero finalmente rivedere una doccia, e assaporarne la goduria. Inoltre si cambiarono i vestiti e quando venne sera si portarono tutti al centro del villaggio per cenare. Era stranissimo potersi sedere intorno ad un tavolo, su delle sedie. Non erano più abituati così a tal punto, che si sentivano dei barboni vicino agli altri. Il tavolo era rettangolare e lungo. Avrà avuto una trentina di posti. Nel villaggio invece, compresi loro, ora c'erano venti persone. Rose convinse il timidone del marito a recitare la preghiera. "Non puoi farla tu?" scherzò Bernard, poi si alzò e iniziò a pregare. Allora tutti abbassarono la testa e attesero la fine. Il banchetto fu ricco e delizioso. Oppure era solo una sensazione che provavano i neo supersiti, visto che fino a quel giorno la loro dieta era stata piuttosto scarsa. Tuttavia potettero gustare dell'ottima carne cotta condita con le spezie, insalata, pomodori freschi e della frutta, l'unica cosa che fino a quel momento non era mancata neanche a loro. Infine fu messo in tavola un enorme dolce, una specialità di Anne, una signora sulla quarantina che era abile in cucina, fatto di pan di spagna, mandorle e uvetta. Il signor Alan, uno dei supersiti del volo 0023, chiese come facevano ad avere luce elettrica e cibo. Walt rispose che la carne se la procuravano cacciando, la verdura la coltivavano e i prodotti in scatola li avevano presi dall'accampamento militare, dopo che fu abbandonato. Justin chiese com'era possibile che i dolci o i legumi non scadessero, e gli fu risposto che molta roba veniva congelata apposta. "E quando finirete tutte le provviste? Come farete?", chiese Alan. "Esattamente come facevamo prima... ne faremo a meno", rispose Bernard sorridendo. La cena era finita. Ora ognuno tornava nei propri alloggi. Erano stati molto accoglienti gli abitanti di quel luogo, ma tutti i nuovi arrivati si accorsero che erano molto riservati e gelidi quando si trattava di rispondere a domande a cui non volevano probabilmente dare risposta. Inoltre non vollero spiegare perché non se erano mai andati dall'isola e ne quale fosse il motivo che li tratteneva lì, a combattere contro la natura selvaggia e ad affrontare la gente ostile che ogni tanto faceva loro visita. Ma era stata una giornata pesante, quindi tutte quelle domande non facevano altro che incrementare la loro curiosità e così ritardare il loro desiderio di appoggiare la testa su un cuscino e dormire comodi. La notte calò.
EPISODIO 14 - LA SIRENA
Dopo una settimana trascorsa nel villaggio Dharma, non successe praticamente nulla. Ogni tanto qualcuno andava a caccia, oppure raccoglieva la verdura. Insomma ognuno contribuiva nel funzionamento di quella società. Vivevano tranquilli e pacifici in quell'accampamento. Sulla spiaggia invece Alex, Rossi, Elouise e gli altri continuavano con la loro vita umile e arrangiata. La differenza era che stavano lavorando per costruire una zattera, con la quale avrebbero tentato di lasciare l'isola. Il progetto era quasi a buon punto, mancavano gli ultimi dettagli. Qualcuno aveva già procurato il telone che avrebbe funto da vela, mentre coi pezzi dell'aereo, le liane e il bambù, avevano ideato la superficie dell'imbarcazione. Era un vero e proprio capolavoro e tra pochi giorni finalmente avrebbero scoperto se, oltre all'estetica, quella zattera avrebbe potuto veramente trarli in salvo. Non era molto grande, quindi sarebbero partiti in due, massimo tre, con la speranza di avvistare qualche nave o qualche isola.
Alex disse che andava tra gli alberi per pisciare. Nonostante l'avesse razionata bene e avesse cercato di consumarne il meno possibile, aveva quasi finito la droga. Andò diretto in un punto in cui era sicuro che nessuno lo vedesse e tirò fuori la bustina. Fino a quel giorno nessuno l'aveva ancora scoperto a drogarsi, mentre per quanto riguardava i dinosauri, non si facevano vedere da un bel po', quindi lì era al sicuro. Dunque si inginocchiò, stese la merce su una scheda liscia e tirò su col naso. Un fruscio tra i cespugli lo fece spaventare e nella foga gli cadde la busta di cocaina. Era il dott. Rossi. Alex non ne era sicuro, ma temeva che Matteo l'avesse visto. Allora cercò di raccogliere velocemente ciò che era salvabile e se lo mise in tasca alla ben di Dio. Poi si alzò barcollando e provò a balbettare qualcosa. La testa gli girava. La bamba gli stava già salendo. Voleva cercare di spiegare che era li per pisciare, ma Rossi lo interruppe e gli disse: "Su forza, vieni con me!". I due arrivarono su una spiaggia là vicino, dove non c'era nessun altro a parte loro. Rossi fece sedere il ragazzo su un tronco, e poi gli disse: "Da quanto tempo?". Alex, che ormai aveva capito tutto, non provò nemmeno a girarci intorno, e rispose sincero: "Troppo tempo...". "Quanta te ne rimane ora?", gli chiese il medico. Alex rispose che gli era quasi finita e che dopo non sapeva come avrebbe fatto. Tremava nella voce e aveva le pupille completamente dilatate. Allora Rossi gli propose un accordo. Lui gli avrebbe consegnato la busta con la cocaina dentro, che ormai sarà stata si e no mezzo grammo, e poi il dottore avrebbe deciso quando e se dargliela, stabilendo lui le dosi di volta in volta. Cosi facendo, lo avrebbe fatto diminuire sempre di più, fino a smettere. Era ovvio che quel ragazzo da solo non ce l'avrebbe fatta. Alex era completamente storto. Era ancora in botta e nella sua testa probabilmente lo aveva ringraziato, ma dalla bocca uscì solo qualche balbettio poco chiaro. Rossi non volle più stressarlo, così si alzò, gli diede una pacca sulla spalla e si allontanò con la bustina in tasca. Alex rimase solo e si lasciò cadere all'indietro, sdraiato sulla sabbia a fissare il cielo, nell'attesa che la fattanza gli fosse passata.
Tim correva. Correva a più non posso. Andava così veloce che rischiava di inciampare. Non sarebbe stata la prima volta d'altronde. Quando arrivò in spiaggia la gente si spaventò. Erano felici di rivederlo, ma vedendolo arrivare così, si apprestarono a soccorrerlo e gli diedero dell'acqua, prima di parlare. "Cosa è successo?", chiese Rossi. Tim era sdraiato a terra con la schiena appoggiata su un borsone, e Lisbette da dietro gli teneva la testa. Il ragazzo, che aveva un aspetto orribile, bevve un sorso d'acqua, deglutì e poi disse con la voce roca: "Dove sono gli altri?". Rossi rispose: "Sono andati all'accampamento Dharma, ma sono lì già da una settimana...". Allora Tim disperato disse: "No! Devono assolutamente tornare indietro! Non sono al sicuro lì...". Nell'ultima frase il suo tono si spense e il ragazzo esausto perse i sensi. "Di che diavolo stava parlando?" chiese Elouise.
Nel frattempo al Dharma procedeva tutto normalmente. Come tutte le mattine Justin si svegliava, si faceva la barba (finalmente senza tagliarsi e senza usare sempre le stesse lamette, tra l'altro persino senza la schiuma), andava in cucina, si incontrava con Daniel e insieme facevano colazione. Il caffè lo coltivavano sull'isola, mentre il latte lo mungevano in una fattoria dove c'erano delle mucche. Biscotti, brioches, fette biscottate e marmellata a lunga conservazione, invece, erano tutti marchiati Singem, il marchio dell'esercito e degli scienziati che qualche anno prima arrivarono sull'isola.
Un torrido pomeriggio, Daniel, Justin, Zac e Emma, i due fratelli del volo 815, con cui avevano stretto amicizia, si stavano fumando una sigaretta in serranda. Zac e Emma raccontarono che arrivarono sull'isola quand'erano piccoli, e che qualcuno li aveva convinti ad unirsi alla gente che abitava lì, per raggiungere un certo scopo. Quale fu lo scopo, non lo scoprirono mai. Sapevano solo che dopo la guerra tra il bene e il male di otto anni fa, erano riusciti miracolosamente a sopravvivere, e ora che stavano crescendo cominciavano a sentire il desiderio di tornare a casa. Gli dissero che i loro genitori erano morti e un mucchio di balle per persuaderli a rimanere là. Ma ora erano grandi e nutrivano il desiderio di scoprire da dove diavolo erano venuti. Ormai avevano solo ricordi vaghi. All'improvviso iniziò a suonare una sirena. Sembrava un'allarme. Tutti coloro che erano all'aperto iniziarono a correre per il villaggio e si barricarono nelle loro case. Anche Zac e Emma lo fecero. Daniel e Justin, che erano uno appoggiato a una colonna e l'altro seduto sui gradini, non capirono che stesse succedendo, e si alzarono anche loro in piedi. L'allarme continuava a suonare. Una donna urlò ai due ragazzi di rinchiudersi subito in casa, e poi corse anch'ella nel suo appartamento e si richiuse la porta alle spalle. Justin e Daniel non ci pensarono due volte e imitarono gli altri. "Che diavolo succede?", chiese Justin. "Non lo so", rispose Daniel, "Ma stanno tutti abbassando le tapparelle. Si stanno barricando in casa!". Allora Justin, che stava spiando fuori attraverso una tenda, disse all'amico: "Forza! Facciamolo anche noi! Chiudi di là!". I due fecero il giro della casa chiudendo tutto le porte, le finestre, le persiane e le tende del perimetro, e poi calò il silenzio assoluto... Entrambi i ragazzi si misero accovacciati dietro a una finestra, che dava verso il villaggio, sforzandosi di intravedere qualcosa o qualcuno. Ma non successe niente. Continuava a regnare il silenzio. La sirena aveva nel frattempo smesso di suonare. Era pomeriggio tardi. Fino ad allora non era mai successo niente di strano e nessuno ne aveva parlato ai nuovi arrivati. Però chi già viveva lì, era preparato a tale piano di emergenza. Infatti al suono della sirena sapevano già tutti cosa fare. Loro no. E chissà come mai non li avevano avvertiti?
Quando Tim si riprese, la gente al campo stava proseguendo imperterrita nelle loro faccende quotidiane. C'era chi stendeva i panni, chi spostava le valigie, chi aggiustava i teloni delle tende che col vento tendevano a volare via e chi stipava cibo e acqua nelle mensole della cucina. La voce di Rossi lo spaventò. Era dietro di lui e non se ne era accorto. Gli chiese: "Allora? Vuoi dirci che sta succedendo...". Prima che Tim rispose, anche Elouise gli pose una domanda: "Dove sei stato tutto questo tempo? Da cos'è che stavi scappando?". Tim allora si alzò a fatica e rispose, ancora un po' intontito: "Quelli che sono andati in quel villaggio NON SONO AL SICURO! Dobbiamo subito avvertirli!". Rossi non capiva: "Avvertirli... Avvertirli di cosa?". Tim continuò, sempre nervoso: "Stanno arrivando! Li ho visti! Gli uomini vestiti di bianco. Stanno arrivando. Vogliono prenderci tutti! Hanno già preso Jhon e hanno ucciso il pilota! Ora stanno venendo a prendere anche noi! Dobbiamo andarcene subito!". Alex, che arrivò in quel momento sul posto, chiese ironico: "E come facciamo ad andarcene? Hai per caso una nave?". Rossi lo azzittì e poi si rivolse al ragazzo: "Andarcene dove?!". Tim proseguì: "Via! Via dall'isola! Via di qua... e il prima possibile!". "Chi sono gli uomini in bianco?", chiese poi Elouise. "Il pilota? Che è successo al capitano?", chiese spaventata la ragazza hostess. Poi anche l'altro steward parlò: "Hai trovato un modo per andarcene? Una radio?". "Calma ragazzi!", urlò Rossi, "Dategli tempo di rispondere, è ancora scosso... Forza ragazzo vieni con me e raccontami tutto". E i due si allontanarono.
All'improvviso in mezzo al prato del villaggio, si scorse qualcuno. Aveva un camicie bianco, la testa pelata e la pelle bianco latte. Camminava eretto come un robot in direzione del capannone principale, posto al centro del villaggio. "Chi diavolo è?", chiese Justin. Non fece in tempo a dirlo che altri come lui, di cui uno che comparì proprio affianco alla loro casa facendoli spaventare, sbucarono dal retro degli appartamenti dirigendosi anche loro verso il capannone. Sembravano tutti ipnotizzati. Si muovevano tutti allo stesso modo e sembravano sintonizzati come delle macchine. Era una scena inquietante. Justin e Daniel potettero vedere che uno di loro, andò vicino alla porta di una casa vicino alla loro. "Dannazione", commentò Daniel. Non fece in tempo ad accedere sul terrazzo che Alan saltò fuori col fucile in mano e lo puntò verso la testa di quello strano individuo, che però non fece nemmeno una smorfia, e continuò ad avvicinarsi. Alan gli urlò di fermarsi più volte. Quando ormai il tizio era quasi sulla soglia della porta, Alan gli sparò, colpendolo in testa. Il tizio cadde all'indietro, ma altri gli sbucarono alle spalle e lo bloccarono, facendogli cadere il fucile. Non si riusciva a vedere bene. Si sentì solo qualche urlo, e poi il silenzio. "Dobbiamo andare a vedere cos'è successo!", disse Justin. Prima che i due uscissero, un'altra sirena, questa volta con una melodia diversa e più lieve, iniziò a suonare, e tutti corsero di nuovo fuori. I tizi in camice bianco erano spariti. Come avevano fatto in così poco tempo? Chi erano, e cosa volevano da loro? Perché gli abitanti dell'isola li temevano, e perché si nascondevano da loro se questi non erano nemmeno armati?
Per evitare che la gente si spaventasse, Matteo Rossi, Lisbette, Elouise, Alex, i due hostess e Tim si misero in disparte a parlare, tutti in cerchio, al centro della spiaggia. Tim raccontò della Struttura, di quando furono imprigionati, di aver visto Margot e del suo strano comportamento. Poi disse che alcuni indigeni, con a capo un tizio strano vestito elegante, che diceva di conoscere Jhon, arrivarono all'improvviso e senza dare spiegazioni uccisero il pilota e portarono l'archeologo e il ragazzo in una strana caverna, dove in basso c'era della lava. Tim disse che li legarono e che mentre recitavano una specie di preghiera nella loro strana lingua, fecero qualcosa a Jhon, che uscì di senno e iniziò anche lui a parlare nella loro stessa lingua, non riconoscendo più il suo allievo. Tim riuscì a scappare ma Jhon ormai era diventato uno di loro. Una storia assurda in effetti, ma Rossi forse gli crebbe e gli chiese della bambina, la piccola Margot. Tim rispose che non l'aveva più vista, da quando gli portò del cibo alla sua gabbia dove lo tenevano imprigionato i primi giorni.
Anche al Dharma si fece una riunione di condominio. Ora i supersiti del volo 0023 volevano delle risposte. Esigevano di sapere innanzitutto che fine avesse fatto il loro amico Alan, che era sparito, e poi chi fossero quegli strani tizi e perché li temevano tanto. In seguito a una discussione accesa, si decise di sedersi intorno a un tavolo e parlarne. Cindy raccontò che sull'isola c'era un vulcano, che ormai era spento da secoli. All'interno ci vivevano delle persone, le stesse che avevano costruito e protetto da generazioni il marchingegno che incalanava l'acqua con la luce sotto una grotta, nel cuore dell'isola. Quando otto anni fa i successori di Jackob ci misero le mani, avevano involontariamente riacceso il vulcano, e ora era questione di tempo prima che esplodesse distruggendo l'intera isola. Se ciò accadeva, non solo tutte le persone che ci abitavano sarebbero morte, ma il male sarebbe risorto, visto che quell'isola fungeva da tappo tra l'inferno e la vita terrestre. Era un racconto assurdo, certo, ma secondo loro era tutto vero. Ed era per questo che erano rimasti a vivere sull'isola, per proteggere qualcosa! Quella luce, quello strano posto al centro dell'isola. Ora pare che ci fossero delle persone, che agivano per conto del male, che volevano far eruttare il vulcano. Daniel chiese perché di tanto in tanto rapivano alcuni di loro, e Walt rispose che gli servivano reclute da sacrificare oppure da annettere al loro esercito. Era tutto troppo folle per essere vero. Eppure quelle persone erano convinte che lo fosse. Assurdo! Dove diavolo erano finiti? Quella gente era pazza. Justin decise di andarsene. "Cosa stai facendo?", gli chiese Daniel. "Beh, mi sembra ovvio. Me ne vado! Hai intenzione di lasciare quest'isola o vuoi rimanere qui a farti sbranare da questi pazzoidi cannibali?! Io se permetti non voglio morire per colpa di qualche strana leggenda. Non mi dirai che credi a queste favole?", rispose seccato Justin. "Non credo che stiano mentendo Justin! Pensi veramente che siano rimasti su quest'isola per tutto questo tempo senza uno scopo? Ti sei scordato quando ci hanno rapiti gli indigeni? Beh, ho fatto dei sogni strani e ho rivisto quel bambino altre volte in giro per la giungla. Credo sia mio figlio... lo so è assurdo! Ma per quale motivo secondo te ci avrebbero risparmiati altrimenti? Insomma lo hai visto anche te! Lui mi ha riconosciuto!", disse Daniel. "Ma è impossibile... come potrebbe essere qua? Insomma, non è normale!", rispose Justin. Daniel replicò: "Cosa c'è di veramente normale su quest'isola?! Non puoi abbandonarmi... non adesso!". Justin era spiacente: "Mi dispiace Daniel... ma io non credo che tutto questo sia reale. Io voglio solo tornare a casa. Ho deciso di lasciare il mio migliore amico per seguirti fin quaggiù. Ma ora credo che stiamo esagerando... se hai intenzione di seguire questi svitati, fai pure... ti faccio i miei auguri. Buona fortuna!". Justin si rivolse a Charlotte: "E tu cosa vuoi fare? Vieni con me o resti?". La donna le rispose che se c'era una possibilità di ritrovare sua figlia doveva restare. Così il ragazzo da solo prese il suo zaino e se ne andò, lasciandosi dietro gli amici immobili a guardarlo.
EPISODIO 15 - INCONTRO INASPETTATO
Mentre Justin camminava tra la giungla si sforzava di ricordare la strada per il campo. La spiaggia doveva essere in quella direzione, ma non ne era del tutto sicuro. Quell'isola era enorme e perdersi non era difficile. Adesso lui era da solo, ad affrontare la fauna di quella giungla, con la speranza di ritornare alla spiaggia e ritrovare il resto del suo gruppo, specialmente Alex, ma anche Lisbette, per cui iniziava a provare qualcosa. Si, ultimamente durante la notte pensava spesso a lei e gli dispiaceva di averla lasciata da sola. Nelle settimane passate sulla spiaggia, i due avevano parlato molto e si trovavano bene a dialogare. Era come se ci fosse un certo feeling tra loro. Ma la cosa non era mai andata oltre, perché non erano mai soli e inoltre la loro priorità era quella di sopravvivere, quindi non ebbe neanche troppo tempo per dedicarsi alla conquista della ragazza.
Lisbette stava piangendo. Il suo ragazzo le aveva tirato l'ennesimo schiaffo. La sua assurda gelosia stava superando proprio ogni limite. Lui spesso la maltrattava, per cose di cui lei era assolutamente innocente! Non poteva continuare così. Glielo dicevano tutti, la madre, gli amici... Quel ragazzo era sbagliato per lei, ma lei lo amava e pur di restare con lui, subiva tutti i suoi pessimi difetti. In fondo è così, quando ti innamori non c'è niente da fare. Il cuore non si comanda... Ora però lei era stufa. Stavolta era troppo. Finché si trattava di un semplice schiaffo poteva chiudere un occhio. Ma addirittura fare sceneggiate a casa dei suoi genitori? No, stavolta era decisa. L'avrebbe lasciato!
Siccome lei aveva paura delle sue reazioni, decise di scriverglielo per messaggio. Si sarebbero rivisti solo l'ultima volta per restituirsi le loro cose. E poi magari sarebbero rimasti amici... ma di più non si poteva. Ovviamente lui la prese male. Si presentò sotto casa di Lisbette ubriaco, di notte e iniziò a fare baccano. Lei era terrorizzata. Allora scese il padre, e dopo essersi urlati contro per ore, arrivarono addirittura alle mani! Lisbette era disperata. Come avevano fatto ad arrivare a quel punto? Eppure all'inizio non era cosi. Certo, lui aveva sempre avuto un carattere forte, ma non era manesco e maleducato. Anzi, le faceva mille complimenti e la corteggiava sempre. All'inizio andava tutto bene, ma adesso perché era cambiato tutto? Possibile che lui fosse veramente così cattivo? Cos'è che l'aveva cambiato? Lei era sempre stata buona nei suoi confronti. Era davvero stata così fessa da non accorgersi di con chi avesse a che fare? Evidentemente era cosi. Una pattuglia di polizia arrivò con le sirene accese. Suocero e genero stavano facendo a pugni e i poliziotti li separarono. Dopo quell'episodio la vita di Lisbette divenne impossibile. Il padre l'aveva letteralmente rinchiusa in casa. Quasi non poteva più uscire! E di certo non le era più permesso di frequentare i ragazzi. Lisbette non ce la faceva più, voleva andarsene di là. Aveva uno zio in Australia, col quale aveva uno splendido rapporto nonostante la lontananza, e voleva andare da lui a stabilirsi per un po'. Allora organizzò la fuga. Rubò dei soldi ai suoi genitori e si comprò il biglietto per Sidney. Purtroppo quell'aereo non raggiungerà mai il continente oceanico, ma precipiterà su un'isola assurda, sconosciuta dalla geografia terrestre, sulla quale però abitavano strane persone ed era piena di misteri.
Alex stava passeggiando tra i primi alberi della giungla, restando per prudenza nei pressi della spiaggia, senza addentrarsi troppo, visto gli ultimi precedenti. Era ancora in rota, espressione riguardante i tossici, o gli ex tossici, che si trovano senza la loro dose quotidiana, e che quindi iniziano a stare male e ad innervosirsi. Spesso per farsi passare la voglia Alex camminava. Questo lo aiutava un po' a distrarsi, ma non era mai del tutto sufficiente. Quel giorno lì, incontrò Lisbette. Stava piangendo da sola nella giungla. "Ehy, che cosa succede?", le chiese Alex. "Nulla... tranquillo va tutto bene", rispose Lisbette asciugandosi gli occhi con la manica della maglietta appena vide il ragazzo arrivare. Alex insistette: "Posso aiutarti? Sicura che non vuoi parlare? Io ci sono...". "Sei molto tenero, ma... tranquillo, davvero, è tutto ok. Era solo uno sfogo", rispose la ragazza, che sorrise e poi prese e se ne andò.
Justin stava ancora camminando nella giungla col suo zaino in spalla. Si fermò un attimo per prendere la borraccia quando un pallone andò a sbattere contro un albero e poi rimbalzò in mezzo ai cespugli, scomparendo. Di nuovo quel pallone! Justin abbandonò lì lo zaino e si mise a correre istintivamente nella direzione in cui era rotolato, passando oltre un gruppo di cespugli. Qui assistette a una scena a cui non avrebbe mai immaginato di assistere. C'era un uomo in piedi, vicino a un fuoco mezzo spento, che emetteva solo del fumo. Era un ragazzo giovane, forse poco più grande di lui, e stava palleggiando con quella palla! Justin si arrestò di colpo quando si trovò davanti quell'individuo, che aveva un aspetto stranamente familiare. L'uomo lasciò cadere il pallone dalle mani, e prima che raggiunse terra, lo calciò, facendolo sbattere contro lo stesso solito albero. Dopodiché la palla rimbalzò sul terreno e sparì nella giungla. "Ciao, Justin", disse poi il ragazzo. "Chi sei?", rispose subito Justin, che lo guardava basito. "Sono tuo zio" sorrise l'altro. Justin si agghiacciò. Ma all'inizio non riuscì a capire, così chiese ancora: "Mio zio? Come mio zio?...". "Lo so, è difficile da capire. Ma vedi, qui come ti sarai sicuramente accorto, è possibile anche parlare con i morti", continuò il ragazzo sorridendo. Justin non sapeva cosa dire, e continuava a fissarlo nella stessa posizione in cui si fermò di colpo quando lo vide. Allora il suo pseudo zio continuò: "Vedi, a volte basta lasciare che le cose vadano per il loro verso, mentre altre, ci vuole l'intervento di qualcuno che ci dica cosa fare. In questo caso ho pensato che magari avrei potuto aiutarti. Sai, siamo molti simili io e te... la tua nonna quando ti guarda mi vede spesso dentro di te. E soffre, soffre tanto. Ma in fondo il fatto che mi assomigli la fa sentire meglio". Justin capì, e ora che ci fece caso, riconobbe i lineamenti sul volto di quel ragazzo. "Mike?...", disse singhiozzando leggermente. Suo zio continuava a sorridere, mentre Justin disse: "Ma... come può essere? Come fai ad essere qua? Io non capisco...". "So, che sei molto confuso", rispose Mike, "Ma ora non c'è tempo per le spiegazioni... Hai del lavoro importante da fare". Justin era letteralmente paralizzato: "Del lavoro? Che cosa dovrei fare?". "Siediti che ti spiegherò tutto", rispose suo zio. Lo zio di Justin, Mike, era morto all'età di ventitre anni per colpa della droga. Justin non lo conobbe mai perché non era ancora nato. Ma sua nonna gli parlò molto di lui, e in effetti spesso diceva al nipote di assomigliargli molto. Justin si sedette vicino al focolare senza mai togliere un attimo lo sguardo da Mike, che iniziò a parlargli. Gli disse che era il suo destino ad averlo condotto lì, e che non era pazzo, come Justin iniziava a pensare, visto che in effetti stava parlando con un morto! Praticamente quell'isola era una specie di purgatorio, una porta di passaggio tra l'aldilà e il mondo dei vivi. Il problema è che c'erano persone che intendevano aprire completamente quella porta, facendo sì che le forze del male potessero devastare ogni cosa di buono che ci fosse sulla Terra. Raccontata così sembrava la Divina Commedia di Dante Alighieri, ma in effetti Justin lo sentiva nel suo profondo che stava per succedere qualcosa di brutto e che avrebbe dovuto fare di tutto per impedirlo. Alcuni l'avevano già capito, tipo Daniel, pensò. Altri dovevano ancora farsene una ragione. Justin chiese: "Perché io? Perché con miliardi di persone al mondo dovevo essere io a finire qui e salvare la Terra... tutto questo è assurdo!". Mike rispose: "Tu eri solo Justin... come me. Per questo che sei stato portato qui. Il destino è qualcosa di molto imprevedibile. Noi non possiamo fare altro che adeguarci e seguire la nostra strada. Ora la tua strada ti conduce qua. Sono convinto che ci sarà una valida ragione...". Justin non seppe più cosa rispondere. Aveva il cervello in fumo. A un certo punto Mike si alzò. "Dove vai?", gli chiese il nipote. "Il mio tempo qui è scaduto. Ora devo tornare", rispose lo zio. "Tornare dove?", domandò Justin. "Ognuno di noi ha un percorso da seguire... Beh io ho il mio, tu hai il tuo. È stato bello incontrati... se un giorno la rivedrai, salutami tanto la tua mamma", concluse sorridendo. "Un momento non puoi andare così... cosa dovrei farei io?!", chiese Justin disperato, balzando in piedi. "Non sono io colui che può dirtelo. Ma, lascia che ti spieghi una cosa. Tu sei molto più forte di quello che pensi. So che molti hanno cercato di convincerti del contrario ma... io credo in te Justin!", rispose Mike, stavolta con l'espressione seria. "Ti rivedrò?", chiese triste Justin. "Potrebbe essere... perché no? Buona fortuna nipotino mio", si congedò sorridendo, e poi sparì tra i cespugli. Justin non ebbe neanche la forza di seguirlo per vedere dove stesse andando, perché tanto sentiva che sarebbe stato inutile. Non avrebbe più rivisto lo zio, non in quel momento almeno. Ormai stava facendo buio, ma il ragazzo rimase ancora un po' lì a fissare il nulla, e poi si sedette vicino al fuoco, ormai del tutto spento, e scoppiò a piangere. Rimase li per diversi minuti, aveva proprio bisogno di sfogarsi...
All'aeroporto di Pechino, Lisbette stava cercando delle monete per telefonare a sua madre dai telefoni di servizio. Era in pensiero per lei, che l'aveva lasciata senza neanche salutarla, solo con un bigliettino sul tavolo, nel quale aveva scritto che nonostante le volesse bene, non ce la faceva più a vivere lì in casa e voleva provare ad arrangiarsi da sola, trovando la sua strada. Ora aveva un po' di malinconia e qualche senso di colpa, e voleva chiamare a casa per sentire se i suoi erano preoccupati. Passò vicino a un uomo strano con un cappotto nero e un bastone ridicolo, che parlava con un ragazzo, vicino alle cabine. Raggiunse il primo telefono libero e chiamò sul numero fisso della sua abitazione. Rispose la madre. La conversazione fu molto commovente. La madre piangeva e dava la colpa a se stessa per tutto ciò che era successo fino a quel momento, pensando di non essere stata un buon genitore. Ma Lisbette, che scoppiò a piangere subito dopo di lei, le disse disperata che non era così, e che era invece stata lei ad essere una pessima figlia. Ora voleva tornare a casa, ma per farlo doveva per forza raggiungere Sidney e poi prendere un aereo di ritorno. Quando mamma e figlia si salutarono, non avrebbero mai immaginato che non si sarebbero più viste tanto presto. Infatti l'aereo su cui salirà Lisbette non raggiungerà mai Sidney, ma precipiterà prima.
Justin ormai era quasi arrivato al campo, più confuso che mai, e con la mente ferma a quando incontrò suo zio defunto qualche ora prima nella giungla. Già tra gli alberi si poteva intravedere il mare. Questo gli diede un po' di serenità. "Chi sei?", lo distrasse una voce femminile. Justin si voltò. Era Lisbette! Contenti di vedersi, i due, si saltarono addosso e si abbracciarono. "Cosa ci fai qui?", chiese la ragazza. "Sono tornato. Io... credo di essermi sbagliato. Sta per succedere qualcosa di brutto. Dovevo tornare!" - "Di che parli?" - "Andiamo al campo, vi spiegherò tutto". La ragazza gli si avvicinò sempre più. Aveva una sorriso veramente bello. Nei suoi occhi c'era una strana luce, come se Justin percepisse qualcosa che altre persone non avevano. "Beh, meno male che sei tornato...", disse allora Lisbette. Fu inevitabile. I due si baciarono. Fu un bacio lungo ed intenso. Entrambi tenevano gli occhi chiusi e si tenevano per mano, con i corpi uniti e i cuori che battevano all'unisono. Quando terminarono si guardarono finalmente negli occhi e, un po' intimiditi, sorrisero e abbassarono lo sguardo. "È ora di rientrare", disse Justin, "Si sta facendo buio". E i due tornarono finalmente al campo.
EPISODIO 16 - IN SPEDIZIONE
"Che cosa? Tim è tornato? Dov'è??", chiese disperato Justin a Lisbette. "È laggiù, con Rossi e Alex... ma perché? Che succede??", rispose allibita la ragazza. Justin si precipitò sul posto. I tre erano in piedi sulla spiaggia e stavano ancora discutendo sul da farsi. Justin si infilò in mezzo facendoli sussultare. "Tim!", esclamò. Il ragazzo si girò e fece un'espressione sbalordita, dicendo: "Justin! Dove sono gli altri?". Justin sembrò ignorarlo: "Tim! Cosa ci fai qui?! Dove sono Jhon e il pilota?". Rossi provò a dire qualcosa, ma gli fu parlato sopra dai due ragazzi che si consideravano solo a vicenda. Tim rispose: "Il pilota non ce l'ha fatta... mentre Jhon è ancora in mano loro... e anche Margot. Justin, dov'è il resto del gruppo? Perché sei solo?". "Non hanno voluto seguirmi. Abbiamo incontrato delle persone. Dicono che dobbiamo fermare dei tizi che vogliono distruggere l'isola. Gli altri sono rimasti con loro. Io sono tornato per avvisarvi. Dobbiamo andarcene! Dobbiamo scappare finche siamo in tempo!", disse Justin. "Un momento!", li interruppe Rossi, "Non possiamo abbandonare gli altri". Justin replicò: "Non sappiamo neanche dove sono! Avete costruito una zattera, usiamola per andarcene!". "Concordo con lui", parlò per la prima volta Alex. E finalmente i due migliori amici si scambiarono il primo sguardo da quando Justin era tornato. "La zattera contiene solo due posti, massimo tre", disse Rossi, "Non possiamo usarla per lasciare tutti l'isola". Tim intervenne: "Beh, due di noi potrebbero già salpare. Io nel frattempo organizzo una spedizione per andare a salvare Jhon, la signora Charlotte e la sua piccola. Chi vuole venire è il ben venuto". Detto ciò, il ragazzo si precipitò verso alcune tende per prendere cibo e acqua. Rossi invece chiamò i due ragazzi dell'equipaggio e si avviò verso la zattera, probabilmente per finire gli ultimi ritocchi. Del cerchio rimasero solo Justin e Alex, che finalmente si sorrisero. Poi Alex disse: "Sono contento che tu stia bene". "Già... anch'io", rispose Justin.
Cinque giorni fa:
Jhon, Tim e il pilota erano ancora rinchiusi nella gabbia. Ogni tanto gli indigeni gli portavano da mangiare. Rimasero lì per tre lunghi giorni, fino a quando si fece rivedere il loro capo, il tizio che li sorprese a curiosare nella Struttura. L'uomo in giacca e cravatta arrivò con altri dei suoi e disse: "Su forza. È arrivato il momento". "Il momento per cosa?", chiese Jhon. Un indigeno aprì la gabbia, prese il pilota, lo tirò fuori e lo legarono. Poi fu il turno degli altri due. Tutti e tre vennero bendati e portati in una grotta. Qui c'erano tantissimi uomini, vestiti tutti con un camicie bianco. Era una caverna profonda. In fondo c'era un crepaccio con in basso un fiume di lava. Sembrava l'interno di un vulcano. Tutti gli uomini in bianco erano inginocchiati a recitare una strana preghiera, tutta nella loro lingua particolare. Due indigeni presero il pilota o lo trascinarono verso il crepaccio, mentre Jhon e Tim, spaventati, venivano tenuti fermi da altri quattro di loro. Il pilota fu legato a una specie di lettino creato con dei bastoni e delle liane, il quale era legato a sua volta al soffitto roccioso con delle funi di acciaio. Un indigeno tolse la benda dalla bocca del pilota, che iniziò a urlare: "Ehy! Che volete fare? Liberatemi!". Tutti parlavano nella loro lingua, mentre quelli vestiti di bianco continuavano a pregare in coro, sovrapponendo le loro voci alle grida del pilota. Quando fu legato di forza alla lettiera, iniziò a supplicarli disperato: "Lasciatemi! Vi prego! Non vi ho fatto niente! Prometto che non dirò a nessuno di avervi visti!!". Tutto fu invano. Arrivò il capo degli indigeni, con il bambinetto e Margot, che era ancora sotto la loro ipnosi. Il grassone recitò qualcosa, mentre il pilota si dimenava, urlando: "Ti prego! Io non ti conosco! Non ti ho fatto niente! Cosa vuoi fare? Aiuto!". Poi fu il turno del bambino, che pronunciò anche lui qualche frase del rito, sempre con in sottofondo quella noiosa preghiera, e il pilota che continuava a supplicare aiuto. Quando il bambino tacque, alcuni indigeni cominciarono a girare una ruota incastrata nella parete a destra del crepaccio, e la lettiera con sopra il pilota sdraiato iniziò a scendere verso la lava. La preghiera si faceva sempre più forte e più ritmata, tanto che le grida del pilota si sentivano sempre di meno, mano a mano che scendeva. Furono le ultime cose che udirono dalla bocca del loro capitano, Jhon e Tim, che non potettero fare niente per aiutarlo, e furono obbligati ad assistere a quella scena orribile. Il pilota si era sciolto nella lava! Quando tirarono su la lettiera, c'erano solo le funi di acciaio diventate rosse per il calore e qualche legno bruciacchiato rimasto appeso al marchingegno. Tim iniziò a urlare, sempre con la benda sulla bocca, e a piegarsi dal dolore, mentre Jhon era lì immobile con gli occhi sbarrati. Ora anche loro due vennero spinti in direzione del crepaccio. Entrambi erano terrorizzati e cercavano con i piedi di frenare sul terreno roccioso della grotta. Fortunatamente quei pazzi non vollero buttarli nella lava, ma li legarono alla parete rocciosa sulla destra, dove c'era la ruota. Questa volta i due prigionieri erano in piedi, con braccia e gambe legate al muro con delle corde. Il capo tribù si avvicinò con i due bambini a seguito. Pronunciarono ancora, a turno, delle frasi di un rito, che questa volta sembravano diverse però. Tutti gli uomini inginocchiati, che prima erano rivolti verso il crepaccio, all'improvviso si girarono verso i due archeologi, e ricominciarono a pregare. Il ciccione si avvicinò a Jhon, faccia a faccia, e iniziò a urlare qualcosa, fissandolo negli occhi. A un certo punto a Jhon cominciò a succedere qualcosa. Tim se ne accorse. Si sentiva strano e poco dopo iniziò a scuotere prima la testa e in seguito tutto il corpo. Gli usciva della schiuma bianca dalla bocca e si muoveva sempre più velocemente. Tim urlava: "Jhon! ... Jhon che hai? ... Jhon!", ma invano, il suo professore non lo sentiva. Poi cessò di colpo e si bloccò, con la testa a penzoloni, come se fosse svenuto, ma aveva gli occhi aperti. Gli indigeni aspettarono qualche secondo, poi lo slegarono, aiutandolo a reggersi in piedi. Jhon si riprese e Tim urlò: "Jhon! Jhon! Stai bene?". Jhon alzò la testa e si mise in posizione eretta. Poi si voltò lentamente verso Tim e iniziò a sussurrare qualcosa. "Che dici Jhon? Che ti prende?!", gli chiese Tim spaventato. Poi il ragazzo si accorse che gli occhi del professore erano illuminati e molto diversi dal normale. Anche a Margot era successa la stessa cosa tempo prima. Che cosa gli avevano fatto? Adesso anche a lui era ipnotizzato. Cosa sarebbe successo ora a Tim? La risposta per fortuna non arrivò. Tim si accorse di avere i polsi legati larghi. Allora con uno scatto fulmineo si liberò le mani, si inchinò per slegarsi le gambe e schizzò via, verso l'uscita della grotta. Tutti rimasero allibiti, perché non se l'aspettavano. Tim riuscì a evitare gli ultimi indigeni in fondo alla caverna, saltandoci in mezzo a tutta velocità. Poi raggiunse l'uscita, rimanendo quasi impigliato tra i rami di una pianta rampicante, e si ritrovò nella giungla. Qui non ci pensò due volte. Iniziò a correre senza voltarsi indietro. La sua idea era quella di tornare alla spiaggia per cercare aiuto, per poi tornare a salvare Jhon. E così fece...
5 giorni dopo:
Erano tutti pronti. Sarebbero partiti all'alba. Tim grossomodo si ricordava la strada per raggiungere quella caverna. Avrebbe guidato i suoi compagni fino a lì, per salvare il suo professore e poi scappare tutti insieme via dall'isola, a bordo della zattera. Partirono in spedizione Tim, Justin, Matteo e Alex. Lisbette voleva andare con loro, ma Justin la obbligò a restare, perché non voleva che le succedesse qualcosa. "Ti raccomando... stai attento!", lo scongiurò lei. "Che c'è? Preoccupata per me?", scherzò Justin. I due si abbracciarono e poi Justin raggiunse gli altri per partire nella giungla, mentre Alex lo fissava leggermente abbattuto, come se fosse geloso dell'amico. Non sarebbe stata la prima volta in fondo... Anche Elouise implorò il collega di stare attento a non farsi ammazzare. "Tornerò... questa è una promessa", gli disse lui. E poi si baciarono, inaspettatamente sotto agli occhi meravigliati di tutti. Era una scena troppo tenera! Ma non sarebbe stato un addio. Dovevano solo recuperare i compagni e poi ritornare lì.
Zaini presi, fucile carico, l'unico che gli era rimasto, e borracce piene. Ok, era tutto pronto per quella vera e propria missione di salvataggio. Manco nei film! Pensò Justin...
La flora di quell'isola era molto fitta e tenebrosa. Poi c'erano anche grandi spazi vuoti, in cui si estendevano enormi prati, senza alberi. Ma la maggior parte della superficie era composta dalla giungla. Era ciò che ci viveva dentro però che spaventata i sopravvissuti del volo 0023. Infatti nessuno di loro, nemmeno Jhon e Tim, non lì almeno, si aspettava di vedere dei dinosauri vivi. Animali che avrebbero dovuto essere estinti da circa sessantacinque milioni di anni! E invece erano là... beati che passeggiavano per l'isola, strappavano foglie dalle piante, masticandole con gusto, si davano la caccia, si mangiavano tra loro e si riproducevano. Un vero e proprio sistema biologico insomma, operativo a tutti gli effetti. L'uomo sta volta aveva esagerato. Aveva giocato a fare Dio e la cosa gli si rivoltò contro, quando, a quanto pare, alcune di quelle creature sfuggì al suo controllo, diventando così il predatore principale, quello in cima alla piramide alimentare. Chissà che intenzioni avevano? Magari volevano aprire uno zoo a scopo di lucro. Eppure ci doveva essere un senso a tutto questo. Un'isola, guarda caso, sconosciuta sulle carte geografiche, e trovata, casualmente, solo da alcuni scienziati, scortati dall'esercito, per provare a mettere al mondo creature che non dovrebbero esserci. Un qualche cosa che è contro natura. Ma ora il danno era stato fatto. E quei poveri supersiti del disastro aereo si trovavano lì costretti a subirne le conseguenze.
"Sei sicuro che è la direzione giusta?", chiese Rossi a Tim. "Non proprio. Stavo correndo quando sono tornato da voi. Però orientativamente dovrebbe essere di qua", rispose il ragazzo. Justin ancora stava ripensando a quando aveva incontrato suo zio morto nella giungla. Ancora non ci credeva e ogni tanto si chiedeva se non avesse sognato oppure se non stesse addirittura diventando pazzo. Eppure quella conversazione l'aveva vissuta. Lui era lì che cercava di ricondurre il nipote sulla retta via. Ma la retta via Justin sentiva di averla persa già da tempo. Non gli restava che vivere, perché era costretto, lasciandosi ormai scivolare le cose addosso. In fondo tutti in quel gruppo avevano avuto una vita difficile. Ecco un'altra cosa curiosa. Tutti i sopravvissuti dell'incidente aereo avevano una cosa in comune. Avevano tutti sofferto in passato, chi per un motivo, chi per un altro. Ora sembrava quasi che si trovassero tutti lì per guadagnarsi un'ultima occasione. Per avere una riscossa. Nessuno parlava mai di destino, ma in fondo una parte di ognuno di loro lo sentiva che forse erano lì per quello. In ogni caso, sia chi credeva, sia chi non, ora doveva cavarsela come tutti gli altri per sopravvivere. Cosa che in quel luogo non era affatto facile.
Si fece sera, e i quattro si fermarono ad accendere un fuoco. Si sarebbero accampati per la notte, per poi continuare il viaggio l'indomani mattina. Justin fece un sogno. C'era un uomo, un tale vestito di bianco con una specie di camicie e un'espressione vuota. Sembrava disperato. Scavava con uno strano bastone, che aveva già visto da qualche parte, in mezzo a dei rami su una parete rocciosa. Forse cercava qualcosa, ma il sogno terminò quando il tipo si accorse di Justin e scappò via. Justin si svegliò di soprassalto, ritrovandosi seduto e urlando: "Fermo!". Ma era notte, e non era nello stesso punto in cui vide quell'uomo. Gli altri si svegliarono spaventati. Alex gli chiese: "Che c'è? Che succede?". "Niente. Era solo un sogno", rispose freddo Justin. Rossi lo guardò negli occhi e gli disse: "Se hai qualcosa da dirci, qualcosa che può aiutarci, questo è il momento di parlare". Allora Justin raccontò il sogno. Ora forse sapeva dove andare!
EPISODIO 17 - LA PORTA
Forse doveva andare così. Venti persone, sopravvissute a un ammaraggio nel mezzo di un oceano, naufragate poi su un'isola sconosciuta, costrette a sopravvivere per mesi, difendendosi giorno e notte da eventuali attacchi di animali preistorici, che avrebbero dovuto essere estinti, e indigeni ostili, che volevano ucciderle o stregarle per risvegliare una qualche sorta di 'divinità', che avrebbe diffuso il male in tutto il mondo. Verrebbe da pensare che quello fosse l'inferno, e che tutti i passeggeri fossero morti nello schianto, che magari quello era il passaggio per andare nell'aldilà. Non era difficile crederci, visto tutto quello a cui avevano assistito fino ad ora. Eppure era troppo reale. La fame si faceva sentire, il caldo pure. I denti aguzzi dei carnivori facevano male. E la nostalgia di casa era tanta. Ed ecco Justin, Alex, il Dott. Rossi e Tim, che camminavano, nella notte, in piena giungla, alla ricerca di qualcosa che nemmeno loro sapevano. Forse era un atto di fede, forse era un incubo. Ma ora erano lì. E dovevano proseguire.
"Tutto bene?", domandò Justin ad Alex. "Si, e tu?", rispose affannato l'amico. "Un po' stanco. Sicuro di stare bene? Ti vedo un po' strano", insistette l'amico. "Lo sai che cos'ho... quello psicopatico mi ha fregato la roba!", rispose Alex, indicando il dott. Rossi. Da quando Alex era stato privato della sua cocaina, spesso stava male e gli veniva il viso pallido, come se avesse la febbre. Non era facile nascondere la sua rota. "Dovremmo esserci quasi", li interruppe involontariamente Tim sorpassando i due ragazzi, che stavano davanti. "Non sappiamo nemmeno dove stiamo andando!" esclamò Rossi, "Stiamo seguendo il nulla. È notte. Avremmo dovuto restare in spiaggia". Il dottore, cominciava a pentirsi di aver voluto provare a fare l'eroe. Obiettivamente la loro sembrava un'impresa disperata. "Ehy! Guardate la!", disse poi Justin. C'era una luce in mezzo ai cespugli. Sembrava un fuoco. I quattro si avvicinarono e in effetti c'era proprio un piccolo falò. Si sentiva una voce strana in sottofondo, che mormorava qualcosa in continuazione. Man mano che si avvicinarono le parole si fecero più chiare: "È tardi! È tutto perduto! Non ce l'abbiamo fatta!". Un uomo continuava a ripetere queste parole a voce bassa. "Ehy! Chi va la?", gridò Rossi. Gli altri tre ragazzi però lo riconobbero subito. "Tranquillo Matteo. È lo scienziato", disse Justin appoggiando una mano sul braccio del dottore. Tim si avvicinò cautamente a Gulam, che stava seduto con le braccia sulle ginocchia e la testa verso il basso. Lo scienziato continuava a parlare come se non si fosse accorto di loro. Sembrava impazzito. Tim gli chiese: "Ehy, Gulam. Tutto bene?". L'altro non rispose, continuando imperterrito a ripetere quelle parole come un disco incantato. Allora Tim gli ripose la domanda, questa volta dandogli una pacca sulla spalla. A quel punto Gulam alzò la testa di colpo, facendo spaventare tutti, e iniziò a urlare: "Non ce l'abbiamo fatta! È tardi! È tutto perduto!". "Che cosa è perduto? Di che diavolo stai parlando?", disse Justin cercando di tranquillizzarlo. Di colpo lo scienziato sembrò riprendersi da una specie di ipnosi. Rinvenne e barcollò, rischiando di cadere dal tronco sul quale era seduto.
Era piena notte quando, i quattro sopravvissuti del volo 0023 Pechino - Sidney, si sedettero attorno al fuoco a parlare con Gulam. Lo scienziato, che sembrava più fulminato del solito, raccontò loro com'era sopravvissuto da solo nella giungla, da quando abbandonò il suo bunker. Disse poi di essere stato alla Struttura, ma che essa fu invasa dagli indigeni e quindi non era più praticabile. Una notte riuscì a intrufolarsi dentro solo per racimolare un po' di viveri, e trovò dei documenti in uno scaffale. Quando fu giorno li analizzò con calma e poi fece una scoperta terrificante. Disse che la Struttura non era altro che un'enorme macchina da guerra costruita dai soldati, e che essi l'avrebbero messa in funzione più avanti per distruggere l'isola in caso di quarantena. I quattro supersiti non lo capirono, un po' per il modo di parlare dello scienziato, che era piuttosto nevrotico e disconnesso, e sia per il fatto che quella storia cominciava a sembrare veramente assurda. Un'enorme fabbrica di ottocento metri quadrati, che si estendeva perfino sotto terra, nella parete della montagna, che sarebbe probabilmente esplosa in caso di pericolo. Era qualcosa di veramente incredibile, ma Gulam tirò fuori quei fogli e in effetti c'erano dei disegni che ricostruivano in scala quello che avrebbe dovuto essere un enorme mostro di metallo, che si estende sotto tutta la superficie dell'isola, e che aveva diversi punti di sbocco, dove probabilmente c'era dell'esplosivo o qualche rilascio di sostanze nocive. I quattro rimasero stupiti e senza parole...
Ora erano tutti in piedi. "Bene, scienziato, e ora che lo sappiamo di cosa dovremmo preoccuparci? I militari se ne sono andati tutti no? Abbiamo problemi più grossi", disse sarcastico Alex. "Cos'è che state cercando esattamente?", domandò allora Gulam, incuriosito. "C'è una caverna al centro dell'isola. Lì, tengono prigionieri dei nostri amici. Stiamo andando a liberarli. Dopo di che lasceremo l'isola con una zattera", spiegò Tim. "Un piano fantastico. Vi auguro buona fortuna!!", disse lo scienziato, alzandosi di fretta con l'intenzione di andarsene. "Tu conosci meglio di noi quest'isola. Magari puoi aiutarci", intervenne Rossi. "No, temo di no". "Possibile che non hai mai sentito parlare di questo luogo?!", si innervosì Tim. "Ho sentito tante cose di questa isola. E credetemi, non me ne è piaciuta neanche una. Ora se permettete dovrei andarmene", disse Gulam, che prese lo zaino e si allontanò. Tim lo inseguì, lo prese e lo appiccicò contro un albero. Poi gli disse: "Ascoltami bene! Non mi importa chi diavolo siete tu e la tua gente. Io voglio solo ritrovare Jhon, portarlo via e andarmene da qui. Chiaro?". Anche Rossi parlò: "Senti amico. In cambio del tuo aiuto, quando torneremo alla spiaggia con i nostri amici, potrai venire con noi se ti va. Ce ne andremo tutti da quest'isola senza voltarci indietro". Un attimo di silenzio. Poi Tim mollò la presa e il vecchio fece sì con la testa e poi disse: "D'accordo. Vi condurrò laggiù. Ma non aspettatevi di trovare chissà che! Nessuno è mai riuscito ad accedere alla grotta senza che qualcuno di loro ce lo portasse come prigioniero. Se quei tizi hanno catturato i vostri amici, sarà difficile che se li facciano scappare facilmente. Probabilmente è anche già troppo tardi". Poi si girò e fece strada. Gli altri prima si guardarono tra loro impauriti e poi seguirono il vecchietto.
Mentre camminavano nella giungla, di notte, Alex si avvicinò a Justin e gli chiese: "Senti, perché non ce ne andiamo? A me sembra assurda tutta questa storia. Andiamocene e basta. Dispiace anche a me per la bambina e per l'amico di Tim, non sono fatto di ghiaccio, ma credo che stiamo facendo solo il loro gioco. Io non voglio finire ammazzato, bruciato su un palo o sciolto nella lava. Poi sei sicuro che ci possiamo fidare di quel vecchio pazzo? A me non sembra sano di testa per niente!". Justin lo guardò e poi continuando a camminare gli disse: "Senti. Io la scorsa notte ho visto mio zio defunto! Non ne ho parlato con nessuno perché non volevo spaventarli. Era lì davanti a me e mi ha detto che dovevo raggiungere un certo scopo". "Che cosa?", esclamò Alex. "Non sto diventando pazzo. E di certo non è l'ambizione della mia vita quella di salvare il mondo! Ma se tutto quello che ci fosse successo fino a adesso avesse uno scopo? Pensaci, io non credo che siamo finiti qui per caso. E lo sai anche tu", rispose Justin. Alex scherzando gli disse: "Si. Confermo. Stai diventando pazzo!".
A un certo punto Gulam si fermò di colpo. C'era qualcuno davanti a loro. "Chi c'è?", urlò Rossi. Era Daniel. E con lei c'erano Charlotte, Walt, Zac e Emma. "Bene. A quanto pare sembra che il destino ci abbia fatti ritrovare", disse Daniel serioso. "Che è successo al resto del gruppo?", chiese Justin. "Sono andati", rispose Walt. "Andati dove?", chiese ancora Justin. "Non ha più importanza... il loro compito li ha condotti altrove", rispose misteriosamente il ragazzo di colore. "Che cosa ci fate qui?", domandò poi Tim, rivolgendosi però principalmente a Daniel. "La stessa cosa che fate voi immagino. Cerchiamo la porta", rispose subito Daniel. "Beh... andate dalla parte sbagliata", commentò Gulam, "La porta è laggiù, verso est...". Tutti quanti, a questo punto, si unirono e formarono un unico gruppo, tutti diretti nello stesso posto. C'era già la prima luce mattutina quando Gulam disse finalmente: "Eccola. Siamo arrivati". C'era silenzio tutto intorno a loro. Faceva il solito freschino del mattino presto e si sentivano solo i cinguettii degli uccellini. Davanti a loro c'era una parete rocciosa, tutta ricoperta di liane e piante rampicanti. Gulam andò vicino a un albero, infilò il braccio spostando un mini sportello di corteccia finta, ed estrasse un bastone. Era lo stesso bastone del sogno di Justin, lo stesso bastone che aveva visto Daniel quando arrivò laggiù la prima volta, e lo stesso bastone che tutti riconobbero, in quanto erano sicuri di averlo già visto da qualche parte, ma non ricordavano dove. Gulam iniziò a spostare le liane fino a quando trovò probabilmente un tasto a forma di pietra, che una volta premuto, mise in moto un meccanismo, facendo spostare una parte di parete rocciosa verso destra, creando così un varco. "Ecco, questa è la vostra Porta", disse poi lo scienziato. All'interno era tutto completamente buio. Non si vedeva niente. Tim si rivolse a Gulam: "Avevi detto che non sapevi niente di questo posto. Perché volevi mentirci?". Lo scienziato rispose: "Perché ne sono terrorizzato. Mi portarono qui tanto tempo fa. E riuscii a scappare per miracolo. Bene! Io vi ho condotti qua. Ora vi aiuterò a liberare i vostri amici. In cambio poi mi porterete via dall'isola insieme a voi. Intesi?". Rossi rispose per primo: "Certo. Puoi contarci. Abbiamo un accordo". Gulam fece un cenno approvatorio con la testa e poi accese qualcosa con un fiammifero, appena all'interno di quella caverna. La scintilla si espanse lungo tutta la parete della grotta, che conduceva verso il basso, all'interno della montagna, illuminando così il percorso. "Su forza... entrate! Io devo chiudere la porta", disse Gulam. Walt si avvicinò ai due fratelli, Zac e Emma, e disse loro: "Ragazzi. Vi raccomando. State attenti". "Dove vai?", gli chiese Zac. "Come saprete, lui mi aspetta", rispose serio il ragazzo. Allora Zac gli strinse la mano, mentre Emma lo abbracciò. Poi Walt salutò gli altri: "Possiate trovare voi la vostra strada. Auguro a tutti buona fortuna". Si girò e se ne andò, scomparendo nella giungla. Nessuno gli chiese spiegazioni, probabilmente doveva raggiungere il resto della sua gente. "Forza. Che aspettiamo?", chiese Tim, rompendo il silenzio. Così i ragazzi entrarono e nemmeno il tempo di scendere i primi scalini di pietra, che lo scienziato balzò fuori dalla caverna e richiuse la porta, schiacciando lo stesso tasto di prima, imprigionandoli così all'interno. "Ehy, che diavolo stai facendo? Tiraci fuori!", urlarono gli altri. Nulla da fare, lo scienziato non li sentiva o faceva finta di non sentirli. In ogni caso li aveva chiusi dentro. I ragazzi passarono i successivi venti minuti a cercare in tutti i modi di uscire. Provarono a cercare un altro tasto simile a quello che c'era fuori per riaprire la parete, ma invano. "Forse... dovremmo proseguire", disse timida Charlotte. Gli altri si girarono e si scambiarono velocemente gli sguardi. Erano rinchiusi in una caverna. Quella porta non si apriva. Gulam li aveva condotti lì facendoli cadere in trappola, non si sa per quale motivo. Forse sì, forse avrebbero dovuto proseguire e sperare di trovare un'altra uscita. E così Justin, Alex, Tim, Daniel, il dott. Rossi, Zac, Emma e la signora Charlotte si incamminarono in quella discesa senza fondo, terrificante solo da guardare. I focolari accesi lungo la parete erano visibili solo fino a un certo punto. Probabilmente perché poi la caverna curvava. Camminarono e camminarono. Lungo le pareti ogni tanto c'erano strani geroglifici, ma che nessuno riconobbe. A un certo punto, proprio come temevano, le luci finirono, ma potettero intravederne altre più avanti lungo il corridoio. Quando raggiunsero l'inizio del pezzo buio, Daniel e Justin, che erano a capo del gruppo, pucciarono i piedi nell'acqua e si fermarono, insieme al resto dei compagni dietro di loro. "C'è dell'acqua", disse Daniel. "Ehy, guardate bene. È un piccolo lago sotterraneo", disse Alex. "Chissà quanto è profondo?", si chiese Justin. "Che cosa c'è là?", disse Tim. "È una barca... fantastico! Possiamo usarla per attraversare il lago", esclamò Rossi. "Non ci stiamo tutti su una... dovremo fare due viaggi", osservò però Daniel. E così i primi quattro che salirono sulla barca a remi furono Daniel, Tim, Justin e Charlotte, mentre gli altri aspetteranno che uno di loro ritorni per prenderli. Justin e Charlotte salirono sulla barca mentre Tim e Daniel da dietro la spinsero per poi saltarci dentro anche loro. L'acqua iniziò subito ad essere profonda. Tutti e quattro avevano un remo, che era attaccato al bordo dell'imbarcazione, vicino alle panche per sedersi. Mentre la barchetta si allontanava nell'oscurità, Alex e Rossi stavano illuminando con delle torce le pareti esterne della grotta, per capire per quanto si espandeva quel lago. Mentre Zac e Emma rovistavano negli zaini per prendere le borracce, Alex sussurrò a Matteo: "Ehy, amico... Dammene un po'!" - "Ti riferisci alla droga?" - "Cos'altro se no?" - "Ragazzo. Ne sei veramente sicuro? Tu sei forte, puoi resistere!" - "No! Non ce la faccio più! Dannazione, guardami!" - "Lo so! All'inizio sarà dura ma... Ehy, che ti prende?" - Alex all'improvviso disse: "Dove sono finiti gli altri due?". Zac e Emma erano scomparsi! "È assurdo. Erano proprio qui. Dietro di noi!", esclamò Matteo. Inutile, dietro di loro non c'era più nessuno. Non si sa come, ma i due ragazzi si erano dileguati sotto al loro naso. Doveva essere accaduto così in fretta, che Rossi e Alex non si accorsero minimamente di niente. Che fossero anche loro alleati con gli indigeni? Oppure erano stati rapiti? Rossi e Alex allora iniziarono ad urlare ai propri amici che erano in mezzo al lago: "Ehy! Aiutateci! Tornate indietro!". Però non ricevettero risposta. Probabilmente erano già lontani e non avevano sentito. Nel mezzo del lago, intanto, Daniel e company si accorsero di essere completamente isolati, sia dai rumori che dalle luci. "Ehy! Dove diavolo sono finite le luci?", disse Justin. "Erano li... davanti a noi", esclamò Charlotte. "Maledizione. Da che parte dobbiamo andare adesso?", chiese preoccupato Daniel. Si sentivano solo i rumori dei remi che sbattevano sull'acqua, mentre la barca continuava ad andare alla deriva. "Ragazzi. Avete sentito anche voi?", chiese a un certo punto Tim. C'era qualcosa nel lago. Qualcosa di grosso che si muoveva. Poi all'improvviso ci fu un ruggito, e subito dopo l'imbarcazione fu sbattuta violentemente in acqua, spezzandosi a metà. I quattro si trovarono a mollo, senza nemmeno una minima luce, e inoltre la barca era affondata! Qualcosa di viscido sfiorò la gamba di Charlotte, che strillò inorridita. Probabilmente era un pesce o un dinosauro marino. "Via!", urlò Tim, e tutti iniziarono a nuotare in direzioni diverse. Fortunatamente riuscirono a rivedere il sentiero illuminato davanti a loro, ormai poco distante, e tutti quanti lo raggiunsero sani e salvi. "Che diavolo era?", urlò Daniel. "Non lo so. Ma era grosso...", rispose Tim terrorizzato, mentre fissava il centro del lago. Gli zaini e il fucile erano purtroppo sprofondati insieme al catorcio ammuffito che li trasportava, e ora dovevano avvertire in qualche modo gli altri che non sarebbero più tornati indietro e che avrebbero proseguito da soli. Ma le loro grida non ricevettero risposta, inoltre non riuscirono più a trovare il loro punto di partenza. Ancora un'altra volta le luci erano scomparse. Quel posto faceva veramente mettere i brividi. Niente, arrivati a questo punto, non restava che proseguire avanti, sperando di trovare Jhon e Margot e di ritornare in qualche modo indietro, da Rossi e Alex, per poi scappare da li. Davanti a loro c'era la continuazione del sentiero, che questa volta era più corto. Infatti, dopo una ventina di metri, ci fu una curva, e arrivarono in una stanza più grande illuminata dal fuoco. Era una caverna gigante, e c'erano fuochi accesi ovunque sulle pareti. In fondo si vedeva il bagliore rosso della lava. Probabilmente erano al centro dell'isola, in fondo al vulcano. Non c'era nessuno lì, ma quella dannata sensazione di non essere mai soli, li accompagnava sempre, già da quando erano entrati in quella grotta. Tanto per cambiare erano stati portati lì con l'inganno e non si sarebbero affatto stupiti se da un momento all'altro qualcuno li avrebbe rapiti per bruciarli vivi o farli prigionieri. I quattro si portarono al centro dell'enorme salone, che aveva una forma geometrica rettangolare, curiosamente regolare. All'improvviso sentirono delle voci, e dei passi veloci provenire dal corridoio da dove erano arrivati loro. Tutti e quattro istintivamente si appiattirono contro la parete della caverna, dove la luce dei fuochi non arrivava. Però erano troppo facilmente visibili. Bastava solo che gli indigeni arrivassero al centro della stanza, e li avrebbero sicuramente visti. Erano lì col batticuore, e sudavano freddo. I passi si fecero più vicini, fino a quando si potettero udire le parole delle persone che stavano arrivando. Questi non parlavano nella lingua sconosciuta degli indigeni, pertanto gli intrusi potettero ascoltare. Ci saranno state quattro o cinque persone ed erano tutti vestiti in giacca e cravatta. Uno di loro disse: "Quanto manca?". Qualcun altro rispose: "La creatura si sveglierà tra circa dieci minuti" - "Bene. Muoviamoci. Loro sono già qui" - "Sei sicuro che sia una buona idea anticipare tutto a sta mattina? Forse dovremmo..." - "No! Lui vuole che sia fatto così! Non possiamo cambiare le regole".
"Ma di che diavolo stanno parlando?", chiese Justin. "Ssh! Vuoi farti scoprire?", fece Daniel. "Ehy. Dove stai andando?", bisbigliò poi Tim. Charlotte era uscita allo scoperto! Ma dove stava andando? Era impazzita? Ecco che Charlotte si avvicinò al gruppo di uomini, che si accorsero di lei e iniziarono a urlare correndole incontro. "Che cosa ci fai tu qua? Dov'è mia figlia? Che cosa le hai fatto?", urlò la donna. Gli altri tre, che erano rimasti nascosti, guardarono la scena meravigliati. Due di loro la afferrarono, mentre l'altro, quello a cui si stava rivolgendo Charlotte, le si avvicinò e le disse: "Ciao Charlotte. È un piacere rivederti". I due si conoscevano! Ma com'era possibile?
Fortunatamente, quei quattro uomini vestiti da pinguini, pareva che non avessero visto gli altri tre intrusi. Ora stavano portando Charlotte da qualche parte. Justin non ci pensò due volte. Schizzò fuori allo scoperto e corse verso i nemici. "Che diavolo fai? Sei impazzito?", gli urlò Daniel. Anche gli altri due però lo seguirono e quando i nemici si accorsero di loro tirarono fuori delle pistole e gli spararono addosso degli aggeggi elettrici, che si appiccicarono alla pelle, nei punti dove li avevano colpiti, e diedero loro una scossa, facendogli perdere i sensi dopo pochi secondi. Il buio totale.
Nel frattempo, in una casetta lontana, vicino a un campo di bambù, un uomo massiccio e barbuto stava versando del the in un boccale. Walt arrivò di corsa e urlò: "Hurly! Hearly!". "Ehy coso! Che ci fai qui?", chiese Hugo Reyes al ragazzo. "Li hanno presi! Li hanno presi tutti!", disse Walt. "Capisco... Dov'è Ben?", chiese Hugo tranquillo.
Justin, Daniel e Tim, come ai vecchi tempi, si risvegliarono legati con dei catenacci alla parete. Davanti a loro c'era un crepaccio dal quale usciva fumo e calore. Dal bagliore rosso che proveniva dal basso, capirono che in fondo c'era la lava. Dall'altro lato degli uomini con un camice bianco stavano recitando una preghiera, inchinandosi in ginocchio e gesticolando. Ai bordi del crepaccio, sempre dall'altro lato, c'erano l'uomo che disse di essere il capo di Jhon Evergrand, Shon, che era quello che conosceva Charlotte e subito dopo arrivarono Margot, l'altro bambino, e Jhon, che aveva in mano il solito strano bastone. Erano tutti stregati, e avevano le pupille dilatate e l'espressione pallida. Sembravano dei cadaveri che camminavano. Tutti quanti iniziarono a pregare insieme agli uomini in bianco, nella lingua sconosciuta. Le grida disperate di Justin, Daniel e Tim non venivano minimamente considerate dai loro ex compagni, che ora sembravano passati al lato oscuro. Li avevano presi tutti e ora era il loro turno! Subito dopo arrivarono Zac e Emma, anch'essi ipnotizzati, che trasportavano con la forza Rossi e Alex. I due nuovi prigionieri erano imbavagliati e coi polsi legati dietro la schiena. La preghiera continuava sempre più forte e a un certo punto il capo dei nemici urlò qualcosa a piena voce, e Rossi fu avvicinato al dirupo. "No! No! Che volete fare?!", urlarono i tre ragazzi dall'altro lato. Fu tutto inutile. Lo sguardo spaventato di Rossi fu l'ultima cosa che vedettero. Prima di essere legato sulla barella di legno, la stessa con la quale sciolsero il pilota nella lava, l'uomo che conosceva Charlotte si avvicinò a Rossi e gli disse con un ghigno sul viso: "Piccolo il mondo è?". Rossi terrorizzato lo riconobbe. Era Shon! Lo stesso uomo che gli aveva rubato la moglie e rovinato la vita. Lo stesso uomo che operò in ospedale per salvargli la pelle qualche anno prima. Ora era li, davanti a lui. Com'era possibile? Rossi disse: "Tu? Cosa ci fai qua?!". "Guarda il lato positivo caro dottore. Tra poco raggiungerai la tua amata figliola", rispose Shon. "Che cos...? L'hai uccisa tu?!", la voce di Rossi fu interrotta quando la barella fu sganciata e lasciata cadere nel vuoto, fino a quando raggiunse la lava, sciogliendosi insieme al corpo del dottore. Rossi era morto! Ed ora toccava ad Alex...
EPISODIO 18 - LA GRANDE FUGA
Matteo Rossi era stato ucciso. Ora sicuramente sarebbe toccato ad Alex essere gettato nella lava. Nessuno si seppe spiegare perché lo facessero, ma probabilmente era un sacrificio che secondo la tradizione avrebbe fatto sì che si fosse risvegliato il male. Daniel continuava a fissare il bambino, lo stesso che lo aveva riconosciuto tempo fa nel villaggio degli indigeni. Cercava di urlargli per farsi riconoscere, mentre Justin e Tim guardavano ancora il crepaccio con le lacrime agli occhi. Fu fatto lo stesso rito con Alex. Era solo questione di secondi prima che fosse gettato anche lui nella lava rovente. Questa volta però successe qualcosa. Jhon all'improvviso tirò un pugno a Shon, sollevò il bastone e colpì il suo pseudo titolare in fronte, facendolo cadere. Poi fece lo stesso con due indigeni, che sbucarono fuori dal nulla per andargli contro, facendoli cadere nella lava. Si sapeva difendere bene il vecchietto! Conosceva alcune mosse del karatè. Con un salto balzò dall'altro lato del crepaccio, dove c'erano Justin e gli altri, rischiando di cadere all'indietro, in bilico sul bordo del dirupo. Slegò velocemente i tre ragazzi. "Sempre all'ultimo minuto, eh Jhon?", scherzò Tim. Dall'altro lato Shon nel frattempo si stava rialzando, ma Zac lo colpì col bastone di Jhon, che era rimasto a terra, stordendolo. Anche il ragazzo era riuscito a sfuggire all'ipnosi! Tutti gli altri, però, quelli ipnotizzati, compresa la sorella, lo accerchiarono subito minacciosi. Gli uomini col camice bianco continuavano imperterriti a pregare. Forse, se smettevano, interrompevano il rito e tutto ciò che stavano facendo non avrebbe funzionato. Nonostante tutto, una tremenda scossa fece cadere tutti a terra. Quei pazzi ce l'avevano fatta. Avevano in qualche modo risvegliato il vulcano. Incredibile! "Che succede?", chiese Justin. "Non lo so. Ma credo proprio che sia ora di andarcene", rispose Jhon, che stava liberando Alex dalla barella di legno. Gli uomini in bianco, in seguito alla scossa di terremoto iniziarono a correre fuori dalla grotta. Lo stesso fecero Charlotte, Margot, il bambino che conosceva Daniel, e Emma. Daniel, Tim e Zac decisero istintivamente di correre dietro ai loro amici. Ma solo dopo Justin si accorse che Daniel stava inseguendo solo il bambino. Riuscì ad afferrarlo. Lui tentò di liberarsi, ma le braccia forti di Daniel lo tenevano fermo. "Christian! Sono io! Sono papà!", cominciò a urlargli. Era sicuro che quel bambino fosse suo figlio. Già qualche sospetto lo aveva avuto in passato, ma ora ne sembrava convinto. "Che stai facendo?", gli urlò Justin, "Dobbiamo scappare!". Altre scosse di terremoto continuavano a susseguirsi, facendo cadere le pietre dal soffitto. "È mio figlio! Devo farlo tornare! Voi andate avanti!", urlò l'amico. I sopravvissuti del volo 0023 seguirono la massa degli uomini col camice bianco, che li condussero verso un'altra uscita, che dava sulla giungla. Fecero appena in tempo ad uscire Jhon e Tim, i quali si lanciarono letteralmente fuori, prima che una frana tappò ciò che restava della caverna, dietro di loro. Gli uomini bianchi si erano già dispersi nella giungla. Mentre Justin, Charlotte, Tim, Jhon, Zac, Emma, Margot e Alex erano ancora tutti lì. Charlotte cercava di far rinvenire la figlia, che era svenuta. Anche gli altri che erano stati ipnotizzati svennero, tutti nello stesso momento. Probabilmente quella specie di magia era finita. Erano tutti fuori. Tutti, tranne Daniel col figlioletto. "No! No! Daniel!", urlò disperato Justin, cadendo sulle ginocchia. "Che motivo c'è di urlare tanto?", chiese sarcastico Daniel, che comparì alle spalle di Justin, completamente ricoperto di polvere, col bambino svenuto in braccio. "Daniel!", gridò felice Justin, che gli corse incontro abbracciandolo. Erano tutti lì. Le nubi si fecero grigie e iniziarono i primi tuoni di un temporale. Margot fu la prima a svegliarsi, tra le lacrime disperate della madre. Appena aprì gli occhietti sorrise e disse con la voce stanca: "Mamma...". Charlotte scoppiò a piangere e l'abbracciò, felicissima per aver ritrovato la sua bambina. Anche Christian si svegliò, ma non ricordava niente. Chissà da quanti anni si trovava sull'isola. Probabilmente era così piccolo che non aveva niente da ricordare. Era come se si fosse svegliato adesso, all'età di otto anni, dopo un lungo coma. Non parlava neanche, non era nemmeno spaventato. Era uno zombi. Un bambino innocente appena risvegliatosi da un brutto incubo. Un'altra scossa fece cadere tutti. "Dobbiamo andarcene!", urlò Jhon. "Forza tesoro! Sei pronta a correre?", disse Charlotte alla figlia, stringendole la mano. Iniziò a piovere a dirotto, di colpo, come sempre su quell'isola. "Raggiungiamo la spiaggia. Quelli hanno una barca. Se la raggiungeremo prima di loro potremo usarla per lasciare l'isola", gridò Jhon. Le scosse si facevano sempre più frequenti. Tim avrebbe tanto voluto chiedere al suo professore che cosa diavolo gli fosse successo, perché si era risvegliato da quell'incantesimo e come facesse a sapere dell'esistenza della barca. Ma non c'era tempo. E tutti quanti iniziarono a correre in direzione della giungla. Sorpassarono alberi, cespugli, colline, fiumi, prati e vallate. Tutti seguivano Jhon, che, non si sa come, sapeva la strada per la fuga. "Un momento!", gridò Justin, "Dobbiamo andare a prendere gli altri alla spiaggia". "Il campo si trova a tre chilometri in quella direzione. Dividiamoci! C'è un faro con un molo più o meno a metà. Ci troviamo lì", rispose allora l'archeologo. "Che fai?", chiese Justin a Zac. "Vengo con te. Voglio aiutarti a salvare i tuoi compagni", rispose il ragazzo. "Non c'è bisogno. Vai alla barca. Porta in salvo tua sorella!", insistette Justin. Una scossa potente fece di nuovo cadere tutti quanti, che ora erano fermi in mezzo a un prato di una vallata. "Non sappiamo nemmeno se c'è questa barca! E in ogni caso ci saranno quelli a sorvegliarla. È più rischioso andare là che venire con te!", disse Zac. Così Jhon, Tim, Charlotte con Margot e Daniel col piccolo Christian, continuarono a proseguire in direzione della barca, mentre Justin con Alex, Zac e Emma si diressero alla spiaggia.
Jhon era sdraiato in un letto, rinchiuso in una cella, con le sbarre di ferro incastrate nelle rocce, dentro a una grotta. C'era una luce elettrica, piuttosto fiacca, sopra di lui, che illuminava la cella e parte del corridoio fuori. È quando aprì gli occhi che si rese conto di non essere più sotto l'effetto dell'ipnosi. Probabilmente con lui non aveva funzionato. Ma non si spiegava perché. Arrivarono Shon, il suo titolare e due indigeni al loro seguito. Parlavano tra di loro nella lingua speciale che veniva usata sull'isola. Poi il capo disse: "Ehylà. Signor Evergrand. Già sveglio?". "Che cosa ci faccio qui? Dove mi trovo?", chiese Jhon, rintontito, alzandosi lentamente dalla branda. "Siamo nella grotta. Qui è dove avrà inizio il suo lavoro, quello per cui è stato assunto", spiegò il capo. "Io non sono stato assunto da nessuno! Che cosa mi avete fatto? Perché ci avete tenuti prigionieri? Voi avete ucciso il pilota del mio aereo!", si infuriò l'archeologo. "Si calmi Jhon", provò a interromperlo l'uomo. Ma Jhon subito continuò: "Calmarmi? E piantala di darmi del lei! Tu non sei il mio capo. Fatemi uscire! Fatemi uscire!". "Non credo sia una buona idea, Jhon. Vedi, tra pochi minuti sarai uno di noi. Che tu lo voglia o no. Non si può fuggire dal destino", disse il capo. Poi si rivolse a Shon: "Hai contattato Geremy?". Shon gli rispose nella sua lingua, e quindi Jhon non capì di chi si stava parlando. Poi urlò di nuovo: "Ehy! Ora basta! Liberatemi". I due uomini si interruppero e il capo infine disse: "Ci vediamo a lavoro Jhon". Sorrise e se ne andò con tutta la sua troupe. Per Jhon fu inutile urlargli dietro. Nessuno lo ascoltava più. Iniziò a sentirsi male. Gli vibrava il petto e sentiva come una fitta allo stomaco che lo costrinse a piegarsi su stesso, stringendo i denti per il dolore. Non riuscì nemmeno a fare un verso. Però una ragazza, che comparì dal buio alla destra della sua gabbia, gli fece: "Pss... Ehy Jhon! Prendi questo". E gli lanciò una pillola. "Ingoiala e starai meglio, vedrai!", continuò la ragazza. Quella capsula era tonda piccola e bianca, e si appiccicava sulla mano sudata di Jhon. "Che diavolo è? Chi sei tu? Cosa mi sta succedendo?", si sforzò di dire Jhon, che cominciava a vedere annebbiato. Ma il dolore era cosi forte, che vinse la sua diffidenza e ingoiò quella pillola. "Mi chiamo Emily" bisbigliò poi la ragazza, "Mi saluti mio padre". E sparì. Nemmeno qualche secondo e Jhon si addormentò. Il suo tramortimento fu lungo a sufficienza per fargli fare un sogno. Stava camminando su una collina dalla quale si vedeva il mare. Da quel punto si poteva avvistare un molo, con agganciata una barca. Era una specie di Yacht, ma largo e senza cabina sul ponte. C'era solo la piattaforma rettangolare, col timone, due piccole vele e il motore sul retro. Senza pensarci due volte, corse in quella direzione, per raggiungere l'imbarcazione e andare a recuperare i suoi amici. Correndo però si ritrovò di colpo nuovamente all'interno della grotta, misteriosamente. Davanti a lui c'era una gabbia alta almeno quindici metri. Era tutto buio all'interno. In quel mentre, passò qualcuno. Erano Shon, il tizio con la giacca e cravatta e lo scienziato Gulam. Stavano parlando della Recluta. Il capo spiegò a Gulam che era impossibile avvicinarsi per fare degli esperimenti, perché il bestione era controllabile solo se tenuto all'interno di quella gabbia. Nessuno ci entrava mai, e non veniva mai aperta per nessun motivo. Quando i tre finirono di parlare, osservando la gabbia, si girarono per andarsene. In quel momento iniziò il terremoto. I tre uomini al centro della caverna diedero l'allarme, ma qualcosa andò storto. Una scossa fece spezzare le sbarre della gabbia, e un enorme dinosauro, simili a un Tirex ma più grosso, uscì, ruggendo fortissimo. Poi ci fu qualche attimo del sogno molto confuso e l'ultima cosa che vide Jhon, fu lo scienziato che gli puntava il dito, dicendo ai suoi colleghi: "È colpa loro. Hanno interrotto il rito e soltanto così la Recluta poteva essere liberata! Siamo spacciati! Moriremo tutti!". Poi l'enorme testa del bestione inghiottì Jhon dall'alto, senza dargli il tempo nemmeno di scansarsi. Quando Jhon si svegliò, stava camminando con Charlotte, la figlia, un altro bambino e i due capi della tribù. Era in un salone illuminato dal fuoco e dalla lava, sempre dentro a una grotta. Era cosciente, ma ancora non riusciva a muoversi. Il suo corpo camminava e si muoveva senza che lui lo controllasse! Non riusciva nemmeno a girare la testa o lo sguardo. Assistette alla uccisione di Rossi, senza poter fare niente, mentre quando invece legarono Alex alla lettiera di legno, si accorse che ora finalmente era libero! Sicuramente era l'effetto di quella pillola! Non ci pensò due volte e colpì col bastone che aveva in mano i suoi nemici, aiutando così a liberare i suoi compagni, e a scappare dalla caverna prima che crollasse.
Le scosse sembravano essere finite, così come anche il temporale, però la montagna centrale dell'isola cominciava a sputare fumo e a far franare macerie. Il vulcano si stava risvegliando. Presto avrebbe eruttato e loro avrebbero fatto bene a lasciare l'isola al più presto se non volevano essere raggiunti dai fiumi di lava. "Come avete fatto?", chiese Justin ad Emma, mentre camminavano a passo svelto nella giungla. Era quasi sera e siccome al loro vecchio accampamento mancava almeno mezza giornata di viaggio, tra poco avrebbero dovuto accamparsi da qualche parte per la notte. Tanto il terremoto era misteriosamente terminato, quindi potevano concedersi almeno un'oretta di pausa, altrimenti il fisico non avrebbe retto una scampagnata simile. Lei rispose subito: "Ha smesso non appena l'isola ha iniziato a tremare. È successo così per tutti". I ragazzi si accamparono e accesero un fuoco. Erano esausti. Nessuno di loro aveva le forze di parlare. Erano così stanchi che smisero persino di cercare risposte a tutta l'assurdità che li circondava. Che risposte potevano esserci in fondo? Sembrava un incubo senza fine, o peggio ancora, l'inferno terrestre! "Dovremmo andare! Se Jhon arriva con la barca al molo non ci troverà", disse Justin poco dopo. "Non esiste nessuna barca", qualcuno parlò. Tutti e quattro si girarono di scatto. Un uomo grasso coi capelli e la barba ricci, arrivò lì, dietro di loro. "Hugo!", urlò felice Emma. "Che ci fai qui?", chiese sorridendo Zac. "Conoscete quel grassone?", chiese imperterrito Alex. "Ehy porta un po' di rispetto! Quel grassone è il protettore dell'isola", si inalberò Zac. "Calmati coso. Non mi sono offeso. Sono abituato. Su forza, ora sedetevi. Dobbiamo parlare", rispose tranquillamente Hugo. "Con tutto il rispetto signor Reyes, ma l'isola sta crollando. Dobbiamo andarcene via tutti. Subito", provò a spiegare Justin. "Tranquillo ragazzo. Abbiamo ancora qualche ora. Ora ditemi... Perché volete andarvene?", chiese Hugo. "Beh. È ovvio, per salvarci la vita!", rispose Alex. "No, io intendo dire... perché via dall'isola? Il vulcano si può fermare. L'isola si può salvare. E la luce bianca pure. Ma se rinunciamo... se ce ne andiamo, sarà la fine! Faremo esattamente il loro gioco", continuo Hurly. "Ma se voi siete i protettori dell'isola, perché non ci pensate voi?", chiese Justin. "Perché da soli non possiamo. Abbiamo bisogno del vostro aiuto. Potete darcelo?", disse Hugo. "Non farmi ridere. Sei sempre stato solo su quest'isola per chissà quanti anni, e ora avresti bisogno di noi per aiutarti a salvarla!? Scusa ma io non ti credo. E non cadrò più nelle vostre trappole. Voi siete pazzi! E ora noi ce ne andiamo... forza Justin! In piedi, si parte", si alterò Alex. "Aspetta amico. Forse non hanno tutti i torti. In fondo loro ci hanno aiutato. Possiamo fidarci di lui", disse Justin. "Ti vuoi fidare di lui?! Questa gente è pazza! Dobbiamo andarcene finché siamo in tempo!", rispose Alex, che era già in piedi con lo zaino in spalle. "E voi che fate?", si rivolse poi ai due fratelli. "Senti amico. Le scosse sono finite. Io conosco Hugo da tanti anni e ti posso assicurare che è una brava persona", disse Zac. "Già. C'è un piccolo problema però... IO NON TI CONOSCO! E NON CONOSCO NEMMENO LUI! E sai che c'è? NON MI FIDO DI VOI!", rispose Alex sempre più arrabbiato. "Justin! Forza! Andiamo!", si rivolse poi all'amico. Justin era un po' titubante. Una parte di lui sentiva che forse il suo destino l'aveva condotto lì, sull'isola, e che ora aveva un compito importante da portare a termine. "Alex, ascolta...", iniziò a parlare Justin, ma in quel momento una scossa lo interrupe e fece tremare l'intera isola. "Maledizione sta ricominciando!", disse Zac. Poi Justin continuò: "Alex! Forse non dobbiamo andarcene. Pensaci... tutto quello che ci è successo... e se ci fosse una ragione per cui siamo qui?". Le scosse si facevano sempre più forti e più frequenti. "Maledizione ma sei impazzito? Stai diventando matto come loro? La ragione per cui siamo qui è che il nostro cazzo di aereo è precipitato due mesi e mezzo fa! Ecco perché siamo qui... Io non lascerò che questi psicopatici ipnotizzino pure te! Andiamo via, muoviamoci!", si infuriò Alex. Hugo intervenne e provò ancora a convincere Justin, dicendogli: "Justin. Ti prego di sentir ragione. Tu lo sai dentro di te che è la cosa giusta da fare. Aiutaci a salvare l'isola. Se non ti importa dell'isola pensa a tutte le persone che ami. Verranno sterminate tutte. Basta solo un piccolo atto di fede. Ne varrà la pena, ti prego...". Justin era spiazzato. Non sapeva cosa fare... Un albero all'improvviso si spezzò e cadde sopra di lui. Alex si lanciò e gli salvò la vita per un pelo, rotolando con lui a pochi centimetri dal tronco. "Ora basta!", disse poi Alex. Prese l'amico di forza e lo trascinò via. Justin guardò per l'ultima volta Hugo che era rimasto lì fermo a guardarlo, insieme ai due ragazzi. "Mi dispiace...", disse mentre Alex se lo trascinava lontano. Quando i due ragazzi del volo 0023 erano già spariti, Hugo chiese a Zac e Emma che cosa volessero fare. Rispose Zac, dicendo che se c'era la possibilità finalmente di andarsene, voleva sfruttarla, per tornare a casa con la sorella. Hugo fu comprensivo e li lasciò andare senza provare neanche a convincerli a fare il contrario. D'altronde aveva promesso fin da quando aveva preso il comando che un giorno li avrebbe aiutati ad andare via. Erano passati molti anni, ma quella promessa per lui era ancora valida, e in fondo sarebbe stato felice se i due ragazzi sarebbero riusciti nell'intento. Quindi Zac e Emma si misero a correre anche loro in direzione della spiaggia.
Nel frattempo Jhon e il suo gruppo erano arrivati alla riviera dove lui pensava di aver visto la barca, nel suo sogno. Ma dell'imbarcazione, non c'era traccia! "Maledizione!", disse, "Sono arrivati prima loro". "Ora che facciamo?", chiese disperata Charlotte. Prima che Jhon potesse rispondere, un ruggito potentissimo giunse dalla giungla, facendo un'eco lunghissimo attraverso gli alberi. Tutti rimasero agghiacciati. Per la seconda volta le scosse erano terminate, ma gran parte dell'isola era andata distrutta. Inoltre il vulcano stava continuando a borbottare sempre più forte. La spiaggia in quel punto era stretta. I primi alberi della giungla, erano a soli cinque metri dal mare. A sinistra c'erano degli scogli e da lì partiva un molo, che poi si allargava verso la fine. Lì Jhon aveva visto la barca, ma gli uomini col camice bianco probabilmente l'avevano già presa. Un altro ruggito e la creatura che si nascondeva tra gli alberi, li fece scuotere tutti. "Che cos'è?", chiese Tim. "Esattamente quello che stai pensando", rispose Jhon schietto. Tim lo guardò e disse: "La Recluta? Ma... potrebbe essere un Tirex". Ma Jhon era sicuro: "No. Questo è molto più grosso". Ci fu un ultimo ruggito potentissimo e poi i primi alberi davanti a loro schizzarono letteralmente via, e il bestione fece spuntare fuori la sua enorme testa dall'alto. La tanto temuta Recluta era lì, e ora li aveva fiutati! "Via!" , urlò Jhon. E tutti iniziarono a scappare lungo la spiaggia, passando oltre al molo, che tanto era vuoto. Il bestione, che nei cinque metri di spiaggia non ci stava, talmente era grosso, per inseguirli andava a sbattere contro gli alberi, buttandoli giù come birilli. Era simile a un Tirannosauro, ma alto almeno il doppio, con gli artigli lunghi quanto un bambino e i denti di almeno un metro. I suoi occhi erano rosso fuoco e aveva uno sguardo cattivissimo. Il solo respiro era potente quanto un ruggito di un Rex!! Grazie alle sue zampe lunghe, era impossibile scappargli. Infatti raggiunse subito il gruppo di uomini, che correvano disperati per non farsi mangiare vivi. "Da questa parte!", urlò qualcuno. Era Benjamin Linus. Probabilmente era arrivato in loro soccorso. Corsero tutti in direzione dell'uomo, all'interno della giungla. Il mostro, dietro di loro, buttava giù qualsiasi cosa che trovava davanti. Puntava alle sue prede, non gli interessava nient'altro. Il gruppo raggiunse delle porte di metallo, nascoste tra le liane. Ben le aprì, fece entrare tutti e se le richiuse alle spalle, giusto pochi attimi prima che la Recluta giungesse sul posto e potesse vederli. All'interno del bunker, che non era altro che una semplice stanza, era tutto buio e non c'era assolutamente niente. Solo polvere e lanterne a candela. "Nessuna faccia il minimo rumore! Se stiamo immobili lei non ci fiuterà!", bisbigliò Ben. "Lei? È una femmina?", chiese Jhon. "Beh, in realtà è asessuato. È l'unico esemplare del suo genere e non è stato pensato per farlo riprodurre", spiegò Linus. Restarono all'interno del bunker per almeno una ventina di minuti, dopo di che Ben decise di provare ad aprire la porta. Con un'anta socchiusa sbirciò fuori, e quando accertò che c'era via libera, uscirono tutti quanti. "Ora dove si va?", chiese Daniel. "Beh, credo proprio che dovremo usare la vostra zattera", disse Ben. Allora tutti si diressero verso la spiaggia dove si erano accampati dopo lo schianto.
Nel frattempo Justin e Alex arrivarono alla spiaggia, ma lì non c'era nessuno. Il campo sembrava essere stato abbandonato. "Dove diavolo sono tutti quanti?", chiese Alex. "Non lo so, ma ho un brutto presentimento!", rispose Justin preoccupato, guardandosi intorno. "Ehy. Guarda laggiù. È la barca!", urlò poi Alex, indicando la stessa barca descritta da Jhon, in mezzo al mare, a qualche centinaia di metri da loro. "È ancorata a largo, ma non c'è nessuno a bordo. Come facciamo a raggiungerla?", chiese Justin. "Con la zattera. Ovvio...", rispose Alex, che si diresse subito verso la zattera costruita qualche giorno prima dalle persone rimaste lì, al vecchio accampamento. "Dobbiamo spingerla in mare!" - "È troppo pesante, non ce la faremo da soli". "Allora lasciate che vi dia una mano io!", disse Zac, comparendo all'improvviso da dietro con la sorella. "Felice di rivedervi", disse Justin, facendosi scappare un sorriso. "È tutta la vita che sogniamo di tornare a casa. Ora non voglio farmi perdere questa occasione", rispose il ragazzo deciso. All'improvviso un'esplosione fece tremare tutta l'isola! Era il vulcano, aveva appena eruttato. Presto la lava avrebbe coperto tutta la superficie terrestre, squagliando ogni cosa o persona, lungo il suo percorso. "Tempismo perfetto", disse allora Alex sarcastico. "Dobbiamo muoverci!", gridò Zac. Emma saltò a bordo, mentre gli altri tre spinsero la zattera fino all'acqua. Ricominciarono le scosse e dal cielo iniziò a piovere cenere. L'isola stavolta sarebbe andata veramente distrutta.
EPISODIO 19 - UN GESTO EROICO
Jhon, Ben, Daniel, Tim, Charlotte e i due bambini stavano ancora correndo sulla spiaggia. Non mancava molto al campo. "Dannazione! Hugo ha fallito", esclamò Ben, fermandosi e osservando il vulcano che sputava fuoco. "Ha fallito? In che senso ha fallito? Chi è Hugo?", gli chiese Jhon. "È il protettore dell'isola. Aveva detto che aveva un piano, ma evidentemente non ha funzionato", disse Ben rassegnato, alzando il tono della voce perché il terremoto era forte e rumoroso. "Ehy! Guardate là! Una barca!", strillò Charlotte. "È la barca del mio sogno", esclamò contento Jhon. "Come facciamo a raggiungerla?", disse Daniel. "Beh, credo che dovrete raggiungerla a nuoto!", suggerì Ben. "Dovrete? Tu non vieni?", chiese imperterrito Jhon. "No, devo finire quello che ho iniziato. Hugo ha fallito e ora ha bisogno di me", rispose Linus. "Ma non puoi farcela, l'isola sprofonderà!", disse Tim. Allora Ben ripeté una frase che disse molto tempo prima, quando un'altra guerra tra il bene e il male incombeva sull'isola: "Se l'isola sprofonda, io vado a fondo con lei... Tieni Jhon!", e lanciò a Jhon una bussola. Poi continuò: "Raggiungete la barca e andate via dall'isola, seguendo sempre nord est. Dovreste avvistare terra tra qualche giorno, oppure qualche nave di passaggio, che potrà trarvi in salvo". Jhon afferrò la bussola e annui, sorridendogli. Poi gli disse: "Buona fortuna, e grazie di tutto!". Ben rispose facendo un cenno con la testa e poi sparì nella giungla. "Forza. Saliamo su quella barca!", gridò poi Jhon al gruppo. E tutti insieme proseguirono lungo la costa, per avvicinarsi il più possibile.
Era mattino presto. Lo zaino da campeggio di Alex era pronto. Non mancava più niente. Alex si sedette al tavolo in cucina e iniziò a scrivere. Era una lettera per sua madre, in cui diceva che sarebbe partito per un po' e che lei non avrebbe dovuto preoccuparsi di niente, mentre stava via. Che lo faceva per se stesso e comunque un giorno sarebbe tornato. Le chiese scusa di essere sparito così, senza preavviso. Perché quando lei sarebbe rientrata dal lavoro, la mattina presto, non l'avrebbe già più trovato in casa, ad aspettarla. Lasciò il foglio sul tavolo, sotto a una tazza per non farlo cadere, così sarebbe stato sicuro che sua madre l'avrebbe visto. Scese giù per le scale. Ad ogni gradino, un piccolo senso di colpa si faceva sentire sempre di più. Camminava velocemente, per raggiungere Justin che lo aspettava di sotto, ma nonostante ciò, quei due piani di scale sembravano non finire mai. Quando raggiunse il cortile c'era la solita atmosfera mattutina. Quel giorno il cielo era nuvoloso e faceva freschino. Intravide la macchina rossa di Justin parcheggiata fuori dal cancello. Per perdere un po' di tempo, appoggiò lo zaino a terra e si infilò il giacchettino di jeans a maniche corte. Poi finalmente uscì. Era mattino presto ed entrambi i ragazzi erano ancora rimbambiti dal sonno. Ma in fondo nessuno dei due aveva dormito quella notte. Come potevano dormire? Poche ore dopo sarebbero dovuti partire per andare dall'altra parte del mondo, e forse non sarebbero più tornati! Si salutarono freddamente. Justin gli aprì il bagagliaio e gli fece mettere lo zainone dietro. Poi salirono in macchina e partirono in direzione dell'aeroporto. Da casa di Alex non era molto distante. L'aereo partiva alle 8:15. Erano ancora le 6, ma c'era comunque l'ansia di arrivare lì, il prima possibile, per non rischiare di fare ritardo. In ogni caso stavano rispettando la tabella di marcia. Per quasi tutto il tragitto verso l'aeroporto, entrambi restarono in silenzio. Non avevano neanche il coraggio di guardarsi negli occhi. Forse per evitare di trovare qualche traccia di senso di colpa nello sguardo dell'altro. Quindi erano rigidi e terrorizzati nello stesso tempo. Fare un passo simile non era facile. Già per acquistare il biglietto ci voleva un coraggio formidabile, ma fino a quando non arriva il giorno della partenza non ci si rende veramente conto di quello che si sta facendo. Per due ragazzi intorno ai vent'anni, tra l'altro con delle vite difficili alle spalle, prendere e lasciare tutto per andare alla ricerca di una nuova vita non era affatto una cosa da poco! Ma loro lo stavano per fare. Proprio quel giorno! Proprio loro due! Due amici del cuore che insieme avevano visto e vissuto l'incredibile. Che in vent'anni ciascuno di vita, ne avevano passati più di chiunque altro in una vita intera. Ora dovevano solo fare l'atto finale. Salire sull'aereo e aspettare il decollo, senza guardarsi più indietro.
Alex era salito sulla zattera, con Emma, mentre gli altri due la tenevano ferma, con le gambe a mollo nel mare. Da quando avevano incontrato Hugo nella giungla, anzi in realtà da quando era comparso lo zio defunto, Justin non era tranquillo. Lo perseguitava una strana sensazione. Era come se una parte di lui rimanesse sull'isola. "Alex ascolta. Porta in salvo Zac e Emma. Portali sulla barca e andate via dall'isola. Non tornare indietro per nessun motivo!", disse Justin all'amico, che rispose stupito: "Che diavolo stai dicendo?!". "Devo farlo. Non so come spiegarlo a parole, ma sento che devo farlo", provò a spiegare Justin timidamente. "Non ti lascerò qui. Scordatelo. Non mi interessa se ti hanno fatto il lavaggio del cervello! Io non ti lascio qui!", si infuriò Alex. Justin allora studiò velocemente un piano, improvvisando. "Aiutami a salire", disse poi a Zac. Quando fu a bordo si rivolse ancora ad Alex: "D'accordo. D'accordo come vuoi. Verrò con te... passami lo zaino". Alex si inchinò per prenderglielo e Justin non ci pensò due volte per colpirlo alla nuca con un remo, tramortendolo. "Che diavolo fai?", chiese impaurita Emma, mentre suo fratello era ancora in acqua a guardare. "Vi ho fatto una promessa ragazzi. E intendo mantenerla. Vi farò lasciare l'isola, ma io non verrò con voi. Io devo restare. Portate Alex sulla barca e andatevene. Non tornate indietro per me. Probabilmente non ci sarà più niente e nessuno per cui valga la pena farlo, ormai...", rispose rivolgendosi poi a tutti e due, e abbassando successivamente lo sguardo mentre terminava la frase. "Sei sicuro?", gli chiese Zac. Justin annuì. Allora l'altro lo abbracciò e lo ringraziò. Poi salì a bordo della zattera e Justin, spingendo, li aiutò a prendere il largo. Cosi i due fratelli e il corpo esanime di Alex, si allontanarono dalla riva. Justin restò un po' a guardare e quando si fu accertato che la zattera restava a galla ed era in grado di navigare per un breve tratto, si mise a correre di nuovo in direzione della giungla.
Justin citofonò a sua nonna. Era mattino presto e come scusante per giustificare la sua visita, le raccontò che stava andando a fare un colloquio di lavoro e che era passato a salutarla. Lei come sempre lo accolse con calorosità, offrendogli un caffè e dei biscotti e riempiendolo di complimenti. Però la nonna ebbe il suo solito sesto senso, e non si trattenne dal chiedere al nipote che cosa avesse, vista la sua faccia da zombi. Lui le mentì, dicendo che stava bene ed era solo un po' stanco. Ma lei ovviamente non gli crebbe e continuò a tempestarlo di domande. In qualche modo Justin se la cavò, evitando i soliti discorsi paranoici che aveva dovuto sopportare fino a quel momento. Stava per partire e probabilmente non sarebbe più tornato. Ma non poteva certo dirglielo alla nonna. Lei non avrebbe compreso. Avrebbe avvisato la madre. Sarebbe successo un casino. Beh, sarebbe successo lo stesso, ma almeno lui sarà già lontano, dove nessuno può più convincerlo a restare. Mentre la nonna trafficava in cucina, Justin si recò in giardino, dove suo nonno, ovvero il compagno attuale della nonna, ma che lui considerava ormai un parente, stava potando delle piante, e gli disse: "Nonno. Penso che partirò per un po' di tempo. Sai, devo sistemare delle cose e...". Il nonno non lo lasciò finire e molto tranquillamente rispose: "Tranquillo ragazzo. Anch'io ai tempi lasciai il mio paese per cercare lavoro. Pensa che me ne andai da solo, senza soldi e senza niente. Ed ero solo un ragazzino! Ti auguro buona fortuna ragazzo. Vai a salutare tua nonna però... in bocca al lupo!". Justin sorrise, e gli disse: "Certo. D'accordo. Lo farò. Grazie nonno. Grazie di tutto...". Justin aveva le lacrime agli occhi quando si voltò per recarsi nuovamente in cucina. Quando fu l'ora di andare, abbracciò sua nonna e la baciò. Ma questa volta era un abbraccio molto più caloroso del solito, tanto che la nonna lo gradì e si mise a ridere, contenta. "In bocca al lupo per il colloquio", gli disse poi. "Già... grazie nonna. A presto", rispose Justin rammaricato. Poi sulla tromba delle scale, mentre aspettava l'ascensore, lei gli disse: "Se fai in tempo e vuoi passare a pranzo fai pure. Noi siamo a casa, ti aspettiamo...". Lui sorrise e, sapendo dentro di sé che ovviamente non l'avrebbe fatto, rispose: "Grazie nonna. Ti faccio sapere". Poi la salutò e corse in ascensore, dove, una volta chiuse le ante e schiacciato il tasto zero, scoppiò a piangere, come un bambino. Quando arrivò a piano terra, camminò piuttosto lentamente verso la macchina, che aveva posteggiato in una via parallela, e vi si buttò dentro emotivamente distrutto. Sui sedili posteriori c'era già la sua valigia. Da li sarebbe andato direttamente a prendere Alex, e poi successivamente in aeroporto, dove l'aspettava l'aereo. Prima di mettere in moto si mise le mani sulla faccia e restò qualche secondo con gli occhi chiusi, sospirando per far calare la tensione. Poi finalmente partì...
Ormai tutti i sopravvissuti, quelli rimasti, avevano raggiunto la barca. Non dovevano far altro che andarsene. Alex rinvenne dalla botta presa in testa, e subito chiese: "Justin! Dov'è Justin?". "Non lo so", gli rispose Jhon, che si era inchinato verso di lui, per vedere come stava. "È tornato nella giungla", disse Zac, che era in piedi, di spalle, a fissare l'isola. "Figlio di puttana...", disse Alex a fatica, ancora rimbambito dal dolore alla nuca. "Tranquillo... vado a io a riprenderlo", lo rassicurò poi Zac, voltandosi verso di lui, e appoggiandogli la mano sulla spalla destra. "Che cosa?! Sei impazzito!", strillò subito la sorella, che aveva ascoltato la conversazione. "Tranquilla. Sarò di ritorno tra poco", provò a tranquillizzarla lui. Ma alla sorella non andava giù: "No! Non puoi farcela! L'isola sta esplodendo! Non farai in tempo a salvarti. Ti prego. Resta con me! Non mi abbandonare. Mi avevi promesso che mi avresti riportata da mamma e papà!", si esasperò Emma. Il fratello le rispose: "Lo so. E intendo mantenere quella promessa. Ma ora devo salvare Justin, glie lo devo. Lui ha salvato noi, non ricordi?". Poi si avvicinò a Jhon, mentre la sorella rimase paralizzata a fissarlo con gli occhi ludici, e gli bisbigliò: "Appena sarò via. Metti in moto e andatevene!". Jhon, che aveva capito già tutto, annuì; poi il ragazzo si buttò in mare, senza guardare più in faccia a nessuno, e si mise a nuotare in direzione della costa. La sorella scoppiò a piangere, ma fu trattenuta dagli altri, per non darle modo di seguire il fratello. Era giusto così. Era un gesto eroico. Nonostante la rabbia per averla abbandonata, un giorno gliel'avrebbe perdonato.
Justin e Alex giunsero all'aeroporto. Erano le 6:30 del mattino. Quando arrivarono al parcheggio, e Justin spense la macchina, restarono tutti e due per qualche secondo a fissare l'insegna all'ingresso dell'aeroporto, immobili, senza dire niente, ognuno immerso nei suoi pensieri e nelle sue preoccupazioni. Poi decisero finalmente di scendere. Presero i bagagli e si diressero verso le porte a vetro. Quando fecero il chek-in, si andarono a sedere su delle panchine libere, davanti allo schermo delle partenze, per aspettare l'annuncio del loro volo. Alex disse che andava a fumare una sigaretta. Justin decise di andare con lui. Si fidava del suo amico, però in un ambito come quello, non voleva rischiare che lui, per qualsiasi motivo, magari un ripensamento, lo abbandonasse lì nell'aeroporto e se ne andasse. Per cui volle tenerlo sempre d'occhio. E poi era una scusa buona per uscire all'aria aperta e scaricare un po' la tensione, che era a mille. Si accesero entrambi una sigaretta. Poi squillò il telefono di Alex e lui rispose, allontanandosi un po' come se non volesse farsi sentire. Questo terrorizzò un po' Justin, che aveva paura che se sua madre lo scopriva, l'avrebbe magari convinto a rimanere in Italia. Da solo non poteva farcela. Era già difficile così, figurarsi da solo! Non sarebbe mai riuscito a farlo. Mentre fumava la sua sigaretta, gli cadde l'occhio su un gruppo di persone che stava entrando dentro. Uno di loro era alto e pelato, e aveva stranamente un'aria familiare. "Merda!", esclamò Justin. Lo aveva riconosciuto. Era il compagno di sua madre! Che cosa ci faceva la? Aveva scoperto che stava partendo ed era venuto per fermarlo? Oppure era solo una coincidenza? Justin non si mosse, rimase di spalle all'aeroporto, per non essere riconosciuto. Cercò disperatamente lo sguardo di Alex, che camminava col telefono all'orecchio, e quando lo incrociò gli fecce un cenno con la testa, che però l'amico non comprese. Alex comunque mise giù il telefono e si avvicinò lentamente a Justin. "Che c'è?", gli chiese poi. "Claude... è qui!", rispose spaventato Justin. "Che cosa?!", esclamò l'altro. "D'accordo senti... magari sta partendo per lavoro. Lui lo fa spesso, no?", provò a tranquillizzarlo Alex. "Non dobbiamo perderlo di vista", lo raccomandò Justin. Passò un'ora e i due rimasero fuori tutto il tempo. Quando fu il momento di dirigersi all'imbarco, talmente erano spaventati da quello che stavano facendo, che quasi si scordarono della presenza di Claude, il compagno della mamma di Justin. In coda ai metal detector un uomo si lamentava con l'addetto ai controlli: "Che cosa?! Volete dire che non posso imbarcare i miei coltelli?", e questo gli rispose: "Mi dispiace Signor Evergrand, doveva portarli alla stiva". Mentre i due continuavano a discutere animatamente, una mano pesante si appoggiò sulla spalla di Justin, che terrorizzato, si voltò lentamente. Era proprio lui, l'uomo che l'aveva sempre umiliato, l'unico uomo sulla Terra che era riuscito a farsi odiare da lui. "Justin. Devo parlarti", gli disse Claude. "Che cosa ci fai qui? Come sapevi che...", provò a chiedergli Justin. "Tua madre. Mi ha mandato lei a fermarti", lo interruppe l'uomo. "Beh, è inutile. Ha sprecato tempo. Io ho già comprato il biglietto e mi sto imbarcando", gli spiegò timidamente Justin. Claude, fin da quando Justin era piccolo, lo aveva sempre intimidito. Forse per il suo carattere forte e dominante. Forse per il suo fare invadente. Ma Justin non era mai riuscito a dirgli il fatto suo. Era anche per questo che lo detestava. Claude gli rispose: "Non è ancora troppo tardi per rinunciare. Tranquillo, te lo rimborserò io il costo del biglietto. Ma ora vorrei che tu venissi con me. Ascolta quello che ho da dire e poi deciderai cosa fare". Per la prima volta il compagno di sua mamma, si rivolgeva a Justin con un tono comprensivo, come se fosse anche lui spaventato da ciò che poteva fare il ragazzo. Cosa mai successa prima, anzi, era il contrario. Justin rifiutò. Allora Claude, che era un omone gigante, provò a prenderlo di forza dal polso, ma Justin si ribellò colpendolo al volto con un cazzotto, e facendolo cadere all'indietro, usando l'altro braccio libero. La sicurezza arrivò subito sul posto. Justin fu bravo a recitare: "Aiutatemi. Quell'uomo voleva molestarmi. Mi sono difeso". Restarono un po' li a indagare sull'accaduto, mentre Claude fu portato in infermeria. Gli fu chiesto a Justin se voleva fare la denuncia, in quel caso sarebbero arrivate le forze dell'ordine, ma Justin rispose di no. Bastava solo che lui se ne andasse e lo lasciasse in pace. Forse il destino era dalla sua parte, perché nonostante il tempo perso con gli uomini della sicurezza, Justin riuscì a prendere in tempo l'aereo e a raggiungere così l'amico sul pulmino che li conduceva al velivolo. Dal momento in cui i due ragazzi erano passati al metal detector e avevano raggiunto la pista, il tempo iniziò a passare lentamente, quasi come fosse a rallentatore. Quando salirono sullo scalone mobile e raggiunsero la porta dell'aereo, dove c'erano gli hostess, entrambi, quasi automaticamente e all'unisono, si voltarono e guardarono per l'ultima volta il cemento, che probabilmente, per molto tempo, non toccheranno più. Dato l'ultimo sguardo all'Italia, dovettero consegnare i biglietti ai controllori e poi recarsi ai loro posti. Furono pochi secondi, ma in quel breve lasso di tempo, si resero conto che se avessero voluto, avrebbero potuto ancora rinunciare e scendere dalla scala, per raggiungere di nuovo il suolo della pista. Ma, un po' la gente che spingeva alle loro spalle, e un po' i ragazzi del personale di volo che chiedevano i biglietti, si trovarono costretti comunque a proseguire e quindi ad accomodarsi successivamente ai loro sedili, dai quali non avrebbero più potuto alzarsi, una volta allacciate le cinture. Quando lo sportello si chiuse, Justin e Alex capirono che da quel momento non potevano veramente più tornare indietro. E che qualsiasi rimorso o senso di colpa gli fosse venuto, avrebbero dovuto tenerselo o provare a sopprimerlo, ma in ogni caso erano sull'aereo, e adesso che stavano partendo, per forza di cose, dovevano proseguire per la loro strada, quella che avevano scelto insieme tanto tempo fa, e che ora stavano per intraprendere. Proprio come quando si svegliarono quella mattina, i due ragazzi non si guardarono in faccia e non si parlarono più, per tutto il tempo in cui si accesero i motori e si iniziarono a muovere lungo la pista. L'aereo finalmente decollò...
EPISODIO 20 - ATTO DI FEDE
Tanto per cambiare, iniziò a piovere. L'isola tremava, sempre più spesso e sempre più violentemente. Gli alberi si spezzavano e cadevano. Le pareti rocciose franavano e dal cielo, oltre all'acqua piovana, scendeva polvere e zolfo. Justin correva nella giungla, saltando i tronchi caduti e le rocce che ogni tanto rotolavano dalla montagna. Non sapeva con certezza dove doveva andare, ma per logica si diresse verso la grotta. Se c'era un modo per salvare l'isola e fermare tutto quel pandemonio, doveva essere lì. Sesto senso...
Mentre correva, cominciò a pensare velocemente a tutti i momenti importanti della sua vita. Era come se corresse a rallentatore e le immagini intorno a lui si sfocassero. Onestamente, sperava di incontrare Mike, suo zio, visto che era stato lui a convincerlo a rimanere. Magari lui poteva dirgli cosa doveva fare... A un certo punto inciampò e cadde di faccia. Il terremoto, come ogni tanto succedeva, si arrestò momentaneamente. Quando Justin alzò il viso vide davanti a lui, a poche decine di metri, un bestione enorme, che così grosso e spaventoso non l'aveva mai visto. Probabilmente era la Recluta, perché per quanto ne sapesse, non ricordava che esistesse un dinosauro così, più grande addirittura del Tirannosauro. Era molto alto, aveva una testa enorme e allungata, con i denti aguzzi che, talmente erano lunghi, uscivano dalle fauci, e gli artigli altrettanto affilati. La Recluta fissava Justin, col suo sguardo di fuoco e il suo respiro potente. Era come se non sapessero chi dei due doveva muoversi per primo. Passò qualche secondo interminabile. Poi Justin decise di alzarsi e iniziò a correre a più non posso, nella direzione opposta a quella dove stava andando prima. La Recluta però gli stava dietro. Un suo solo passo corrispondeva a venti passi delle gambe di un uomo, quindi l'avrebbe raggiunto subito. Justin era senza fiato, non ce la faceva più, era da quando lasciò la barca che correva senza sosta! Le sue gambe iniziavano a cedere. Sentiva che stava rallentando, e il mostro gli era praticamente attaccato. Era sul punto di collassare, però non poteva arrendersi, così decise di tentare il tutto per tutto e si buttò in un cespuglio, a lato. Rotolò per qualche metro e si ritrovò vicino a un gruppo di alberi. Qui un Tirex stava mangiando un enorme dinosauro dal becco d'anatra, mordendogli il fianco e masticando i pezzi di carne. La Recluta, che non era affatto delicata nei movimenti, piombò improvvisamente sul posto, mentre il Tirex fissava curioso il ragazzo, che era rimasto lì bloccato. L'enorme mostro che dava la caccia a Justin buttò giù tre alberi, di cui due caddero vicino al Tirex e l'altro sul corpo della sua preda. Justin ora si trovava in mezzo a due predatori giganti, entrambi assetati di sangue. I due dinosauri per un attimo si fissarono, poi con stupore di Justin, iniziarono a combattere tra di loro. Justin non ci pensò due volte e ne approfittò per fuggire via. "Di qua!", urlò qualcuno. Era Zac, che da dietro un cespuglio fece strada a Justin e insieme si allontanarono. Poco dopo arrivarono davanti alla Porta. "Sei venuto alla fine?", disse Justin, appoggiandosi sulle ginocchia esausto e col fiatone. "Già", rispose l'altro, anch'egli col respiro affannato - "Hai visto quanto è grosso? È incredibile" - "Hanno inventato una vera macchina da guerra" - "Dov'è tua sorella, Zac? E tutti gli altri?", chiese poi Justin - "Sulla barca. Ormai saranno lontani" - "Perché non sei andato via con lei?" - "Non potevo. E tu perché?" - "Non lo so ancora. Ma sento che il mio lavoro qui non è ancora finito" - "L'isola non ha finito con noi..." - "Già... Zac, come entriamo? Il tempo stringe. La lava ormai ricoprirà questo posto da un momento all'altro" - "C'è un'altra entrata!", gridò qualcuno. Era Benjamin Linus. "Stiamo andando tutti lì", concluse poi.
Justin si trovava in coda fuori da una discoteca, dove spesso andava lui il sabato sera. Questa volta però c'erano tutti i suoi parenti più stretti. I cugini, gli zii, la madre col compagno, il papà con la seconda moglie, e le due sorelline, di cui una era nata da poco. Oltre a loro Justin scorse in fondo alla fila anche parecchi suoi amici. C'era la sua migliore amica, Alex, il suo ragazzo David, e poi anche Tim, Daniel, Jhon, Zac e Emma, che stranamente si trovavano lì anche loro. Justin non capiva, però non andò subito a salutarli. Anzi in quel momento pensò che fosse normale che si trovassero tutti lì. Nell'aria c'era un'atmosfera di festa. Erano tutti felici e sorridevano e scherzavo con le persone vicine...
I tre arrivarono a un ruscello. In fondo, l'acqua andava a finire in una piccola grotta che emanava una luce bianca intensissima. Qui c'erano Hugo e Walt ad aspettarli. "Bene, siete venuti anche voi", disse il primo. "Che dobbiamo fare?", chiese Justin. "Dovreste infilarvi là dentro e raggiungere il centro dell'isola..." - "Perché vi servo io?" - "Perché noi non possiamo farlo, siamo i protettori. Se andassimo laggiù falliremmo. È già successo in passato. Nessuno di noi può andare laggiù" - "E cosa ti fa pensare che io ci riuscirei? E che non mi succeda niente..." - "Non lo so onestamente. Ma spero che funzionerà. Ci vuole un atto di fede". Justin e Zac si fecero legare alla vita con una corda ed entrarono nella grotta. Seguendo il corso dell'acqua, arrivarono a un buco verticale, che portava di sotto. Ma non si vedeva niente per via di quella luce. "Bene. Vi calo giù!", urlò Ben. Così con l'aiuto di Walt, fecero calare prima Justin e poi Zac. "Sta attento!", gridò Zac all'amico, mentre veniva calato giù. "Tranquillo.. ti aspetto giù", rispose Justin. Man mano che scendeva la luce si faceva più intensa, fino a quando Justin non vedette addirittura più niente nemmeno sopra di lui. Era nel mezzo del bagliore. A un certo punto però finì, e Justin toccò terra. Aprì gli occhi, che aveva tenuto chiusi tutto il tempo per evitare l'accecamento, e si ritrovò in un'enorme sala di roccia. C'erano sculture strane in giro, e quegli strani geroglifici sulle pareti. Si slegò la corda, le diede tre strappi e così fu tirata su da Ben. Poco dopo arrivò anche Zac. Entrambi fecero qualche passo avanti e osservarono curiosi quella caverna. "Ti hanno spiegato dove dobbiamo andare?" chiese Justin a Zac. "No", gli rispose l'altro. "Fantastico", disse Justin ironico, avvicinandosi a una pietra con una forma strana. "Che diavolo sono secondo te?", chiese poi. "Non lo sappiamo. Sono qui dall'antichità" - "Ehy, vedi laggiù?" - "Che cosa?" - "La luce... è da lì che viene" - "Sembra una fontana" - "Già... e c'è un'altra di quelle pietre strane al centro. Chiunque abbia inventato questo posto aveva un grande fantasia" - "Ehy! Forse ho trovato un passaggio!", urlò poi Zac, che si trovava in fondo alla stanza. Insieme spostarono delle rocce cadute, e aprirono un piccolo varco. Là dietro era tutto buio, ma c'era chiaramente un corridoio. "Mi infilo prima io... sono più magro", disse Zac. "Ehy! Che vorresti dire?", scherzò Justin tirandogli una pacca sulla schiena. I due andavano molto d'accordo fin da quando si conobbero alla città del progetto Dharma. Avevano legato parecchio e ora si ritrovavano lì, insieme, a cercare qualcosa che nemmeno loro sapevano cosa fosse. Dovevano seguire l'istinto. Quando tutti e due raggiunsero l'inizio del corridoio, un'altra scossa fece franare la parete alle loro spalle, rinchiudendoli dentro. "Perfetto!", disse Justin ironico. Non restava che andare avanti, così accesero l'unica torcia che avevano, tirata fuori dalla tasca di Zac, e proseguirono, facendosi luce. Dopo qualche decina di metri giunsero in un'altra stanza, illuminata da un enorme fuoco, posto nel centro. Solo quando vi si avvicinarono, capirono che c'erano delle persone sedute intorno. "Lisbette!", gridò Justin, e si mise a correre in quella direzione. "Justin!", si voltò la ragazza contenta, che corse anch'ella ad abbracciarlo. Oltre a lei c'erano anche Elouise, i due hostess e le altre persone che erano rimaste alla spiaggia. "Ma... che cosa ci fate tutti qui?", chiese imperterrito Justin. "Non lo sai? Non possiamo lasciare l'isola. Lui ha detto così" - "Lui? Lui chi??" - "Lui. Geremy" - "Che cosa?!". Justin vide un uomo che si avvicinava da lontano. "Chi diavolo è?", chiese ancora Justin, ma Lisbette non rispose più, mentre gli altri erano ancora seduti intorno al fuoco. Quell'uomo, Geremy, era un tipo massiccio, abbastanza alto, tutto vestito di nero, con un cappello strano in testa che gli copriva metà viso, e un bastone come quello che aveva Jhon nell'altra caverna, quando era ipnotizzato. "Chi sei?", gli chiese Justin non appena l'uomo si avvicinò. "Non ti ricordi di me?", disse Geremy. "Io... ti ho già visto da qualche parte..." - "Già, al tuo supermercato dove lavoravi se vuoi saperlo" - "Si, tu eri venuto da me, ma... cosa ci fai qui?!" - "Beh, sono io che ti ho portato qui. Vedi Justin, tu sei stato scelto, come tutte queste altre persone. Siete stati tutti scelti per arrivare su quest'isola. C'è un lavoro importante da fare. Io proteggo questo luogo ormai da tempo, ma... inizio ad essere vecchiotto. E vorrei che qualcuno di voi prenda il mio posto" - "Un momento. Pensavo fosse Hugo Reyes il protettore dell'isola... insieme a Benjamin e Walt" - "Nah! Loro non sanno nemmeno dell'esistenza di questo posto! Il vero protettore sono io, da sempre. Però molte persone si sono lasciate persuadere dal male e hanno perso la retta via. Per questo ho bisogno di voi" - "Vorresti che noi proteggessimo questo posto? Ma, non sappiamo neanche cos'è ... insomma..." - "Qui, Justin, c'è la porta. La porta per l'aldilà. Sta a noi proteggerla". Zac intervenne: "No! No Justin non fidarti. Io non so chi sia lui, ma ti ha sicuramente corrotto. Il protettore è Hugo, ne sono sicuro. Questa gente deve aver trovato la luce e ora ne è diventata succube!". "Affermazione interessante Zac. Sembra che tu abbia capito tutto...", disse poi qualcun'altro da dietro. Erano Shon e il capo dei nemici. "Ci sono tutti Geremy?", chiese poi Shon. "Si, confermo. Quelli che sono rimasti...", rispose l'omaccione. "Ehy un momento!", provò a dire Justin, ma fu interrotto da Shon che disse: "Si! Stupido ragazzo. È proprio così. Sei stato così ingenuo da farti trascinare qua sotto con l'inganno. E ora che siete tutti qui, prenderete il nostro posto. E noi finalmente saremo liberi". "Ma che diavolo...?!", Justin non capiva. Chi erano e che cosa volevano? "Beh, se ci tieni a saperlo te lo spiegherò in poche parole. Quando noi arrivammo qua, centinaia e centinaia di anni fa, trovammo quella maledetta luce, e ne rimanemmo affascinati, a tal punto che decidemmo di provare a raggiungerla. Pensavamo che utilizzandola, avremmo potuto andarcene da questo luogo maledetto. Ma purtroppo vedi, non eravamo puri di cuore! È per questo che siamo rimasti imprigionati qui. Allora decidemmo di cercare dei sostituti, e abbiamo trovato voi. Ci servivano persone deboli e buone, proprio come tutti voi poveri ingenui. Persone abbastanza sciocche da farsi manipolare come dei burattini, fino a qui: l'isola...". "Quindi mi stai dicendo che... vi siete intromessi nelle nostre vite...?!", cercò di capire Justin. "Già. Ingiusta la vita, vero? Ma vedi è così che va. Anche con i dinosauri è la stessa cosa. C'è quello più forte che da la caccia a quello più piccolo, e se lo trova, se lo mangia". "Figli di puttana ma come..?!", Justin stava andando conto Shon, ma Lisbette lo trattenne. "E ora forza. Iniziamo il rito", continuò Shon. "Il rito... quindi è a questo che serve... ma come ci riuscite?", chiese Zac. Il loro capo rispose: "Chiunque arrivi quaggiù può impararlo. Però voi piccoli intrusi scocciatori, avete profanato questo luogo e così facendo, ci siete scappati la prima volta. Ma la cosa non si ripeterà facilmente!". "Tutti quegli uomini vestiti di bianco. Erano persone come noi? Persone a cui avete rubato la vita?", si inalberò Justin. "Loro erano il nostro... come dire? Esercito. Piccole pedine che ci aiutavano a condurre i candidati, ovvero voi, quaggiù", spiegò Shon. "Candidati... questo posto andrebbe distrutto! Con tutti voi dentro!", commentò Zac. "Hai ragione amico, ed è quello che faremo!", rispose subito Justin facendogli l'occhiolino. Benjamin e Walt erano lì, e Justin li aveva scoperti con la coda dell'occhio. Come finì di dire quella frase, i due nuovi arrivati spararono e uccisero i tre nemici, compreso Geremy, l'uomo che aveva condotto tutti i passeggeri del volo 0023 sull'isola. Allora gli altri supersiti che erano intorno al fuoco si alzarono, ma incominciò un nuovo terremoto, stavolta più lungo e più potente. "Forza! Dovete andarvene!", urlò Ben. Tutti iniziarono a scappare verso l'uscita. Justin si fermò vicino a Benjamin e gli chiese: "E tu come farai ad uscire?". Ben scosse la testa desolato, facendogli capire che lui non ce l'avrebbe fatta. Cosi il ragazzo gli disse: "Mi dispiace...". "Tranquillo. È giusto così. Dobbiamo essere noi a farlo. Altrimenti non funzionerà. Ora vattene forza. Porta in salvo i tuoi amici!", disse Ben. Quando i fuggitivi raggiunsero l'uscita incontrarono Hugo, che stava entrando anche lui nella grotta. "Laggiù c'è un'altra uscita! Raggiungetela e correte subito alla spiaggia!", gridò loro. "Grazie di tutto", disse Justin, passandogli accanto, e poi corse via con gli altri. Quando uscirono allo scoperto si ritrovarono di nuovo nella giungla. Il terremoto continuava a far tremare tutto, e la lava ormai li aveva quasi raggiunti. Un fiume rovente stava scendendo lentamente, divorando tutto ciò che incontrava, a poche decine di metri da dove si trovavano loro! "Justin, aspetta!", urlò Zac. Si avvicinò al suo orecchio e gli sussurrò: "Dì ad Emma che l'ho fatto per lei!" - "Che cosa...?!". Poi spinse Justin facendolo cadere a terra e corse di nuovo dentro la grotta. Justin non fece in tempo a fermarlo. Una frana chiuse l'ingresso della grotta. Ora non c'era più modo di salvarlo. "Justin! Justin! Dobbiamo andare!", gridò Lisbette. Allora il ragazzo si alzò, fissò ancora un po' la caverna, o ciò che ne rimaneva, e poi si decise a seguire la ragazza verso la giungla. Zac aveva fatto un gesto eroico. Ora però doveva spiegarglielo alla sorella, appena l'avrebbe rivista. Durante la pazza corsa verso la spiaggia, i ragazzi dovettero passare in mezzo ad alberi che cadevano, dinosauri che scappavano ovunque spaventati, e continue frane o crepacci che si aprivano sul terreno. Un branco di Brontosauri tagliò loro la strada, alzando un nuvolone di polvere davanti a loro. Un branco di Velociraptor invece, stava correndo intorno a loro, in mezzo agli alberi, ai lati. Ma non davano la caccia a loro. Anzi non davano la caccia proprio a niente, stavano scappando anch'essi. Tutti gli animali dell'isola stavano abbandonando i loro nidi e le loro tane, in direzione del mare, sperando istintivamente di trovare la salvezza. La lava era ormai a pochi metri da Justin, che teneva la mano di Lisbette e correva come un disperato. Alt! I due ragazzi, che erano rimasti indietro, si dovettero fermare di colpo. Un gruppo di Velociraptor li aveva aspettati, per poi accerchiarli in una trappola. "Maledizione! Ma neanche la lava li spaventa?!", esclamò Justin. "Hanno fame", commentò Lisbette. I due sembravano spacciati. I predatori si avvicinarono ed erano ad un passo dal balzargli addosso, per divorarli vivi. Justin e Lisbette si chinarono, come per attutire un colpo, ma proprio in quel momento arrivo Ben, che col fucile sparò al primo Velociraptor che si stava avvicinando. "Scappate!", urlò. "Qui ci penso io!". Justin, come sempre rimase un attimo fermo, e fu Lisbette a doverlo trascinare via. "Ben...", disse Justin a bassa voce. Si sentirono gli ultimi spari e poi delle grida. Linus aveva sacrificato la vita per salvare i ragazzi. In ogni caso, quei Raptor, non ebbero nemmeno il tempo di digerirsi il pasto, perché la lava inghiottì tutta la superficie dell'isola, arrivando alla spiaggia dove, per un pelo, Justin e Lisbette saltarono in acqua per non essere travolti. Il mare era mosso e un altro temporale scoppiò improvvisamente. Il clima di quel posto era completamente impazzito. Il vento, la tempesta, il terremoto, la lava... stava andando tutto distrutto! "Di qua!", urlò Jhon dalla barca. I due ragazzi, ormai esausti, fecero l'ultimo sforzo e, bevendo acqua a tutto andare, riuscirono tuttavia a salire a bordo, portandosi in salvo. Un'ultima grande esplosione segnò la fine dell'isola...
La musica era iniziata. Tutti ormai erano entrati in discoteca e c'era chi ballava e chi invece ordinava da bere al bancone. Justin camminava in mezzo alla pista, spaesato. Schivò un gruppo di persone, stringendosi e passando in mezzo alla folla. Vide due ragazzi che conosceva e li salutò con un cenno. Poi raggiunse David, che stava parlando con Lisbette. I due sorrisero e si abbracciarono come se non si vedevano da tanto tempo. Poi Justin fece lo stesso con Lisbette, che gli passò un bicchiere e gli offrì un po' di cocktail. Dall'altro lato Justin, vide sua mamma che ballava con Claude, entrambi felici, mentre quest'ultimo prese in braccio la sua sorellina e lanciò in aria per poi farsela ricadere tra le braccia. Justin decise di uscire un attimo a fumare. Arrivò in balconata, passò oltre le tendine di plastica e uscì in cortile. Qui, si appoggiò alla ringhiera e si accese una sigaretta. Suo papà, Luys, comparve al suo fianco e diede una pacca alla spalla del figlio, che si accorse poi di lui e lo salutò. "Tutto a posto figliolo?", gli chiese Luys. "Bene. La piccoletta? Come sta", disse Justin timido. "Bene. Sta facendo la pappa. È di la sui divanetti con Noemi" - "Perché siamo tutti qui, papà?" - "Beh, perché volevamo passare un ultimo momento insieme... è ovvio" - "Si ma... dopo, che succede?" - "Dopo andiamo avanti", rispose il padre.
In seguito all'esplosione dell'isola, una fortissima scossa di vento scaraventò la barca in mezzo al mare, distruggendola completamente. Jhon, Tim, Daniel, Christian, Charlotte, Margot, Emma, Lisbette, Alex e Justin si ritrovarono in mare, in mezzo alle onde. Riuscirono menomale ad aggrapparsi a dei pezzi di legno che galleggiavano nell'acqua, fino a quando il mare si calmò. "Tenetevi forte!!" - "Di qua! Di qua!", gridarono.
Un raggio di sole penetrò finalmente dai nuvoloni grigio scuro, illuminando l'orizzonte. Il mare si era calmato. Attorno a loro non c'era assolutamente niente. Solo oceano per miglia e miglia. Fortunatamente erano tutti salvi, ma ora la preoccupazione più grande erano gli squali. Presto, sarebbero diventati un banchetto fin troppo facile per loro. Jhon aiutò Charlotte e Margot a salire su uno scafo rimasto integro. Mentre tutti gli altri si erano arrangiati in qualche modo a sdraiarsi su delle assi, cercando di tenere il corpo più fuori dall'acqua possibile. "Tranquillo piccolo... papà è qui", disse Daniel a Christian, che era sdraiato a pancia in giù su pezzo di barca galleggiante, mentre il padre era aggrappato solo con le braccia e aveva il resto del corpo in mare. "Tim! Vedi qualcosa?", urlò Jhon al suo allievo. "No, negativo! Solo oceano", rispose il ragazzo. "Grandioso...", commentò Jhon sarcastico. "Ehy, tutto bene?", chiese Justin a Lisbette. Entrambi erano sullo stesso scafo, sdraiati a pancia in giù. "Si...", rispose la ragazza sospirando.
EPISODIO 21 - IL PESCHERECCIO
L'isola sulla quale i sopravvissuti del volo 0023 avevano vissuto per gli ultimi tre mesi della loro vita, era andata completamente distrutta. Hugo Reyes, con l'aiuto di Benjamin Linus, Walt e in seguito di Zac, qualsiasi cosa avesse fatto, aveva funzionato. Essi sacrificarono la loro vita per fare ciò che era giusto e che Justin aveva fallito: impedire agli uomini del male di lasciare l'isola e aprire la porta dell'oscurità. Forse c'era un altro modo per evitare tutta quella catastrofe, ma non fecero in tempo a scoprire quale, così Hugo dovette improvvisare, sacrificando se stesso. Ora non c'era più nessun luogo sacro da proteggere, e quindi tanto meno nessun protettore dell'isola. Era finito tutto...
Il primo raggio di sole del mattino illuminò una striscia di mare, fino a raggiungere il viso di Justin, che dormiva a pancia in giù sull'asse di legno. Erano in mare aperto, non c'era niente attorno a loro, solo orizzonte... L'accecante bagliore del primo sole mattutino fece aprire gli occhi a Justin, che li risocchiuse subito per il fastidioso risveglio. Tutti gli altri dormivano ancora. Justin si sollevò leggermente per provare a vedere se avvistava terra, ma nulla... non c'era altro che chilometri di acqua. L'oceano era piatto come uno specchio, tanto che sembrava addirittura finto. Passarono le ore e non arrivava nessuno. La gola dei supersiti cominciava a diventare secca per la mancanza di acqua. Inoltre ben presto sotto al sole si sarebbero cotti come delle uova. Anche Jhon e Charlotte si svegliarono, mentre Lisbette, che era accanto a Justin, continuava a dormire nella stessa posizione del compagno. Passarono le ore. La corrente li spingeva, ma non si sapeva in quale direzione. Era angosciante l'idea di vagare nel mezzo del oceano con milioni di squali che, non appena avessero avuto fame, avrebbero avuto lì a disposizione un ottimo banchetto servito su un piatto d'argento.
Justin incontrò David. Erano così in imbarazzo che non sapevano nemmeno dove iniziare, nonostante avessero tanto da dire. Non era il primo litigio che facevano, ma questa volta avevano esagerato. Il loro problema era essenzialmente la mancanza di dialogo. Forse avevano affrettato un po' le cose, infatti non si conoscevano ancora abbastanza da pensare di fidanzarsi così presto. Certo, tra loro c'era feeling, ma ben presto si resero conto che probabilmente era solo un'infatuazione, quello che loro avevano scambiato per colpo di fulmine. In effetti quando hai una cotta non ci pensi a queste cose. Nessuno sarebbe in grado. È difficile distinguere una tentazione, da ciò che realmente desideriamo. Inoltre entrambi avevano dei caratteri difficili. Justin perdeva facilmente l'autocontrollo per ogni minima cosa, mentre David non parlava mai chiaramente dei suoi problemi e ci girava un po' intorno, facendo irritare Justin. La loro breve storia di tre mesi non era stata tutta sofferenza in fondo... All'inizio si trovavano davvero bene insieme. Si dicevano paroline dolci, si guardavano negli occhi. Era tutto magico. Ora, ogni volta che ci pensava, Justin aveva sempre qualche lacrima agli occhi, che gli colava sul viso. Forse non era nato l'amore, ma in ogni caso era troppo affezionato a lui. E poi come dimenticare il giorno che David venne da lui per conquistarlo? All'inizio, quando Justin lo conobbe, frequentava un altro. Ma Justin non si arrese, e nel momento più inaspettato, ecco che David si presentò sul luogo di lavoro e lo baciò davanti a tutti. Una vera e propria scena da film. Era tornato da Justin per riprenderselo. Probabilmente aveva capito che con l'altro non avrebbe funzionato. Anzi, si era reso conto semplicemente che con Justin sarebbe stato veramente felice. E così fu, per un breve periodo almeno... Poi iniziarono i problemi. All'inizio sembravano semplici incomprensioni che ci sono in tutte le coppie, ma poi le liti divennero sempre più violente e frequenti. I due quasi non si potevano più vedere. Tra l'altro, in un momento di sbandatezza, Justin conobbe un altro ragazzo, Jake, che gli fece perdere la testa. Lo incontrò in discoteca, una sera che aveva litigato con David ed era uscito da solo per conto suo, e attaccò bottone. Un po' l'alcool, un po' la crisi col fidanzato... i due si baciarono e finirono a letto! Iniziarono inoltre a sentirsi e a vedersi più spesso, tutto all'insaputa di David. Justin si sentiva una merda a fare così, perché era consapevole che David non se lo meritava, nonostante i problemi che avessero. Però lui aveva sempre avuto un carattere fragile e facilmente trascinabile, tanto che divenne succube del nuovo amico. Jake, un bel ragazzo di 23 anni, attualmente studente universitario, convinse Justin che era sbagliato continuare la storia con David, e che quest'ultimo, a sua volta, fosse sbagliato per lui. Forse non aveva tutti i torni, e tuttavia non faceva il lavaggio del cervello a Justin con cattiveria, ma in ogni caso lo voleva tutto per se. Come biasimarlo in fondo? Justin era proprio un bel ragazzo, ma bello dentro. Aveva un cuore d'oro, ma purtroppo incompreso. Lo rovinava il fatto che per farsi accettare, fin da piccolo, cercava di assomigliare agli altri, apparendo così, diverso da come era realmente. Viveva indossando una maschera. Purtroppo questo lo screditava molto, e faceva allontanare di conseguenza le persone da lui, perché la gente vedeva la maschera e non il vero Justin. Solo Jake capì subito la bontà infinita di Justin. Jake e non David... Forse perché David era più ingenuo sul campo, non si sa. Però era certo che con Jake, Justin riusciva ad aprirsi e a dialogare. Cosa che non era mai avvenuta invece con l'altro. Passò qualche settimana così, fino a quando Justin non ce la fece più e dovette togliersi il peso di dosso. Raccontò a David del tradimento! Ovviamente il suo ragazzo non la prese bene e per qualche giorno rimasero distanti, con l'odio. Ora però avevano deciso di incontrarsi per parlarne, stavolta più calmi e razionalmente. David disse che lo capiva e non lo biasimava per averlo tradito, ma che però prima di stare con una persona avrebbe dovuto mettersi a posto con se stesso. Aveva ragione, e Justin si vergognò per ciò che aveva fatto a tal punto che pensò di iniziare una pausa di riflessione. Era il suo orgoglio a parlare, e inoltre era confuso per quello che stava iniziando a provare per Jake. Si era messo proprio in un bel pasticcio! Aveva sempre avuto la calamita per i problemi...
"Incredibile!", provò ad urlare Jhon con la voce rauca, indicando una luce davanti a loro. Era notte fonda, ma questa volta pare che l'archeologo avesse avvistato qualcosa. Infatti tutti si svegliarono subito. "È una barca?", chiese Tim - "Lo spero tanto". "Ehy!! Ehy siamo qua!! Ehy!!", tutti quanti iniziarono a urlare come dei matti per farsi vedere. All'inizio la luce non si muoveva, ma poi, dopo qualche minuto che i supersiti urlavano, cominciò a farsi sempre più grande. "Si sta avvicinando!", esclamò Lisbette. "Incredibile!", disse Daniel. E poi di nuovo tutti: "Ehy da questa parte! Aiuto!!". A un certo punto un faro cominciò a illuminare il mare, movendosi alla ricerca di qualcuno. Probabilmente avevano sentito le voci e ora li stavano cercando. Quando il faro venne puntato contro i pezzi galleggianti sui quali stavano i dieci sopravvissuti, si fermò e rimase puntato su di loro. Si, era proprio una barca! Uno Yacht per l'esattezza. Una voce da un altoparlante disse: "Non muovetevi! Ora veniamo a salvarvi!". La festa fu grandiosa. Tutti avevano il sorriso stampato in bocca. C'è chi gridava di gioia e chi invece si abbracciava. Se fossero stati su una base solida, ora starebbero tutti a saltare dalla felicità. Una scaletta fu abbassata dal ponte. Gli uomini dell'equipaggio invitarono tutti a salire a bordo. Il primo fu Jhon, che era il più vicino allo scafo. Poi salirono Emma, Christian con Daniel, Margot con Charlotte, Tim, Alex, Lisbette e infine Justin. Ora finalmente potettero farlo. Erano troppo entusiasti. Si abbracciarono tutti, senza riuscire a togliersi quel sorriso di bocca. La gioia nell'aria era immensa. Finalmente qualcuno li aveva trovati! E finalmente ora potettero sedersi al caldo, con una coperta sulle spalle e un bel the caldo da sorseggiare. Non c'era sollievo maggiore!
Qualche ora dopo, a bordo del peschereccio, Emma piangeva la morte del fratello, mentre gli altri se ne stavano seduti a masticare qualcosa e a fissare l'oceano. "Devo parlarle", disse Justin. "Lascia stare ci vado io", ripose Lisbette - "No, è colpa mia se è morto Zac" - "Ehy, Justin! Togliti dalla testa queste assurdità. Non è assolutamente colpa tua. È lui che ha voluto seguirti. Poteva benissimo restare con la sorella" - "Se non me ne andavo, lui non mi avrebbe seguito..." - "Ti sbagli. Sarebbe andato lo stesso. E lo sai...".
Jhon si recò fino alla cabina del comandante. "Disturbo?", chiese. "Oh no, salve Signor Evergrand. Prego, si sieda", gli disse il capitano indicandogli una sedia. "Allora, come posso esserle utile?", chiese poi al supersite. Jhon iniziò a spiegare: "Ecco, vede... in realtà non so da dove iniziare. Innanzi tutto grazie per averci salvato e per l'accoglienza che ci state dando. Grazie infinite" - "Non c'è di che, ci mancherebbe. Anche se avreste potuto attirare gli squali, lasciando così tutto il pesce a noi! Ahaha" - "Ahahah, beh si in effetti. Avremmo fatto una buona concorrenza" - "Come stanno gli altri?" - "Spaventati. Spaventati ma bene" - "I bambini?" - "Loro dormono. Ecco, proprio di questo volevo parlarle. Tra di noi, nel nostro gruppo, ci sono persone che non erano sull'aereo. Non saprei come giustificare la loro presenza" - "Dove vuole arrivare? Non avrà mica intenzione di mentire?" - "In realtà era proprio quello che stavo pensando. Se noi raccontassimo tutto, probabilmente non saremmo al sicuro. Quelle persone ci hanno rubato la vita e ci hanno trascinato su quell'isola come pedine! Cosa succederebbe se si venisse a sapere che alcuni di noi sono riusciti a scappare e ora girovagano beati a spifferare tutto al mondo intero?" - "Ma io credevo che l'isola fosse sprofondata ormai. Con tutti i suoi abitanti a bordo" - "Non credo, francamente, che si trovassero tutti sull'isola, quando è andata distrutta. Lei cosa ne pensa?" - "Signor Jhon. Questa barca è un peschereccio. Ma in realtà noi siamo una specie di guardia costiera che protegge il perimetro di queste acque... il perimetro dell'isola! Ecco, il nostro compito è tenere lontano i curiosi. E nello stesso tempo fornire il pesce alla civiltà che vi abita". Jhon scattò in piedi spaventato. "Si calmi, Jhon! Non ho intenzione di farvi del male! Io voglio aiutarvi. Noi non siamo al corrente di tutto ciò che succede laggiù. Siamo soltanto dei comuni dipendenti che fanno ciò che gli dicono i loro superiori. Tutti quei segreti, tutte quelle mostruosità a cui avete assistito... pensa veramente che io ne sapessi qualcosa? E me ne starei qua tranquillo, con le mani in mano, a non fare niente? E continuare a lavorare imperterrito solo per il mio stipendio?", disse il comandante Roland. Jhon allora si tranquillizzò e tornò a sedersi. Poi disse: "Vogliamo solo tornare a casa" - "E io farò di tutto per aiutarvi sig. Jhon!" - "Qual è il piano?" - "Vi lasceremo su un gommone di salvataggio nei pressi di un'isola australiana. Venga, che le mostro la cartina". Il comandante si alzò e, seguito da Jhon, raggiunse una mappa appesa alla parete dal lato del timone, e poi la prese e iniziò a sfogliarla. Quando raggiunse il continente oceanico, mostrò un'isoletta di un arcipelago australiano dove avrebbe fatto in modo che i sopravvissuti potessero venir trovati dagli abitanti e portati così in salvo. "Fraser Island?", domandò serio Jhon - "Dopo il tentativo fallito di ammaraggio, tu e gli altri tuoi compagni, siete rimasti in acqua per giorni, a bordo del gommone di salvataggio. Dopodiché avreste raggiunto un'isola deserta nel mezzo dell'oceano, che è questa qua..." , e indicò un puntino sulla mappa. Poi continuò: "Qui trascorrerete i prossimi tre mesi ad aspettare dei soccorsi, che però non vi troveranno mai. Ottimo motivo per riutilizzare il vecchio gommone, e tentare di nuovo di affrontare il mare alla deriva, con la speranza di incrociare qualche rotta di navi o addirittura di avvistare terra!" - "Si, potrebbe funzionare...", commentò Jhon. "Ora si faccia una bella dormita, e riposi il cervello, ne ha bisogno", disse il comandante cordialmente, accompagnando Jhon alla porta della cabina. "Beh, grazie di tutto capitano...", disse poi. "Mi chiamo Roland", concluse l'altro sorridendo.
EPISODIO 22 - TERRA ALL'ORIZZONTE
Kurt stava dormendo. La porta della sua stanza era aperta e si sentiva il suo respiro affannato. Justin prese il borsone che aveva saggiamente preparato il giorno prima. Si infilò i pantaloni, la camicia e le scarpe e, in punta di piedi, uscì dalla sua camera al secondo piano, passando vicino a quella di Kurt, che fortunatamente non si svegliò. Scese per le scale e passò affianco alla stanza dove dormivano Jake e Claire. Anch'essi stavano ronfando alla grande. Appena uscito dalla porta d'ingresso, arrivò Blacky, il loro cagnolino. Era un bastardino nero di taglia media, col pelo corto. L'avevano trovato Jake e Claire quando era ancora un cucciolo e l'avevano portato a casa loro, prima dell'arrivo di Justin. Gli accarezzò la testa mentre lui scodinzolava e gli faceva le feste, e gli disse: "Mi mancherai bello!". Dopodiché attraversò il giardino e abbandonò la villetta. Una volta raggiunto il suo scooter, sistemò il borsone in mezzo alle gambe e vi montò sopra. Mise in moto, diede un ultimo sguardo malinconico alla casa nella quale aveva vissuto per più di un anno, sospirò e poi partì. L'aereo AK123 Sidney - Tokyo partiva tra qualche ora. Era in largo anticipo, ma decise di uscire di casa in piena notte per evitare che i suoi coinquilini lo scoprissero. Ciò che stava facendo era assolutamente segreto. Nessuno lo sapeva, nemmeno David. Non poteva rischiare che qualcun'altro perdesse la vita a causa di quell'isola. Ora aveva una missione. Non sapeva con esattezza di cosa si trattasse ancora, ma si era convinto che doveva tornare laggiù. Il mattino seguente, ognuno dei tre ragazzi si svegliò e iniziò a prepararsi alla solita routine. Quando Kurt passò vicino alla stanza di Justin, notò che era stranamente ordinata e pulita. Pensò che forse, una volta tanto, Justin si fosse deciso a fare un po' di ordine in quella tana. Quando scese a far colazione, incontrò Jake e Claire vicino al tavolo in salotto. Erano entrambi in piedi, uno vicino all'altra, e avevano uno sguardo preoccupato. "Che succede?", chiese Kurt. Jake, che teneva in mano un foglio, rispose: "Justin... Se n'è andato. Non ci posso credere". Così gli fece leggere la lettera che aveva lasciato Justin prima di scappare.
"Ciao ragazzi, innanzi tutto grazie per tutto quello che avete fatto per me in quest'ultimo anno. Sono stato davvero bene e vi devo tanto. Stanotte sono partito, se ora mi state leggendo, sicuramente sarò già lontano. Per cui sarà troppo tardi per salutarci. Scusate se sono sparito così, ma non avevo altra scelta. Dovevo farlo. Ora ho uno scopo e, lo so che vi sarà difficile capire, ma dovrò seguire la mia strada. Sappiate però che starò bene e non c'è nessun motivo di preoccuparsi. Vi voglio bene. Con affetto, Justin".
A tutti e tre scese qualche lacrima nel leggere quelle parole. "Dobbiamo avvisare David...", concluse Claire.
Era sera, e come spesso succedeva, Justin non riusciva a dormire. C'era anche Lisbette sul ponte. Era appoggiata a fissare il mare. L'oscurità della notte era inquietante. "Beh, certo. Meglio guardare da qua sopra, piuttosto che in acqua", scherzò Justin. Lisbette, che non si era accorta della presenza del ragazzo, si girò di scatto e sorrise, dicendo: "Già. Era troppo umido laggiù!". I due rimasero decine di minuti a fissare l'oceano e a parlare. "Cosa pensi che succederà dopo?", chiese Justin - "Non lo so... Tu cosa credi che succederà?" - "La nostra vita... è stata finta! Ti rendi conto? Tutto ciò che abbiamo vissuto fino ad adesso era fasullo!" - "Justin! Lo so... non c'è bisogno di ricordarmelo. Anzi, a dire il vero, sto cercando di non pensarci" - "Scusa... è che... probabilmente dovremo mentire. Capisci?" - "Non sarà difficile. Se qualcuno mi chiedesse qualcosa, non saprei neanche dove iniziare!" - "Ahahah, beh, in effetti hai ragione...".
Il giorno dopo, della grida sul ponte da parte degli uomini dell'equipaggio, svegliarono i dieci sopravissuti del volo 0023, che si portano di corsa all'esterno per vedere cosa succedeva. Un'enorme dinosauro marino stava attaccando la barca. L'equipaggio gli stava sparando dei tranquillanti, ma inutilmente. Un mozzo gridò: "Pazzesco! Non abbiamo mai subito attacchi nel giro di 5 anni! Arrivano loro e guarda...!!". Il mostro continuava a colpire la barca con l'intento di farla cadere. "È un Ittiosauro", esclamò Tim. "Però non capisco quale...". "Guardalo bene", disse Jhon. Allora Tim balbettò: "Platecarpus" - "No. Credo proprio che sia un...". Jhon non fece in tempo a terminare la frase, che un enorme colpo fece ribaltare la nave sul lato sinistro, facendo scivolare tutti i suoi passeggeri in mare. "Dannazione!", si sentì urlare il comandante prima della botta. Un enorme Megalodonte cominciò a distruggere il peschereccio e a mangiare uomini. "State su!" - "Non tenete le gambe in acqua!" - "Non muovetevi! Lui non vi vedrà!", urlavano tutti. Justin, Charlotte e la piccola Margot erano sdraiati su un pezzo di barca galleggiante. "Maledizione, di nuovo in mare!", esclamò Justin. "Raggiungete il gommone!", urlò qualcuno. Allora alcuni dell'equipaggio si sganciarono dai pezzi galleggianti e iniziarono a nuotare. Ma così fecero proprio il gioco del mostro marino, che non ci pensò due volte per inghiottirli tutti, facendo uscire la sua testa enorme ed allungata dalla superficie dell'acqua. Ci fu sangue che schizzò ovunque, ma il dinosauro non era solo! Altri Megalodonti sbucarono da tutte le parti. Se fossero stati in alto, avrebbero potuto vederne una decina, nuotare a cerchio sotto di loro, in attesa solo che qualcuno si fosse buttato in mare per raggiungere il gommone. "Maledizione sta affondando!", urlò Alex. Il suo enorme pezzo di acciaio sul quale era sdraiato a pancia in giù, si stava lentamente chinando su un lato e sprofondava sempre più velocemente, col ragazzo sopra. "No! Alex! Sta attento! Vieni qua! Presto!", urlò Justin. "Il fucile! Dov'è il fucile?!", si disperò Roland, mentre Alex nuotava più veloce che poteva verso la lastra dove stavano Tim e Jhon. "Eccolo!", disse un membro dell'equipaggio, che lo passò al suo capo. "Sono troppi... non possiamo colpirli tutti fin sotto l'acqua!", questa fu l'ultima frase che il comandante disse, prima di essere inghiottito alle spalle dalle fauci di un enorme Megalodonte, che si portò giù persino il pezzo di ponte di legno, sul quale si manteneva in equilibrio Roland. "Adesso!", urlò Justin, volendo approfittare del banchetto che si stava facendo il dinosauro, per raggiungere una volta per tutte quel benedetto gommone di salvataggio. Allora insieme a Charlotte e Margot, si calarono in acqua e iniziarono a nuotare il più veloce possibile. Dal gommone, un mozzo del peschereccio, allungò le mani e aiutò a salire prima la bambina, poi la madre e infine Justin, che aveva l'adrenalina a mille per l'attesa, visto che fu l'ultimo a uscire dall'acqua. C'era anche Emma sul gommone. "Andate via! Andate via!", urlò qualcuno. "Aspetta!!", urlò Daniel, che anche lui stava nuotando col figlio verso il gommone. "Presto! Prendi mio figlio!", disse il ragazzo a Justin, che lo portò su appena in tempo, aiutato dal mozzo, prima che Daniel fu acchiappato per le gambe da un Megalodonte, che lo tirava verso il basso. Daniel urlava fortissimo, e gli altri dal gommone cercavano in tutti i modi di tenerlo, ma la presa del dinosauro era ovviamente più forte, tanto che, dopo uno schizzo di sangue che travolse i cinque a bordo del gommone, la povera preda fu bruscamente trascinata giù e divorata viva. "Noooo!!", urlò Justin. Anche gli altri gridavano e piangevano, mentre Charlotte teneva stretto il piccolo Christian, per non fargli vedere la scena. "È troppo tardi!", disse il mozzo, tenendo per le spalle Justin, che sembrava volesse buttarsi in mare per salvare l'amico. "C'è un motore! Presto, accendilo!", urlava intanto Charlotte al ragazzo dell'equipaggio, che tirò un paio di volte la corda prima che esso si accendesse. Non ci pensò due volte a schizzare via a tutta velocità per allontanarsi da quella zona. "Aspetta! Dobbiamo salvare gli altri!", urlò Justin, che aveva ancora le lacrime agli occhi. Ma nessuno lo ascoltò. In fondo se fossero rimasti ancora lì a lungo, uno di quei dinosauri avrebbe potuto benissimo far affondare quel gommone e mangiarseli vivi. Quando furono ormai lontani, ebbero il coraggio di guardarsi indietro, ma il panico non era svanito. Quei bestioni nel mare nuotavano velocissimi, e non potevano sapere se uno di loro li stesse seguendo da sott'acqua. "Non rallentare!", disse Charlotte, mentre Justin continuava a fissare il mare dietro di lui, con le gambe conserte e il viso bagnato dalle lacrime. "Non ci penso nemmeno!", rispose il ragazzo che stava puntando verso la terra ferma. "Sarà Fraser Island?", domandò Charlotte. "Non lo so, ma in ogni caso dobbiamo raggiungerla al più presto", rispose l'altro. La risposta giunse subito. Difatti, quando si iniziò a vedere bene la costa, si accorsero di essere arrivati su un'isola piccola e apparentemente disabitata. "Bene... pare che la vostra menzogna non sarà più una menzogna!", disse Joy, il ragazzo sui ventisei/vent'otto anni che guidava il gommone. "Di che parli?", chiese Justin. "Se mai vi salveranno, potrete dire veramente di essere stati su un'isola deserta, senza menzionare la nostra", rispose serio l'altro. Quando raggiunsero la riva, che era tutta completamente scogliosa, Charlotte, Margot, Emma, Justin e Christian scesero in acqua, facendo attenzione a dove appoggiavano i piedi e raggiunsero piano la riva, scavalcando scogli scivolosi di muschio e sassi. "Vado a prendere i vostri amici... e li riporto qui", disse poi Joy. "D'accordo amico, fa attenzione!", rispose Justin. E così Joy rimise in moto il motore a scoppio, posizionato nel retro del gommone, e ripartì verso il centro dell'oceano per vedere se fosse riuscito a trovare qualcuno. I cinque, esausti, si buttarono sulla spiaggia, composta da terra e sassolini, e rimasero lì per qualche minuto a fissare il cielo.
Si fece sera. Era già quasi buio e Joy ancora non tornava. "Dov'è il mio papà?", chiese Christian con la sua vocina sottile. Justin e Charlotte si guardarono e poi la signora disse al piccolo: "Tranquillo, Joy è andato a riprenderlo. È ancora in mezzo al mare, ma sta bene! Ora cerca di dormire, d'accordo?". Era brava a tranquillizzare i bambini, ma con Christian forse era più facile, visto che lui era presente fisicamente, ma non aveva la minima concezione di cosa fosse la vita reale. Era sempre silenzioso e non aveva espressioni di felicità o di tristezza, nemmeno ora che aveva perso il padre. Solo di recente stava iniziando a parlare, spiaccicando qualche frase ogni tanto. Spesso Margot giocava con lui e gli stava un po' dietro. Perlomeno, quel bambino era tranquillo, e non dovevano impazzire per tenerlo a bada. Anche Margot si stava facendo più coraggiosa di carattere. I primi tempi che era sull'isola, aveva paura di tutto e frignava sempre. Poi piano piano incominciò a rendersi conto della situazione e ad abituarsi a catastrofi o attacchi di mostri che volevano sbranarla. Questo la rese più forte, in parte. Ciò nonostante, ora era anche lei terrorizzata per quanto successo qualche ora prima in mezzo al mare.
EPISODIO 23 - IL PARCO HA APERTO!
"Aspetta! Fermati! Scusa...", disse Justin. "Che c'è?", rispose il ragazzo sdraiato affianco a lui nel letto - "Non posso continuare... mi dispiace" - "Ma perché? Che ti prende?" - "Sono fidanzato e... non me la sento. Scusa, niente di personale". Non era la prima volta che Justin tradiva David. Forse lo faceva a causa del vuoto che sentiva dentro, e che David non riusciva a colmare, oppure, come ogni tanto pensava lui, perché era diventato un mostro senza cuore. Di solito non riusciva a tradire quando si innamorava. Forse non era innamorato. Eppure David l'aveva fatto cambiare. Era l'unico che lo capiva e con cui aveva un rapporto ottimo. Inoltre, rispecchiava perfettamente il suo ragazzo ideale. Aveva tutte le caratteristiche essenziali. Ma allora cos'è che non andava? Le troppe litigate? Tutti litigano... Cos'è che non era scattato?
La sera stessa, Justin si ritirò a casa dal lavoro. Aprì il cancello della sua villetta sul mare, in provincia di Melbourn, e attraversò il giardino. Da quando aveva iniziato a vivere in Australia, aveva cambiato tanti lavori. Ora lavorava in campagna, con un stipendio umile, a raccogliere verdura nei campi. Ognuno si arrangiava come poteva. Emma era tornata negli Stati Uniti, dai suoi genitori, che ovviamente mai si sarebbero aspettati, specialmente dopo 11 anni, di rivedere la figlia che credevano ormai deceduta. David, il ragazzo di Justin, viveva nello stesso paesino e andava all'università, mentre Charlotte e Margot erano tornate a casa. Il piccolo Christian fu prelevato dalle assistenze sociali e fu portato in una comunità dove si sarebbero presi cura di lui. Per giustificare la sua presenza, i supersiti del volo 0023 avevano detto che era sull'isoletta abbandonata insieme a loro, ma che parlava male la loro lingua. Fortunatamente c'erano tanti bambini su quell'aereo, quindi ora lo credevano anche lui un supersite. Ora Justin condivideva la casetta con tre ragazzi italiani, che erano lì anch'essi per lavoro. Jack, Kurt e Claire. Jack, che aveva 22 anni, prima faceva la guardia giurata al suo paese, ma siccome il lavoro era precario, decise di trasferirsi con la fidanzata, Claire, una ragazza di 20 anni diplomata in ragioneria, ma che non riusciva a trovare lavoro nel suo campo. Ora lui guidava i trattori, sempre in campagna (e spesso si incontrava con Justin nei mercati dell'ingrosso), mentre lei faceva la segretaria in un ufficio. Kurt, invece, aveva studiato canto e pianoforte, ma decise di partire anche lui per trovare una vita migliore. Ora, all'età di 21 anni, faceva il cameriere in un ristorante di Melbourn. Fu lui il primo ad arrivare in Australia, un anno e mezzo fa. Poi arrivarono anche i due fidanzatini, nel periodo di natale, e infine Justin, dopo l'estate che passò sull'isola. All'inizio Kurt viveva in una camera, poi per risparmiare trovò due inquilini, per l'appunto Jack e Claire, con i quali si trasferì in questa villetta sul mare. Kurt era un tipo abbastanza riservato, ma nello stesso tempo simpatico e di piacevole compagnia. Jack invece era più un tamarro, ma in gamba e responsabile. La ragazza era dolcissima, educata e carina. Quella sera Kurt stava suonando il pianoforte al piano di sopra. Jack invece accolse con calorosità Justin, che si tolse le scarpe, appoggiò le chiavi e si sedette a tavola. "Che onore trovare pronto", disse. Claire chiamò Kurt, che scese giù e insieme si gustarono una deliziosa spaghettata al sugo. "Mi mancava una mangiata di pasta così!", esclamò Justin. "Eh già... qua non sanno proprio cucinare", rispose scherzando Jack. Quando si fece tardi, dopo che guardarono insieme un film sul mega divano in salotto, Justin e Kurt si trovarono di sopra, in terrazzo, seduti sulle sdraio a guardare il cielo. "Lo sai, questa era proprio la vita che sognavo", disse Justin con un tono leggermente malinconico. Poi continuò: "Se non fossi precipitato con l'aereo, avrei potuto essere qui da giugno dell'anno scorso. Chissà se c'è un senso in tutto questo...". Ovviamente il senso c'era, dato tutto quello che gli accadde sull'isola, ma nessuno poteva saperlo e quindi lui parlava come se non avesse vissuto tutto ciò. Allora Kurt rispose: "A tutto c'è un senso. Forse non era ancora il tuo momento. Però il destino alla fine ti ha condotto qui lo stesso. Posso farti una domanda Justin?" - "Ma certo dimmi pure" - "Non ho mai voluto chiedere perché non sono fatti miei. Ma se hai ricevuto un'immensa somma come risarcimento, dopo lo schianto, perché ora sei qui a fare umili lavori come noi poveri sfigati?" - "Ahaha, beh, perché altrimenti non saprei cosa fare. I soldi finiscono Kurt. Avevo bisogno semplicemente di una vita normale! Capisci?" - "Ovviamente no. Non sono mai sopravvissuto a un incidente aereo! Ahaha", rispose l'amico scherzando.
Smith camminava a passo svelto lungo il parcheggio esterno del padiglione con due caffè bollenti in mano. Quando raggiunse la guardiola all'ingresso principale, il collega che lo aspettava, uscì per accoglierlo e poi prese in mano il suo caffè e lo ringraziò. "Serata tranquilla, è?", chiese Smith al collega. "Già, grazie a proposito..." - "E di cosa?" - "Beh, del caffè ovviamente. Ne avevo bisogno. Qua le ore non passano mai di notte" - "Ma figurati. Beh, si ti capisco. Io invece ne sto approfittando per evitare il maresciallo" - "Oddio, è dentro anche lui?" - "Si, sta girando di pattuglia perché è venuto a vedere le nuove cuffie" - "Ahahah, e perché ti nascondi da lui?" - "Perché almeno nei momenti morti, vorrei starmene un po' tranquillo anch'io. Non vorrei che a quel pazzo gli venisse qualche strana idea in testa. L'altro giorno mi ha costretto ad aiutarlo a costruire una cassetta di legno per mettere i doppioni delle chiavi! Preferisco evitarlo..." - "Beh, si fai bene! Ahahah... E invece che mi dici delle nuove cuffie? Come sono?" - "Fantastiche! Di ultima generazione. Io le ho provate. C'è un auricolare per ascoltare la voce guida, in sette lingue diverse. E nello stesso tempo servono a riparare i timpani dai versi degli animali" - "Grandiose!". Una voce alla radio interruppe la conversazione tra i due colleghi: "Pattuglia ad antincendio padiglione 3!". "Ecco lo sapevo", commentò ironico Smith. Poi rispose alla radio: "Si, in ascolto" - "Si porti al locale vigili per cortesia" - "Ricevuto, arrivo subito". Salutò il collega e scappò via per non farsi attendere troppo, visto che doveva stare dentro al padiglione. Così Alex buttò via il bicchierino di carta del caffè e si risedette dentro al gabbiotto ad ascoltare musica e giocare al pc.
Quel rovente pomeriggio d'estate, Justin era nel mezzo di un campo agricolo a raccogliere il prezzemolo. Si inchinò l'ultima volta per strappare qualche piantina e metterla nell'apposito sacchetto. Poi non ce la fece più. Il sole picchiava troppo forte a quell'ora. Decise di prendersi una piccola pausa e si recò sotto a un gazebo di legno, dove c'era un pozzo, e si sedette a terra all'ombra. Qualche minuto dopo, vedendo arrivare altri operai da lontano, si rialzò, riempì la borraccia e si incamminò nuovamente verso il centro del campo. "Ehy, Justin! C'è una persona che vuole vederti", disse uno di loro. E così il ragazzo si diresse verso la cascina a bordo del suo piccolo trattore. Appena parcheggiato nel piazzale serrato, saltò giù dal motore e si scrollò la polvere di dosso con le mani. Mentre Justin si sfilava i guanti da lavoro, una ragazza si avvicinò a lui. Era vestita tutta di bianco e aveva una strana atmosfera intorno a lei. Era come se la luce la facesse apparire più chiara. Ma ovviamente era solo una sensazione, e Justin non ci fece troppo caso perché aveva gli occhi accecati dal sole. La ragazza, che sembrava avere intorno ai 25 anni, si presentò. "Piacere; Emily", e sorrise allungando la mano a Justin. Quest'ultimo, che non aveva la minima idea di chi fosse, le strinse la mano e si presentò anche lui. Poi chiese: "Ci conosciamo?" - "No, in realtà no. Però viaggiavi sullo stesso aereo di mio padre. È uno di quelli deceduti nello schianto", disse lei. In quel momento arrivò anche David, che era venuto a portare il pranzo a Justin, come tutti i giorni. Quando c'era tanto lavoro, spesso, in campagna, si saltava il pasto di mezzogiorno oppure si rinviava a più tardi. David quando finiva i corsi all'università, raggiungeva sempre il suo ragazzo, e poi tornavano insieme in paese col motorino di Justin. Quest'ultimo, nel trovarsi davanti una parente di qualcuno che viaggiava con lui sul volo 0023, l'anno precedente, si bloccò un attimo, perplesso e nello stesso tempo spaventato all'idea di cosa volesse quella ragazza da lui. Dopo qualche secondo che la fissò con gli occhi sbarrati, disse: "Eh... si, oddio... mi dispiace. Condoglianze a proposito. Ma, in cosa posso esserti utile?" - "Volevo solo sapere se magari lo conoscevi. Sai, avendo volato diverse ore con lui... Magari eravate vicini di posto, oppure...". Justin la interruppe bruscamente, iniziando ad agitarsi e a sudare freddo: "No! Mi dispiace. Non ho parlato con nessuno mentre ero a bordo dell'aereo. Viaggiavo con un amico e non ho avuto modo di conoscere nessun passeggero. Ho passato tutto il tempo a parlare con lui". Lei, nonostante le reazioni di Justin, continuava a mantenere la stessa espressione, fissa sullo sguardo del ragazzo, mettendolo un po' in soggezione, e sorridendo. Aveva un viso molto carino, piuttosto acceso. Non si sarebbe mai detto che quella ragazza fosse in lutto. Non lo dava a vedere. Non sembrava nemmeno triste quando parlava del padre. Justin però, ora era curioso, ma non voleva rischiare di tradirsi nell'indagare su chi fosse quest'uomo. Fortunatamente parlò prima lei: "Ne sei sicuro?", e abbassò lo sguardo leggermente abbattuta. Questa era forse la prima volta che mostrava un segno di dispiacere. Justin voleva tagliare corto e interrompere al più presto quella fantomatica conversazione, così disse con tono di congedo: "Si, mi dispiace. Non posso aiutarti. Ma posso sapere come mi hai trovato?". La ragazza stavolta assunse un'espressione quasi imbruttita, e lo guardò dicendo: "Mi ha detto lui dove trovarti". Justin per un attimo esitò, e poi chiese: "Lui? Lui chi?" - "Mio padre ovviamente" - "... un momento, non capisco. Non era deceduto?". Lo sguardo di Emily si faceva sempre più cattivo, mentre quello di Justin sempre più impaurito. Poi lei continuò: "Certo. È morto sull'isola" - "Isola? Come sai dell'isola?... Voglio dire, lui non l'ha mai raggiunta", Justin si stava impappinando e David se ne accorse, infatti continuava a fissarlo esterrefatto - "Già, proprio così. Io so che stai mentendo" - "Senti. Io non so di cosa tu stia parlando. Ma ora ho da fare! Devo andare...", così fece per andarsene - "Sono ancora vivi. E li avete abbandonati!", disse lei restando ferma dov'era - "Ehy, se tuo padre è morto da chi hai saputo tutte queste cose?" - "Te lo già detto, sei testardo! È stato lui a dirmele. E poi mi ha mandato qui da te" - "... Ma come...?" - "Matteo non vi ha mai parlato di me?". E qui Justin sbiancò letteralmente in faccia. Poi chiese tremando nella voce: "Matteo?" - "Si, Matteo Rossi. Il dottore. Io sono Emily, sua figlia". Con quest'ultima frase Justin rimase senza parole, mentre la ragazza si congedò salendo su un taxi. "Lui ti saluta a proposito. Buona giornata", disse Emily sorridendo. Poi salì in macchina e sparì. Justin rimase letteralmente sconcertato! Non c'era un termine per descrivere cosa provasse in quel momento. Si guardò con David, che anche lui era scioccato e concluse dicendo: "Non l'ho immaginato, vero?". David era l'unico a sapere tutto di cosa successe in quei tre mesi ai passeggeri del volo 0023, precipitato in mare nel giugno 2015, e mai più ritrovato. Ora pareva che la figlia defunta del dott. Rossi fosse venuta a far loro visita. Non poteva essere vero! Non poteva essere reale! Qualche scherzo di cattivo gusto? Pensò Justin...
C'erano uomini, donne, anziani e bambini. Erano in migliaia, i turisti venuti a vedere il parco preistorico aperto da pochi mesi sull'isola. C'erano persone di tutte le età. Non si era mai ne troppo vecchi ne troppo giovani per emozionarsi di fronte a dei veri e propri dinosauri. Vivi e vegeti, che passeggiavano e si nutrivano come in un comune zoo di animali. Solo che questo era speciale. Non c'erano animali normali. Ben si dei dinosauri riportati alla luce dalla Singem, un'equipe di medici che gli resero possibile la vita su un'isola deserta nel mezzo del pacifico. Dopo anni e anni di esperimenti, finalmente erano riusciti a incoronare il loro sogno. Quello di aprire un autentico parco di dinosauri. La gente pagava profumatamente per visitarlo! Gli affari andavano a gonfie vele. Fu la novità del secolo! Venivano milioni di persone da tutto il mondo. Era una cosa a dir poco incredibile. La sicurezza era altissima. C'era l'esercito, assunto direttamente dalla Singem, e dei sistemi di allarme potentissimi. I cancelli erano dotati di corrente elettrica che impediva in maniera assoluta che qualche animale potesse scappare dal proprio recinto. Tutto questo era stato testato e ri-testato milioni di volte, e quando il progetto fu finalmente approvato dalla legge, si potette aprire finalmente il parco. C'erano alberghi, dove la gente poteva alloggiare la notte, numerosi ristoranti, negozi di souvenir e tutti i laboratori dove si poteva assistere alla nascita delle creature in tempo reale. Era tutto perfetto, e finora nulla era andato storto. Gli animali si nutrivano e la gente riusciva a vederli nel pieno delle loro attività odierne, godendosi quei veri e propri spettacoli della natura.
Quel giorno, alla base, andava tutto liscio. Tim, addetto alla sicurezza, passeggiava con alcuni scienziati sulla balconata che si affacciava nell'aerea espositiva, dove c'erano tutte le gabbie con i cuccioli di dinosauri all'interno. I visitatori, scortati dalle guide, giravano per il padiglione, con le loro cuffie indossate, per non farsi stordire dai versi degli animali e per ascoltare la voce guida. Tutto procedeva tranquillamente. "Caffè?", chiese uno scienziato ai suoi colleghi. "Si, perché no?", rispose un altro. Poi si rivolsero a Tim: "Ehy ragazzo. Lo bevi anche tu un caffè?" - "Oh si, grazie. Volentieri". Mentre i quattro scienziati e Tim se ne stavano appoggiati all'affollato bancone del bar all'interno della Struttura, sorseggiando caffè e chiacchierando tra loro, un'allarme iniziò a suonare. A Tim arrivò subito, tramite radio, un codice 14J, ovvero evasione delle reclute (i dinosauri). "Che diavolo succede?", chiese uno scienziato, mentre la gente iniziava ad entrare in panico. "Un 14J" rispose Tim, che iniziò a correre in direzione dell'uscita. Quando arrivò in basso, all'ingresso principale, c'era anche Alex con lui. Stava indicando l'uscita d'emergenza alle persone. Il padiglione era troppo affollato per quel tipo di piano di evacuazione, ma fortunatamente c'era abbastanza personale addetto alla sicurezza per gestire situazioni critiche di quel genere. Tim chiese ad Alex: "Hai fatto aprire le uscite di sicurezza?". "Affermativo!", rispose l'altro, indicando gli altri colleghi lungo tutta il lato del padiglione che invitavano la gente ad uscire il più lentamente possibile dalle U. S. già spalancate, non appena suonò l'allarme. Tutta la massa si concentrò all'interno di una gabbia gigante posta al centro del cortile, posto anch'esso a sua volta al centro dei padiglioni della Struttura. Quando l'ultima persona fu entrata, si attivò una carica elettrica lungo tutte le sbarre della gabbia, a forma di cupola, e poi calò il silenzio. Alcuni uomini della sicurezza sorvegliavano il perimetro, armati di mitra a tranquillanti, caschi e giubbotti anti-morso. Passò una mezzora abbondante prima di capire che il motivo di tale piano di emergenza era dovuto semplicemente a un cucciolo di Triceratopo che era scappato da una gabbia e girava beato per il padiglione. Era persino entrato in un bagno delle donne seminando il panico tra le fanciulle, che se lo ritrovarono dentro. "Una roba del genere... NON DEVE MAI PIU' RIPETERSI! CHIARO???", si infuriò il capo della sicurezza sbattendo il pugno sulla scrivania. I tre uomini davanti a lui tenevano la testa bassa e non avevano scusanti per giustificare un tale incidente. Allora Jhon Evergrand continuò: "Se al posto di un cucciolo indifeso di erbivoro, fosse stato un Veloci Raptor... mi spiegate come diavolo sarebbe potuta andare a finire?!". Jhon era fuori di se. Quando i tre armati uscirono, entrò il capo della Singem, che fu chiamato con urgenza in seguito all'incidente. "Sig. Evergrand. Quando le ho affidato il comando, decisi di prendere una simile decisione, proprio per il fatto che mi sentivo tranquillo che non sarebbe mai potuta succedere una cosa del genere! Si rende conto della gravità del fatto? C'erano duemila persone nel padiglione!". Ora era Jhon a tenere la testa bassa. "Mi dispiace Tenente, non si ripeterà più", disse - "Questo progetto è stato approvato per miracolo. Se si verificano degli episodi di questo tipo, ci fanno chiudere baracca! Quegli avvoltoi non aspettano altro... contavo su di lei Sig. Evergrand. Mi ha deluso, francamente" - "Rimedierò Tenente. Aumenterò i controlli sull'area espositiva, e farò revisionare diverse volte i sistemi elettronici" - "Bene. Mi auguro che con la sua professionalità sarà in grado di rimediare a tale scandalo. Immagino che avremo perso molti clienti oggi! Beh, non fa nulla. L'importante è che non è successo niente" - "Arrivederci Tenente".
EPISODIO 24 - UNA SCOPERTA INQUIETANTE
"Perché lo stai facendo?", chiese disperatamente David a Justin. "Perché devo. Non ho altra scelta", rispose serioso il ragazzo - "Justin, ti prego. Non c'è niente di irreversibile" - "Invece si. Ho rovinato tutto e tu lo sai... non capisco come puoi negarlo dopo tutto quello che ti ho fatto passare" - "Senti, nessuno è perfetto. Tutti noi sbagliamo" - "Io ho sbagliato troppo allora... non so che dirti" - "Justin! Come faccio a convincerti a non partire" - "In nessun modo. Ormai ho già deciso. Mi dispiace" - "Allora vengo con te" - "Che cosa? No, non se ne parla" - "Non ti ho chiesto il permesso. Sono libero anch'io di salire su un aereo. Non puoi impedirmelo" - "Perché lo fai...?" - "Potrei chiederti la stessa cosa...", concluse David. I due si trovavano in aeroporto a Sidney. Justin era partito di notte, di nascosto, ma evidentemente qualcuno aveva fatto una soffiata al suo fidanzato, che venne a sapere dove si trovava e a che ora. Così David trovò Justin poco prima che lui partisse, e ora lo stava implorando di non farlo. Perché se l'avesse fatto, quasi sicuramente, non sarebbe tornato indietro mai più. Justin era convinto che l'unico modo di rimediare a tutti i suoi sbagli, fosse tornare sull'isola. Era certo che laggiù avrebbe trovato un qualche sorta di soluzione. Non sapeva neanche lui però che cosa stesse facendo. Seguiva soltanto il suo istinto. Lo stesso istinto che, un tempo, lo aveva portato via dall'isola, mettendo in salvo alcuni dei suoi compagni. Ora però eccolo lì, pronto a ritornare sui suoi passi. Forse aveva tralasciato qualcosa, forse aveva sbagliato qualcosa. Non lo sapeva. Sapeva solo che in quel momento non c'era cosa più giusta al mondo che tornare indietro.
Quando entrambi i ragazzi si diressero al check-in, Justin riconobbe tra la folla una signora con un viso noto. Era sicuro di averla già vista da qualche parte. Ma certo! Era Charlotte. Ma cosa ci faceva lì? Al suo stesso imbarco... "Charlotte...", le disse avvicinandosi. "Ehy, Justin!", esclamò lei quando lo vide - "Cosa ci fai qui?!" - "Beh, sono venuta in vacanza... con mia figlia", e indicò la bambina che stava aspettando seduta su una panchina, con vicino una valigia, nel salone principale. "Che cosa? Stai portando anche lei?", disse Justin - "... Si, perché non dovrei? È mia figlia! Justin che c'è? Ti vedo strano..." - "Charlotte. Dimmi la verità. Perché sei qui?" - "Oh maledizione. E va bene... mia figlia ha ancora quegli incubi!" - "Gli stessi di cui mi parlavi?" - "Esattamente. L'ho portata da un guaritore. Ero disperata e non trovavo altra soluzione. Era questo il motivo per cui stavo andando in Australia quando siamo precipitati. La stavo portando da un veggente" - "Charlotte ascolta, non puoi salire su quell'aereo!" - "Perché? Ma di che diavolo stai parlando? Justin, mi vuoi dire che ti prende? Sei impazzito?". La gente iniziava ad osservarli. Così Justin tentò di abbassare la tonalità della voce, ma Charlotte continuava a parlare normalmente, facendo sentire a tutti ciò che diceva. "Ascolta Charlotte. Io sto tornando sull'isola", bisbigliò Justin. "Che cosa??!!" , strillò lei - "Shh, parla piano. Sto tornando laggiù" - "E perché mai lo stai facendo? Sei impazzito?" - "Devo ultimare ciò che ho lasciato a metà. Non salire Charlotte, prendi il prossimo aereo. Non permettere che Margot ritorni laggiù" - "Justin. È solo un aereo. Come fai ad essere sicuro che precipiterà, a distanza di un anno, proprio nello stesso punto dell'altra volta? È una cosa assurda. Io credo che tu ti senta solo... Perché non torni in Italia? Torna dalla tua famiglia. Prova a ricominciare da capo" - "Ormai è troppo tardi", disse Justin con gli occhi lucidi. "Non è vero. Non è mai troppo tardi. Forza, fai come ti dico. Ritorna a casa", concluse Charlotte sorridendo. E poi se ne andò, sparendo tra la folla insieme alla figlia, in attesa che il volo AK123 partisse da Sidney.
Quel giorno, sull'isola, il parco era chiuso al pubblico. Era una giornata grigia e piuttosto fresca. Il clima ultimamente stava dando di matto. Nella Struttura, c'era solo la vigilanza e le imprese di pulizia. Tutti gli uomini e gli scienziati che non lavoravano, erano nelle loro stanze nell'albergo. Iniziò a piovere. Jhon chiamò Tim e si fece raggiungere all'esterno. Entrambi indossavano una mantella col cappuccio, per ripararsi dal vento e dalla pioggia. "Ti ricordi quando abbiamo trovato questo posto?", chiese Jhon a Tim. "Si, perfettamente", rispose l'altro - "Credo di sapere perché ultimamente le apparecchiature stanno dando di matto" - "Ah si? E perché? Piove, Jhon! Non potremmo rientrare? Perché mi ha portato qui?" - "Per farti vedere cosa ho trovato", rispose Jhon col sorriso. Al momento pioveva leggero e il vento era svanito. Così i due ex archeologi si addentrarono nella giungla e appena superarono i primi alberi, Jhon si inchinò e sollevò una moquette di erba finta da terra. "Ma che diavolo!?", esclamò Tim. "Già... anch'io reagii così quando la trovai", rispose Jhon sarcastico - "Ma che diavolo è?" - "È quello che dobbiamo scoprire. Gulam, lo scienziato che vi salvò la vita la prima volta, portandovi in quel bunker, che cosa vi aveva detto riguardo la Struttura?" - "Dov'è che vuoi arrivare a parare, Jhon?" - "Lo sai benissimo..." - "Vuoi dire che..?" - "Non lo so ancora. Ma comincio ad avere forti sospetti", concluse Jhon.
Nel frattempo Alex stava passeggiando con Lisbette sulla spiaggia. "Amore, sta per arrivare un temporale. Non credi sia meglio tornare?", disse la ragazza preoccupata, mentre fissava i nuvoloni neri che oscuravano il cielo. "Ehy, è più romantico sotto la pioggia", disse lui. Poi la baciò e iniziò a spogliarla. "Ma che fai, sei impazzito?", disse lei - "Eh dai! Facciamo un bagno!" - "Oddio! Ahaha". I due rimasero con soltanto l'intimo addosso e si tuffarono in mare. L'acqua era tiepida ed era una goduria restare a mollo per un po', lontano dallo stress e dal lavoro. "Amore, inizia a piovere", disse lei - "Tranquilla. Goditi un po' la vita ogni tanto" - "Non c'è da scherzare. È pericoloso restare qui. Avanti usciamo" - "Ah! D'accordo come vuoi...". Quando i due uscirono dall'acqua ormai pioveva a dirotto. Una caratteristica di quell'isola è che il clima cambiava improvvisamente, senza dare il tempo di ripararsi. I due allora, ancora in mutande e con soltanto gli asciugamani avvolti addosso, si portarono sotto a un albero, in attesa che l'acquazzone diminuisse. "Incredibile. La butta giù forte", commentò lui - "Te l'avevo detto io. Sei sempre il solito!", rispose Lisbette con tono provocante e baciò Alex con la lingua. Proprio in quel momento si udì un verso dalla giungla. "Che cos'era?", chiese lei preoccupata - "Mah, sarà qualche uccello" - "Alex, gli uccelli non fanno così" - "Possibile che tu tranquilla non ci stai mai?! Rilassati, sarà il vento che sibila tra gli alberi". Alex fu interrotto proprio da un altro verso, e un altro ancora. Questa volta erano più vicini e perfino più forti. Sembrava il ruggito di qualche predatore che si stava avvicinando. "Non può essere...", balbettò Alex preoccupato, cercando di guardare tra gli alberi. "Forza andiamo via da qui", rispose lei. I due presero lo zaino di Alex, ci buttarono dentro i vestiti in fretta e furia e iniziarono a correre nella giungla. Tra l'altro ora iniziò il vento. Era fortissimo e buttava giù i rami e le foglie dagli alberi, facendoli piegare paurosamente, fino quasi a spezzarsi. Mentre correvano, si trovarono davanti un ragazzo disteso a terra. "Chi sei?", urlò Alex. Poi tirò fuori velocemente la pistola dallo zaino, facendo cadere delle cose a terra, e la puntò contro quel tale. "Voltati lentamente!", disse ancora Alex, tenendo sotto tiro quell'individuo, che si alzò e si girò piano piano con le mani in alto. "Sei Alex?", chiese David basito. "Ma cosa...? Come sai il mio nome!?", rispose Alex. "Sono il ragazzo di Justin. Ricordi?" - "Spiacente ma non so chi diavolo sia, non conosco nessun Justin. Cosa ci fai nella giungla? E soprattutto, chi sei?". David restò senza parole. È incredibile! Il suo amico non si ricordava più di Justin! Quando rientrarono, sempre con l'intruso sotto tiro, Alex e Lisbette dovettero spiegare che cosa ci facevano mezzi nudi e fuori dalla Struttura durante le ore non consentite. "Mi dispiace ma mi rifiuto di crederci!", disse il capo degli scienziati, un uomo sulla cinquantina, vestito in giacca e cravatta. "Dei Velociraptor fuori dai recinti? Questa è la cosa più assurda che abbia mai sentito!", continuò poi. Allora Alex, con tono cordiale rispose: "Io le ho riferito solo cosa ho sentito. Non li ho visti con i miei occhi, ma erano chiaramente dei ruggiti di qualche animale. Poi siamo corsi via per cui...". Fu interrotto dal capo, che disse: "Eravate fuori dalla Struttura durante il coprifuoco. Dovrò riferirlo al comandante. Per quanto riguarda il prigioniero, ce la sbrigheremo noi. Ora potete andare!". E così Alex e Lisbette lasciarono la stanza e tornarono verso i loro dormitori. Questa volta l'avevano combinata grossa.
"Chi è?", chiese James Ford. "Siamo Justin White e David Cline, sig. Ford, vorremmo parlarle riguardo all'isola. James aprì la porta di casa. "Quale isola?", chiese con tono severo. "Sappiamo, da fonti sicure, che lei è stato su una certa isola non segnata dalle mappe e sconosciuta dall'uomo, nell'oceano pacifico, circa dieci anni fa. Beh, volevamo chiederle se si ricorda le coordinate", spiegò Justin - "Non so di cosa diavolo state parlando. Non sono stato in nessun'isola. Avete sbagliato persona!", rispose sempre imbronciato James, che cercò subito di chiudere la porta, ma Justin la fermò con un braccio, e continuò: "La prego sig. Ford. Se può esserci di aiuto, la imploriamo di darci ascolto. Solo cinque minuti, poi la lasceremo in pace!" - "Spiacente. Ma non so veramente di cosa stiate parlando. E io non mi chiamo James!" - "Beh, dalla foto sembra proprio lei invece. Ci risulta che abbia cambiato nome qualche anno fa" - "Come l'avete avuta quella foto?!", e la strappò dalle mani di Justin - "Ce l'ha data una certa Eloise Hawking. Ci ha rintracciato lei" - "Oh signore... entrate!". James, un uomo sui quarantacinque anni, alto, di bell'aspetto e coi capelli biondi e lunghi, si accostò per far passare i due ragazzi, che entrarono così nella sua dimora. Era una casa enorme, e c'era da chiedersi se quell'uomo vivesse da solo oppure no. Almeno per il momento non c'era nessun altro oltre a lui. James li condusse in un salotto, luminoso e pulito, dove li fece poi accomodare su un ampio divano. Prese dalla cucina tre birre e ne offrì un paio ai due ragazzi, che le stapparono contemporaneamente con il sig. Ford. Justin, che era seduto con David, provò a rompere il silenzio parlando per primo: "Sig. Ford. Noi dobbiamo tornare laggiù. Ci può aiutare su come fare per raggiungere l'isola?". James, che era in piedi davanti a loro, buttò giù un sorso di birra e poi rispose, col suo solito tono severo e scocciato: "Prima di tutto, ti ho già detto che non mi chiamo così, quante volte ve lo devo ripetere? E poi, perché mai io dovrei sapere come tornare laggiù? Andatelo a chiedere a lei" - "Lei conosce la signora Hawking!?" - "È la madre di Faraday" - "Faraday?" - "Si... lascia perdere. È la signora che condusse alcuni di noi sull'isola, dopo che se ne erano andati. Mi domando perché non l'abbia fatto anche stavolta" - "Quindi lei è stato veramente sull'isola?" - "Già... ma è successo tanto tempo fa. E non ho intenzione di tornarci! A proposito, perché diavolo volete andare laggiù? Siete impazziti? Non la consiglio a nessuno questa gita turistica", disse ironico - "A quanto ne sappiamo noi, lei il motivo di tornarci ce l'avrebbe eccome! La Hawking ci ha detto che è stato rapito suo figlio. Un certo Aeron..." - "Ora basta! Non so chi vi abbia dato tutte queste informazioni! Ma io non so come aiutarvi. Quindi ora andatevene per favore!" - "Noi sappiamo dov'è suo figlio. E se ci aiuta a tornare sull'isola, potrà finalmente salvarlo" - "Non è mio figlio. E non so dov'è l'isola. Quindi non è un problema mio. Fuori di qua, ora!". Così, per non rischiare di far alterare ulteriormente quell'uomo, i due ragazzi uscirono da casa di Ford, e tornarono sui loro passi, delusi per non aver ottenuto ciò che cercavano. "Secondo te perché non è interessato a ritrovare suo figlio?", chiese David - "Non lo so. È tutto molto strano. Però si vedeva che comunque un po' gli importava. Altrimenti non si sarebbe incazzato così e non ci avrebbe sbattuto fuori" - "Il problema è che ora siamo a punto da capo" - "Già... aspetterò che si calmi un po', e poi tornerò a parlargli" - "Dici davvero?" - "Per forza. Non ho altra scelta. Lei ha detto che lui è l'unico che può aiutarci. Devo convincerlo a farmi dire come si torna su quell'isola".
"Chi sei?", chiese il capo della sicurezza a David. "Ve lo già detto. Ero sull'aereo con Justin White. Nessuno lo conosce? Siamo tornati qui per salvare i suoi amici", rispose il ragazzo spaventato, mentre era legato su una sedia, con due uomini armati dietro di lui. "Non so chi sia questo White, quindi credo che tu abbia sbagliato isola amico. Domani mattina verrai messo su un sottomarino che ti condurrà in Oceania, nel frattempo te ne starai buono nella tua stanza. Se provi a scappare, i miei uomini hanno l'ordine di sparare a vista. Siamo molto severi su chi profana questo luogo", concluse il superiore di Jhon Evergrand, con tono autoritario. Allora David fu scortato in una stanza e fu chiuso dentro. Gli fu dato del cibo, una coperta e dei vestiti puliti, mentre un uomo armato piantonerà l'ingresso tutta la notte per non farlo uscire.
Tim e Jhon si trovavano ancora nella giungla. Finalmente aveva smesso di piovere. "Incredibile... ce n'è un'altra!", disse Tim. "Non parlarne con nessuno. Se è veramente ciò che penso e scoprono che hai sospetti, ti uccideranno" , rispose Jhon - "Ma pensi davvero che...?" - "Ormai non ho più dubbi. Vogliono riattivare il Metal Gear!".
EPISODIO 25 - FUNERALE
Un'allarme iniziò a suonare. Decine di uomini correvano a destra e a sinistra, lungo i corridoi della Struttura. David fu svegliato bruscamente da quel suono stordente che mise in allerta tutta la sicurezza. Poi una voce metallica, dall'altoparlante, iniziò a ripetere diverse volte: "14J, 14J, 14J...". David non capiva che cosa diavolo fosse, ma iniziò a preoccuparsi. La prima cosa che pensò è che magari avevano trovato Justin. "Che diavolo succede?", chiese Alex. "Non lo so, ma penso sia grave", commentò Tim. "Velociraptor. Sono scappati dai recinti. Qualcuno ha manomesso i sistemi di allarme", disse un loro collega che passava lì vicino. "Che cosa?!", esclamò Tim. "E qui scatta il 'te l'avevo detto'!", commentò ironico Alex. Jhon, insieme ad altri cinque uomini, tra cui anche Tim e Alex, fu incaricato di recarsi sul posto a vedere cosa fosse successo. Erano tutti e otto ricoperti di ferraglia. Avevano uno scudo, un casco, e il mitra carico in mano. Camminavano cautamente, tutti dietro a Jhon, che era l'unico a non portare casco e scudo. Poi si arrestò. Toccò con il dito a terra e disse: "Impronte fresche. Quei bastardi sono scappati davvero...". Camminavano tra gli alberi e i cespugli nei pressi dell'enorme recinto in cui venivano tenuti tutti i Raptor, con l'ansia di essere attaccati da un momento all'altro. Ma Jhon sembrava fosse l'unico a non avere paura. Gli altri, a differenza sua, avevano il panico disegnato sul volto. A un certo punto raggiunsero un lato del recinto elettrico. Era alto almeno 15 metri e si estendeva per una sessantina. Formavano un enorme quadrato recintato all'interno della giungla. Lì è dove stavano i Velociraptor. O almeno, dove avrebbero dovuto starci! Infatti c'era un enorme buco sulla recinzione. Le Reclute, in assenza di corrente, erano riusciti a crearsi un varco per scappare fuori. "Figli di puttana", commentò Jhon a voce bassa. "State attenti. Allerta a livello massimo! I bastardi sono qua in giro..: ", disse poi ai suoi uomini.
Quando Jhon comunicò l'accaduto alla centrale operativa, il suo superiore, lo stesso che aveva interrogato David il giorno prima, si infuriò, dicendo: "La domanda è: perché diavolo mancava la corrente?!" - "Non lo so capo. È quello che scoprirò", rispose Jhon dall'altra parte della radio.
Elouise Hawking, una donna sugli ottant'anni, ma portati benissimo, passeggiava arzilla sul lungo mare di Melbourne. Era vestita elegante e dava l'aria di una persona snob. Qui incontrò Justin che camminava con David. "Ehm, scusate. Posso chiedervi un'indicazione?", domandò ai due ragazzi. "Si, mi dica", rispose David - "Stavo cercando un buon posto per mangiare qualcosa. Sapreste darmi un consiglio?" - "Quel bar laggiù fa ottimi menu a mezzogiorno" - "Quello coi tavolini fuori?" - "Si, proprio quello" - "Bene. Andiamo a mangiarci un boccone Justin!", concluse la signora. Justin rimase scioccato. Come faceva a conoscerlo? Elouise si incamminò verso quel bar ristorante e prese posto su un tavolino all'aperto. Justin e David la seguirono. Lei sembrava che sapesse già con certezza che loro due l'avrebbe raggiunta subito. In effetti ora, entrambi i ragazzi, erano curiosi di sapere chi diavolo fosse e come faceva a conoscerli. Una volta che furono seduti tutti e tre, Elouise, con la massima disinvoltura, ordinò da mangiare a un cameriere, mentre gli altri due, invece, rimasero immobili a fissarla, come se avessero scoperto l'America. "Beh, non prendete niente voi?", chiese poi lei con espressione meravigliata. "Mi scusi, ma come sa il mio nome?", domandò Justin incredulo - "Io so tante cose ragazzo mio. Ad esempio so che vuoi tornare sull'isola" - "... Che cosa ha detto!!!???" - "Eh già. So anche dell'isola! Voglio arrivare subito al dunque, perché ho tante commissioni da svolgere oggi. James Ford!", e sbattette un foglio sul tavolo con la foto di un tale. Poi continuò: "Anche lui, come te, è stato su quell'isola qualche anno fa. Trovalo e lui ti aiuterà a tornare indietro" - "Un momento. Io non ho mai detto che voglio tornare laggiù!" - "Posso sapere di cosa diavolo stiamo parlando?", chiese David - "Nulla che ti riguardi", tagliò corto la signora. David, in seguito a quella risposta fredda e poco cortese, rimase a bocca aperta e non disse più niente. Poi Justin continuò: "Senta. Io non so chi è lei e che cosa voglia. Non so nemmeno come sia a conoscenza dell'isola. Ma mai per nessun motivo tornerò laggiù! Ora mi lasci in pace, e lasci in pace pure gli altri. Stiamo cercando di rifarci una vita dopo tutto quello che ci è successo. Come può pensare che io voglia ritornare in quell'inferno?" - "Io credo proprio che tu abbia un buon motivo valido per farlo, invece. Sono ancora vivi... Alex, il tuo migliore amico. Lisbette, Tim, Jhon... vuoi veramente abbandonarli tutti?", disse lei. Justin rimase stupito a sentirli nominare. Poi però, con tono arrogante, le rispose: "Sono tutti morti. Li ho visti con i miei occhi" - "Invece credo proprio di no" - "E come fa ad esserne sicura?" - "Qui abbiamo finito. Tenga la mancia signore", si rivolse poi al cameriere allungandogli una banconota. Lui sorrise e se ne andò. Poi Elouise disse a Justin sorridendo: "Ascolta il tuo cuore. So che ce l'hai e so persino che se scavi in fondo ad esso, capirai da solo qual'è la cosa giusta da fare" - "Mi dispiace. Ha perso tempo", rispose Justin alzandosi dalla sedia. Poi si rivolse a David: "Su, forza amore, andiamo via". E si alzarono entrambi lasciando lì il foglio con tutti i dati di questo James Ford, che pare fosse stato anche lui sull'isola, un tempo. La signora rimase lì a guardarli con l'espressione sorridente, mentre i due scomparivano nella folla. Justin camminava a passo svelto, col terrore disegnato in faccia. "Ehy! Vuoi rallentare?", gli disse il suo ragazzo. "Farai tardi a scuola. Ti accompagno all'autobus", rispose Justin senza guardarlo negli occhi - "Pensi che sia stupido? Di che diavolo stava parlando quella signora?" - "E va bene. Siediti, devo parlarti". Quando Justin raccontò tutta la vera storia, ovvero da quando precipitò con l'aereo a quando venne salvato, David rimase basito, e poi gli chiese perché non gli avesse raccontato subito la verità. Justin rispose che doveva salvaguardare i suoi amici e perfino se stesso. Disse che se avesse raccontato la realtà dei fatti, non sarebbe più stato al sicuro, lui, come pure tutta la gente che lo circondava.
Justin camminava nella giungla. Da quando si risvegliò sull'isola, tra l'altro nello stesso punto della volta precedente, era completamente scosso e stupito. Sapeva già che sarebbe tornato laggiù se avesse preso quell'aereo, ma un conto è la teoria, un conto è vederlo con i proprio occhi! Ora voleva cercare per istinto di raggiungere il mare, per accamparsi magari sulla spiaggia, o comunque cercare un attimino di orientarsi. Però attorno a lui c'era solo fitta vegetazione. Allora iniziò a camminare scegliendo una direzione a caso. Non aveva altro che i suoi vestiti addosso e il cellulare, che gli era rimasto in tasca. Poco dopo si accorse di avere anche il biglietto aereo nell'altra tasca. Indossava un jeans lungo e una camicia nera. Per logica quella doveva essere l'isola Isla, visto che non era distrutta o ricoperta dalla lava. Quindi, se quello che diceva Emma era vero, avrebbe dovuto essere molto più piccola rispetto a quella principale. Mentre camminava alla ricerca della spiaggia, sentì un rumore tra le piante. Il fruscio si fece sempre più vicino. Justin era spaventato. Non aveva dimenticato i terribili volti dei dinosauri che un anno fa continuavano a dargli la caccia. Ne rimase così terrorizzato, che continuava a fare incubi analoghi tuttora, di notte. Spesso si svegliava sudato dalla paura. Sognava di essere ancora sull'isola e di venire attaccato da alcuni di quei mostri. E ora ecco che si ritrovava veramente di nuovo in quel posto. Come se gli incubi fossero stati sogni premonitori di ciò che sarebbe realmente accaduto in un futuro prossimo. Justin rimase pietrificato. C'era un animale dietro a quei cespugli, e stava probabilmente per saltargli addosso. "Ehy ragazzo! Sta giù!", urlò qualcuno. Lui automaticamente si accasciò a terra e subito dopo una raffica di proiettili colpì il Velociraptor che stava per attaccarlo. Che colpo di fortuna! Un uomo allungò la mano al ragazzo, aiutandolo a rialzarsi. Poi disse: "Che incontro fortuito!". Incredibile, era Jhon! "Jhon!", esclamò Justin. "Ecco che ci risiamo", commentò Tim sarcastico. "Tim, Alex! Ci siete anche voi!", gridò Justin ai suoi amici. Ma pare che essi non lo riconoscessero, infatti gli occhi del ragazzo si annebbiarono di colpo e poi svenne.
Quando si risvegliò, era in un letto, in una stanza della Struttura, con una benda sul braccio e una macchiolina di sangue sotto. Dovevano averlo addormentato con un tranquillante, pensò. Ma perché si erano comportati così? Forse stavano fingendo per non farsi scoprire dagli altri soldati. Justin non capiva, ma doveva esserci pure una spiegazione. Non era possibile che si fossero scordati di lui! A meno che...
Justin era in mezzo a una giungla mentre scappava da un Tirex. Alex venne sbranato davanti a lui. Fu inutile piangere e disperarsi, doveva continuare a correre se voleva mettersi in salvo. Una volta seminato il Tirex pensò finalmente di essere al sicuro. Ma ecco che da dietro i cespugli balzarono fuori quattro Velociraptor, pronti a mangiarselo vivo. Quando uno di questi gli balzò addosso, comparve la faccia di Margot che urlava disperata, e poi il buio totale. Justin si svegliò immerso nel sudore. Stava ancora tremando. Non aveva mai fatto un sogno così reale. Era notte fonda ancora. Gli altri tre inquilini probabilmente dormivano tranquilli. Si alzò, andò in bagno a sciacquarsi la faccia e si tolse la maglietta fradicia. Andò in un comò per prenderne un'altra pulita e quando aprì il cassetto comparve il foglio che gli aveva dato Elouise Hawking, mesi prima. "Ma che?!", esclamò. Lo prese in mano e accese una lampada per guardare meglio. James Ford... Come diavolo ci era finito quel foglio là dentro? Non si dava una spiegazione! Però poi rimase qualche istante a riflettere... Forse avrebbe dovuto contattarlo. Giusto per curiosità. Chissà se quella donna aveva ragione?
Quando fu mattino, andò a lavorare come da routine. Prese su il motorino, e si avviò verso i campi. Mentre percorreva una statale nel mezzo della campagna, vide che qualcuno aveva fatto un incidente. C'erano due pattuglie della polizia e un'ambulanza vicino. Una macchina era uscita fuori corsia e si era schiantata. Justin passò oltre. Non aveva tempo, doveva andare a guadagnarsi il pane. A un certo punto squillò qualcosa. Allungò la mano sul cruscotto e vide un messaggio sul telefonino. Era sua madre che gli chiedeva di contattarla subito. Allora Justin deviò e andò a una cabina telefonica, in una stazione di servizio, e le telefonò. A casa non rispondeva, allora provò sul cellulare. Rispose il compagno, Claude. "Sono Justin, c'è mia madre?" - "Non credo sia un buon momento" - "Claude, passamela. Subito!" - "... D'accordo", poi passò il cellulare alla madre, che disse: "Justin, sei tu?" - "Si, mamma. Che succede? Ho letto il messaggio" - "Tua nonna... purtroppo stanotte è mancata. Dovresti venire qua appena possibile, sabato si terrà il funerale. Mi auguro che almeno per lei vorrai essere presente". Tralasciando la frecciatina finale, il mondo gli cadde addosso. Sua nonna, la donna della sua vita, era deceduta e lui non la vedeva da quasi un anno. Fu inevitabile, scoppiò a piangere e si lasciò cadere a terra, con la cornetta ancora in mano. Quando arrivò in Italia, si presentò al funerale. Indossò degli occhiali scuri per non far notare a nessuno il suo sguardo. La gran parte della sua famiglia non la salutò neanche. Non aveva più rapporti confidenziali con nessuno. C'era anche suo padre in mezzo alla folla, non se lo aspettava. Da quando era separato con sua madre non si era mai fatto vivo in mezzo ai parenti materni. Lo salutò. Anche lui aveva gli occhiali da sole. Quando entrarono in chiesa, Justin chiese al prete se poteva dire due parole in onore di sua nonna, e poi salì al microfono. Era molto timido come ragazzo, però quella donna era stata troppo importante per lui, e voleva assolutamente dedicarle un discorso. Tremava nella voce, ma questa volta non per la vergogna, ma per la tristezza. Gli uscì anche qualche lacrima durante il discorso. Disse: "Mia nonna... era forse l'unica persona al mondo che mi capiva. Non sapeva tutto di me e questo mi dispiace. Ma io farò il possibile per non deluderla. Lei avrebbe voluto così. L'ho amata così tanto che, l'altra sera se n'è andata anche una parte di me, via con lei. Addio nonna. Ti amerò per sempre". E qui scoppiò a piangere. Poi scese dall'altare e si rimise a sedere. Terminato tutto, sua madre lo invitò a mangiare a casa sua, ma lui ovviamente rifiutò. Non voleva avere niente a che fare col verme che ci stava insieme. Lei questo lo sapeva, ma tutte le volte ci provava lo stesso. Provarono a convincerlo a tornare in Italia, ma invano. Justin rispondeva a tutti che era finalmente felice ora, e sarebbe rimasto lì dove stava. Quando si recò nuovamente all'aeroporto, per tornare a Sidney, incontrò una ragazza che gli era familiare, ma non ricordava chi fosse. Ci passò semplicemente accanto, guardandola, ma poi proseguì oltre. Un momento! Ora gli era venuto un flash. "Oddio", disse fra se e se. Poi si voltò e lei era sparita. Impossibile, era lì un secondo fa! Però Justin non era stupito, perché pensava di averla riconosciuta. Si, non aveva dubbi. Era Emily, la figlia del Dott. Rossi!
EPISODIO 26 = AK123
"Amico, un altro giro per favore", disse Justin al cameriere. Era seduto al bancone di un tenebroso locale australiano nel mezzo del nulla, di fronte al mare, in una sera cupa e tiepida, come la maggior parte di tutte le altre. Ormai aveva perso la cognizione del tempo. Probabilmente si era fatto tardi. Anche perché non c'era quasi più nessuno nel bar, se non qualche vecchio ubriacone tutto trasandato che marciva in qualche tavolino negli angoli più remoti del locale, e il marocchino che lavava il pavimento, scavalcando residui umani o bevande rovesciate. Un vecchio, meno trasandato degli altri, si sedette vicino a Justin. Ordinò anche lui lo stesso liquore, come se volesse attaccare bottone. "Problemi di cuore?", disse poi. Justin, che si accorse che parlava con lui, sollevò la testa dal braccio e si girò verso il signore, deglutì e rispose con tono spento: "Che cosa glielo fa pensare?" - "Beh, un giovane come te, rinchiuso in questo catorcio... Dovresti essere in qualche discoteca a ballare e a dare la caccia a centinaia di ragazze a quest'ora, non credi?" - "Ahah, già. Probabilmente..." - "Cosa ti ha condotto in questo lerciume umano?", chiese ancora il signore, mentre si fece versare dell'altro rum - "Versane un po' anche a me, grazie. Beh, oggi ho perso il lavoro. Continuo a vedere persone morte ovunque, è appena deceduta perfino mia nonna e... credo che dovrei fare un passo importante nella mia vita, ma temo di non avere il coraggio" - "Un passo importante di che tipo?" - "Lasciare tutto. Partire..." - "Credi che facendolo otterrai qualcosa?" - "Non ho più nulla da perdere, quindi si" - "Allora cosa aspetti? Parti!" - "Non è così facile. Ci vuole coraggio... e non ne ho" - "Ragazzo, quando avevo si e no vent'anni, appena finito il militare, dovetti lasciare il mio paese natale. Mia madre, i miei fratelli... partii da solo e riuscii dopo innumerevoli sacrifici a costruirmi qualcosa. Feci tutto da solo. Tu che cos'hai di diverso da me? Credo che respiri dal naso, hai due braccia, due gambe, sai parlare..." - "Ahah.. beh si, ha ragione. Ma il posto dove devo andare... beh, diciamo che è molto particolare... e difficile da raggiungere" - "Siamo in Australia. Il posto più vicino all'inferno di tutto il mondo. Se sei arrivato quaggiù, e perfino in questa baracca... puoi arrivare ovunque, non credi? Ahah, buona continuazione ragazzo. E credi di più in te stesso. Nessuno lo farà al posto tuo". Il vecchio diede una pacca sulla spalla di Justin, che sorrise, poi si alzò e se ne andò. Justin rimase qualche secondo a fissarlo, mentre usciva dal locale e spariva nell'oscurità. Non sapeva nemmeno lui quanto tempo era trascorso. Ma venne svegliato di soprassalto dal cameriere, che stava passando lo straccio sul bancone e gli disse: "Svegliati amico, dobbiamo chiudere". Allora Justin, con uno sforzo si sollevò da quello sgabello, urtando col gomito il bicchiere di vetro, nel quale c'erano ancora un paio di dita di cocktail, e si trascinò a forza fuori dal locale. Appena uscì si rese conto che era notte fonda e piano piano si diresse verso la strada sul lungo mare, dove aveva lasciato il motorino parcheggiato da qualche parte. O almeno così si ricordava. Non prendeva una sbronza simile dagli anni dell'adolescenza. Si era perfino addormentato sul bancone del bar! Che figura di merda, pensò. Una voce lo distrasse: "Justin!". Lui si girò, anche se non percepì da che parte venisse la voce, e rispose spiaccicando le parole: "Chi è?". "Sono Mike. Come stai ragazzo?", rispose un giovane che apparve dal buio. Proprio come Emily, quando fece visita a Justin in campagna, anch'egli aveva una strana luce su tutto il corpo. Però Justin pensò che fosse l'ubriachezza a fargli vedere cose strane, così rispose, sempre con la bocca impastata a causa dell'alcool: "Zio?" - "Già, proprio io. Lo sai, mi fa pena vederti così..." - "Cosa ci fai qui?? Come hai fatto a...?" - "Siediti. Dobbiamo parlare". Alla velocità della luce, Mike si trovò seduto sul muretto che divideva la strada dalla spiaggia, dall'altro lato del lungo mare. Justin rimase basito ma, sempre zoppicando, attraversò la strada e si sedette vicino a lui. Mike lo osservò durante tutti i suoi movimenti. Poi continuò a parlare con tono abbastanza severo: "Che cosa ci fai qui?" - "Sono venuto a bere qualcosa. Poi mi è scivolata di mano la situazione. Tu piuttosto, come fai ad essere qui?" - "Ah! Sentiti come parli. Sei proprio ubriaco marcio" - "Ma no, non è niente... non preoccuparti. Come mi hai trovato zio?" - "Io ti osservo fin da quando sei nato. Ora sono venuto a darti qualche dritta. Visto che per l'ennesima volta hai smarrito la retta via" - "Sono proprio un disastro lo so" - "No, non abbatterti. Non sono venuto qui a giudicarti. Anzi, ad aiutarti e darti coraggio. In fondo se pensi alla fine che ho fatto io, non c'è nemmeno paragone" - "Ahah, già... Come fai ad essere qui? Nel senso, tu sei morto... perché sto parlando con te ora?" - "Perché sono bloccato. Per quello che ho fatto. E quando ti avrò aiutato, forse potrò andare avanti anch'io" - "Pensavo fossi imprigionato sull'isola..." - "Beh, dove sto io non esiste un 'dove'... capisci?" - "Fantastico. Sai, speravo di incontrarti ancora... ma perché io riesco a vederti? Non mi risulta di essere mai stato sensitivo" - "Beh, probabilmente perché sei molto vicino alla fine Justin" - "La fine? La fine di cosa?" - "Non posso dirti altro. Posso solo dirti che... se pensi che una cosa sia giusta, allora dovresti farla! Smettila di darti dei limiti. Sei vivo! E quindi hai diritto di fare tutto ciò che ti senti. Nessuno potrà mai dirti quello che devi fare, nemmeno io! Sei libero! Ora devo andare, ma... spero che ci rivedremo presto. Arrivederci nipotino" - "Zio...". Fu inutile. Detta l'ultima frase, Mike sparì. Justin non se ne accorse nemmeno. Gli girava talmente tanto la testa, che spesso gli occhi gli si annebbiavano. Fu così che quando si voltò per rispondere a suo zio, egli era già scomparso. Ora doveva trovare le forze di alzarsi, prendere il motorino e tornare a casa senza ammazzarsi. Se solo si fosse ricordato dove diavolo l'aveva parcheggiato...
Justin fu spostato dall'infermeria, ad una delle stanze d'albergo. "Justin?!", esclamò qualcuno appena lo spinsero dentro la camera e richiusero la porta subito alle sue spalle. Justin alzò il viso e poi gridò: "David! Non ci posso credere!". I due si abbracciarono, contenti di rivedersi. Era da quando stavano sull'aereo che non si vedettero più. Ora si ritrovarono entrambi lì, prigionieri nella stessa stanza. David chiese a Justin come mai i suoi amici non lo riconoscevano e lui rispose che non ne aveva la minima idea. "Dobbiamo trovare un modo per uscire da qua", disse Justin - "È inutile... ci ho già provato. Siamo chiusi dentro, e perlopiù ci sorvegliano!". Era sera ormai, quindi probabilmente avrebbero dovuto aspettare fino al giorno dopo per avere qualche notizia riguardo al loro destino. Justin provò a baciare David, ma lui si allontanò, dicendo che non era il caso, e che anche se l'altra sera erano finiti a letto, cedendo alla tentazione, questo non significava che avevano fatto pace. Justin non la prese di certo bene, ma in fondo approvò. I loro problemi persistevano tuttora, e non era con un bacio o con una sveltina che si sarebbero risolti. Quindi forse era giusto così. A un certo punto si aprì una fessura dalla porta e qualcuno lasciò cadere dentro la stanza un sacchetto sigillato. "Che diavolo è?!", chiese Justin - "È la cena. Tranquillo". Non era di certo un banchetto ricco di proteine, ma almeno potettero stuzzicare due tramezzini con tonno e pomodoro. C'era inoltre una bottiglietta d'acqua da mezzo litro, che si sarebbero divisi in due. Entrambi erano esausti, e non appena si stesero sul letto, si addormentarono abbracciati. La mattina dopo un altro allarme li svegliò bruscamente. "Collasso di sistema! Collasso di sistema! ...", continuava a ripetere una voce all'altoparlante. "Che diavolo succede?", disse David con la voce rauca del sonno. La risposta arrivò subito. La porta si spalancò e degli uomini armati si precipitarono dentro. Justin e David furono praticamente ribaltati giù dal letto e trascinati via con la forza. Era inutile continuare a chiedere cosa stesse succedendo, nessuno rispondeva. Correvano tutti come se fosse accaduto qualcosa di grave, infatti le sirene rosse lungo il corridoio continuavano a lampeggiare, e l'altoparlante continuava a ripetere: "Collasso di sistema!". Quando lasciarono la Struttura, si recarono sulle Jeep marchiate Singem, e si diressero verso la giungla. Ci saranno state circa una trentina di macchine e pulmini, carichi di uomini e materiale, in evacuazione dalla Struttura. Stava succedendo qualcosa, ma non si capiva ancora bene cosa! David e Justin furono legati con le mani dietro la schiena, ed erano costantemente sorvegliati. Pochi minuti dopo arrivarono a un bunker gigante. Justin non l'aveva mai visto prima. Probabilmente l'avevano costruito in seguito alla sua fuga dall'isola. Abbandonate le Jeep nello spiazzo serrato, che divideva la giungla dalla costruzione, si precipitarono tutti all'interno, facendo aprire una serranda grande quanto un garage, con un tasto di un telecomando, che aveva in mano uno dei soldati. Ora erano tutti dentro. Il Bunker si era illuminato e c'erano sedie e scaffali lungo tutte le pareti. I due prigionieri furono messi in un angolo, legati alle sedie. "Cosa ne facciamo di loro? Il sottomarino tarderà a venire" - "Qualcuno mi spiega cosa diavolo è successo?" - "Non lo so. Abbiamo perso i contatti. Siamo momentaneamente isolati" - "Qualcuno ha manomesso il sistema elettronico!", si dicevano tra loro gli armati. Jhon però li interruppe: "Si sbaglia! Non è stato uno di noi" - "Che cosa vuoi dire, Evergrand? Chi è stato allora?" - "Nessuno. Io, credo che si sia attivato il Metal Gear" - "Che cosa??? Come sa lui del Metal Gear? Chi gliene ha parlato?!" - "Nessuno. Lo scoprii da solo tempo fa, prima di unirmi a voi" - "La cancellazione della memoria avrebbe dovuto eliminare tutti i ricordi" - "Beh, con me non ha funzionato. E non è la prima volta che ci provate..." - "Arrestatelo!" - "Un momento. Signori siamo tutti sulla stessa barca! Posso aiutarvi" - "Spiacente generale Evergrand. Queste sono informazioni riservate. A meno che non avremo notizie del sottomarino, verrà fucilato domattina insieme ai prigionieri" - "Che cosa?!!! No! Aspettate!" - "Legatelo e chiudetelo nella stanza 23! Chiudeteci anche i due ragazzini". Così i tre prigionieri si ritrovarono ancora isolati in una stanza, in attesa di una decisione da parte dei soldati, riguardo il loro destino. "Piccolo il mondo, eh Jhon?", disse Justin all'ex archeologo - "Come fai a conoscermi?" - "La domanda è: come fai TU a non riconoscermi? Eravamo sullo stesso volo. Il 0023 Pechino - Sidney. Siamo precipitati qui un anno fa. Cosa ti hanno fatto quegli uomini Jhon?" - "No. Non esiste nessun volo 0023. È solo la mia immaginazione! E voi state cercando di confondermi!" -. "Non è la tua immaginazione Jhon. Ero su quell'aereo anch'io" - "Fai silenzio! Io non ti conosco! Lasciami in pace!", rispose Jhon alterato. "Che gli prende al tuo amico?", chiese allora David a Justin - "Non lo so... ma non mi piace questa storia".
Quando venne il mattino, Justin si risvegliò sdraiato sul muretto del lungo mare, e fu il primo raggio del sole mattutino a svegliarlo. Appena si alzò, forse troppo velocemente, la testa iniziò a girargli, che quasi perse l'equilibrio. Scorse il motorino caduto su un fianco, in mezzo ai cespugli, fuori dal locale, e lo raggiunse. Lo tirò su, mise in moto e si diresse verso casa sua. Per quanto la serata precedente lo avesse rintontito, ora si stava godendo il venticello fresco sul viso, mentre percorreva la statale che portava al suo paesino. Era una sensazione piacevole, e inoltre gli faceva alleviare il mal di testa. Non ricordava con precisione se l'incontro di quella notte fosse stato reale oppure era solo un sogno, ma Mike lo aveva convinto. Doveva tornare sull'isola! Arrivò a casa, tirò fuori nuovamente quel foglio con i dati di James Ford e contattò subito David, col quale aveva litigato il giorno prima. "David per favore ascoltami! Non mettere giù!", disse Justin per telefono - "Che c'è? Sono all'università" - "Senti, mi dispiace per ieri e non ho scusanti per quello che ho fatto... ma ho bisogno che tu mi accompagni in un posto. È importante, devo parlare assolutamente con una persona" - "Che diavolo stai combinando Justin? Sei strano ultimamente" - "Lo so, dopo ti spiego tutto". James Ford abitava a Los Angeles. Quindi raggiungerlo sarebbe stato piuttosto impegnativo e costoso. Ma Justin sentiva che doveva farlo, e così convinse David a venire con lui. Dopo il primo rifiuto di Ford, David era tornato all'albergo, quello dove alloggiava con Justin per quella notte. Quest'ultimo, invece, aveva deciso di provare ad aspettare sera, per bussare nuovamente alla porta di James, col tentativo disperato di convincerlo ad ascoltarlo. Così fece. "Che diavolo vuoi ancora?", disse Ford - "Signore, lo so che posso sembrare ossessivo. Ma almeno cerchi di aiutarmi, la prego. Sono disperato" - "Entra". I due si sedettero nuovamente in salotto e si aprirono due birre. "Lascia che ti presenti la signora Austin", disse James con tono scocciato. Una donna sui trentacinque anni arrivò nella stanza con un'espressione disperata in volto. "Sei tu Justin?", disse lei - "Si. Chi è lei?" - "Ero anch'io sull'isola. Senti, hanno rapito mio figlio! E credo che l'abbiano portato laggiù, proprio sull'isola. So che voi volete tornare la... Sto cercando di convincere Sawyer a partire con noi" - "Chi è Sawyer?" - "È lui", disse Kate indicando James - "Usate nomi in codice?" - "Non ha importanza ora! Senti, l'ultima volta che sono tornata laggiù, siamo riusciti a raggiungere l'isola perché eravamo tutti insieme. Penso che dovremmo fare così anche questa volta... Dobbiamo partire insieme" - "Beh... D'accordo, ma come facciamo?" - "Ieri è venuta da me Elouise Hawking" - "Un momento... come??" - "Proprio così. Lei è l'unica che sa come farci tornare laggiù... Mi ha dato questi biglietti aerei. È il volo AK123, da Sidney a Tokyo. Dice che se saliremo su quell'aereo torneremo sull'isola". Kate Austin e James Ford non si parlavano ormai da anni. Da quando scapparono dall'isola, le loro strade si erano divise. Claire Littleton, la madre biologica del piccolo Aeron, era stata rinchiusa in una comunità insieme al figlio. Quando però iniziò a dare di matto, il bambino le fu tolto e fu affidato nuovamente a Kate Austin, che tuttavia veniva seguita costantemente da degli assistenti sociali, a causa dei suoi precedenti. Ora Aeron era stato rapito, e Kate era convinta che l'avessero riportato sull'isola. Quando Justin, così come James, le chiese come faceva ad esserne tanto sicura, lei rispose che in un incubo, aveva sognato l'isola e Aeron che scappava da un mostro di fumo. James era piuttosto scettico, visto che si trattava solo di un sogno. Ma Kate era forse l'unica persona al mondo che riusciva un po' a persuaderlo, infatti si presentò a casa sua e gli raccontò tutto piangendo. Lui non si aspettava niente di tutto ciò e rispose che non erano più fatti suoi. Ma lei lo accusò di egoismo, visto che lui tempo fa si rifiutò di crescere Aeron insieme a Kate. Ma infondo quell'uomo non aveva tutti i torti, James era innamorato ancora di un'altra donna che perse poco tempo prima sull'isola. Come poteva mettersi subito a fare il genitore con un'altra persona? Sarebbe stato ridicolo.. Cosi i due si divisero, ma ora eccoli di nuovo riuniti a discutere su ciò che dovevano fare. E la causa era l'isola! Sempre quella maledetta isola! Pensavano ormai di essersi lasciati alle spalle quel brutto incubo, ma a quanto pare l'isola non aveva finito con loro...
Quando Justin rientrò in hotel era ormai notte. Non c'era più nessuno, se non il custode notturno e una donna che lavava il pavimento dell'atrio principale, a pianoterra. Prima di salire sull'ascensore, Justin, si fermò al bancone del self service per bere un goccio d'acqua. Dal riflesso del vetro però intravide una sagoma muoversi dietro di lui! Si voltò di scatto, ma non c'era nessuno. Doveva essere uno scherzo della stanchezza pensò... Finì di bere dal bicchiere, lo appoggiò e si girò spensierato per recarsi agli ascensori. Stavolta però, si trovò di fronte una ragazza, a pochi passi da lui, immobile, che lo fissava! Justin gridò dallo spavento e rimase pietrificato a guardarla. Era Emily, ma stavolta aveva un aspetto diverso. I capelli le coprivano il volto, e quel poco che si vedeva era piuttosto pallido e spettrale. Inoltre non aveva più quella strana luce addosso che trasmetteva serenità, anzi era proprio il contrario. Quella sagoma metteva paura! "C.. Cosa vuoi?", chiese Justin spaventato, spiaccicando le parole. Lei parlò in una strana lingua, che ricordava molto quella degli indigeni sull'isola. Justin la guardò basito. Poi un flash lo abbaiò di colpo e la ragazza scomparve sotto ai suoi occhi. Justin la cercò per l'atrio, ma c'era solo la donna delle pulizie in giro. "Mi scusi, ha visto una ragazza?", le chiese. Lei negò e quindi Justin si mise a cercarla disperatamente per tutto il pianoterra, incuriosendo la donna delle pulizie, che lo guardava esterrefatta. Non poteva essersi dileguata! Era lì! Lui l'aveva vista, ne era sicuro! Non trovandola, salì per le scale di corsa. Quando raggiunse la stanza di David al secondo piano, bussò e si fece aprire. Si precipitò in stanza e raccontò tutto al ragazzo. Poi verso la fine del racconto scoppiò a piangere, non ce la faceva più! Gli stava scivolando tutto addosso! Aveva persino perso il lavoro a causa di un litigio col suo capo. David, che era ancora arrabbiato con Justin per l'ennesimo tradimento, lo abbracciò e lo strinse a se, con stupore dell'altro, che però non esito a ricambiare l'abbraccio. Quando Justin si calmò, sollevò il viso ricoperto di lacrime e David lo baciò. Fu un bacio lungo e appassionato, tanto che i due finirono a letto a fare l'amore, e si addormentarono nudi e abbracciati. Il mattino dopo un cellulare suonò e fece svegliare di soprassalto i due ragazzi. "Merda! Perderemo l'aereo!", esclamò Justin. David rispose al telefono. La linea era molto disturbata e si sentiva ben poco, ma c'era una voce metallica che, secondo lui, continuava a ripetere: "La morte ti attende!". Pochi istanti dopo la telefonata si chiuse da sola ed entrambi rimasero scioccati. Tra l'altro era un numero privato ad avergli telefonato. Ma ora non aveva importanza. Erano le 7:30 e l'aereo per Sidney sarebbe partito solo due ore dopo! Dovevano muoversi. Veloci come delle saette, si lavarono e vestirono e poi si diressero fuori dall'albergo ad aspettare il taxi. Arrivarono in tempo all'aeroporto ma non videro ne James, ne Kate. L'aereo AK123, quello che avrebbe dovuto condurre i supersiti nuovamente sull'isola, era in partenza due giorni dopo. Quindi Justin doveva muoversi a tornare in Australia e soprattutto a prendere una decisione definitiva. Il tempo stringeva...
EPISODIO 27 - VIAGGIO DI RITORNO
La scala mobile si avvicinò allo sportello dell'aereo. I primi passeggeri, appena scesi dal pulmino, potettero finalmente salirci a bordo. Justin, con soltanto uno zainetto in spalla, era uno di loro. Con lui c'era persino David, a pochi passeggeri dietro di lui. I due non si parlavano, nonostante due sere prima finirono a letto insieme. Era stato solo uno sfogo per tutto ciò che stavano passando. La crisi tra loro tuttavia restava. Justin si era convinto che partendo e ritornando sull'isola, avrebbe avuto modo di aggiustare le cose. David non la pensava come lui, ma vista la determinazione del fidanzato, decise di seguirlo in quel viaggio assurdo. Appena presero posto, Justin vide anche Kate e James a qualche fila dietro di lui, dall'altro lato dell'aereo. Gli scappò un sorriso, ma non li salutò. Era tutto perfetto così. Non voleva rischiare che i due cambiassero idea, anche se ormai ovviamente era troppo tardi. Mancavano solo Charlotte e Margot all'appello. Per quanto riguardava loro, Justin era contento di non vederle. Ma presto tale sollievo terminò. Infatti furono proprio le ultime due a salire. Si sedettero nello scompartimento davanti a lui, lo stesso dove c'era l'ingresso. Beh, o la va o la spacca, pensò Justin. In qualunque modo andrà a finire questa storia, pare che il destino li riunirà ancora tutti insieme. L'aereo decollò. David sedeva nella corsia centrale, affianco alla sua, mentre Justin era dalla parte sinistra vicino al finestrino, proprio come sul volo 0023. Sembrava avesse fatto l'abbonamento per quel sedile lì. Allacciate le cinture, i due ragazzi si scambiarono involontariamente un breve sguardo, e ad entrambi si illuminarono leggermente gli occhi. Stavano andando a morire insieme. Questo era comunque commovente, dato tutto quello che c'era stato prima. Ogni tanto Justin provava a sbirciare davanti, sperando di vedere David fare lo stesso. Ma niente. Lui non si voltava e non veniva nemmeno da lui. La convinzione di averlo perso si incrementava sempre di più. Quattro ore dopo successe qualcosa di strano. La gente continuava a chiacchierare o a camminare per i corridoi, ma sia per Justin che per David, era come se qualcuno avesse schiacciato il muto. Le persone gesticolavano ma non emettevano nessun suono. C'era il silenzio assoluto. I due ragazzi si guardarono basiti e subito dopo una luce potentissima travolse il velivolo. Questa volta però non precipitò. Furono solo i sei interessati a ritrovarsi sull'isola, come se si fosse aperta una porta solo per loro. Finito il bagliore, ognuno si risvegliò nello stesso punto in cui arrivò la prima volta che misero piede in quel luogo. Justin sdraiato nella giungla, James sulla spiaggia, Kate in un laghetto all'interno dell'isola, Charlotte e Margot in acqua e David, che era l'unico ad arrivare sull'isola per la prima volta, si ritrovò anche lui nella giungla, sdraiato a pancia in giù. Quest'ultimo verrà poi trovato da Alex e Lisbette, mentre il suo ragazzo dalla squadra di soldati il giorno dopo. Però successe un'altra cosa strana. In seguito al bagliore di luce, pare che ognuno di loro arrivò sull'isola in momenti diversi. Justin, addirittura, un intera giornata dopo rispetto a David. Infatti quando fu trovato da Jhon, Tim e Alex, lui si era svegliato nella giungla solo da poche ore. Quell'isola doveva spostarsi nel tempo probabilmente, o qualcosa di simile. Ma ora non aveva più importanza. Sia Justin che David si erano ritrovati e ora stavano rinchiusi con Jhon Evergrand, prigionieri dei nuovi abitanti dell'isola. "Jhon, ci vuoi spiegare che cos'è successo?", continuava a chiedere Justin all'archeologo. Ma lui non capiva. Era come se avesse cancellato dalla mente tutto ciò che era successo nei famosi tre mesi passati lì come naufraghi.
L'alba arrivò in fretta. I tre furono portati fuori e messi in ginocchio a terra, sempre con le mani legate dietro alla schiena. "State facendo uno sbaglio"; disse Jhon al suo comandante. "Spiacente Evergrand, ma non abbiamo notizie del sottomarino. Siamo costretti ad eliminarvi. Sei accusato di tradimento e infiltrazione nemica. Per questo verrai giustiziato", rispose il suo ex capo - "Assurdo..." - "Su, forza. Sparategli". Tre uomini con i fucili in mano, si avvicinarono da dietro. Ognuno alle spalle di un prigioniero. Quando sentì inserirsi il caricatore, Justin guardò David piangendo e gli disse di amarlo, e gli chiese scusa per tutto quello che gli aveva fatto passare. "Non preoccuparti Justin... Ti amo anch'io!", rispose disperato David. All'improvviso, però, un ruggito allucinante fermò tutti quanti, che si guardarono attorno. "Oh merda! Forza, che aspettate? Volete spararmi o no?", disse Jhon sarcastico. Eh si, stava proprio arrivando la Recluta! I ruggiti continuavano a farsi più frequenti e il terreno cominciava a traballare. "Oh santi numi! Mi mancava questa...", commentò anche Justin. "Che diavolo è?", chiese terrorizzato David. "Ma che diavolo di posto è questo??!!"; disse ancora. "Ora cominci a renderti conto di cosa intendevo per 'speciale', quando descrivevo quest'isola?", rispose Justin ironico. La Recluta arrivò. Balzò sul tetto del bunker spezzandolo a metà. Era più furiosa che mai. "Oh andiamo, stai calma piccola...", balbettò Jhon. Tutti iniziarono a scappare, tranne i tre prigionieri che rimasero lì inginocchiati. Non sapevano se era peggio essere sparati in testa o venire sbranati da un dinosauro. Almeno con un proiettile sarebbero morti subito senza soffrire! Si alzarono anche loro, e iniziarono a correre verso gli alberi più vicini. La Recluta nel frattempo cominciò a sbranare chiunque incontrasse per la strada. Era più affamata e scatenata che mai! "Tim! Da questa parte!", urlò Jhon. E così Jhon, Tim, Justin, David e il superiore di Jhon, il colonnello Royd, si trovarono nascosti dietro un enorme cespuglio ad osservare il mostro che dava la caccia agli altri uomini. Appena se ne fu andata, i cinque tirarono un sospiro di sollievo. Tim slegò Jhon, che colpì subito il colonnello con un pugno. "Jhon ti prego! Fermati! Siamo amici!", disse Royd disteso a terra - "Ah, adesso siamo amici, è? Quando ti fa comodo...", rispose l'archeologo sopra di lui, pronto a colpirlo un'altra volta, mentre con una mano lo teneva per la divisa, all'altezza del petto. Gli altri rimasero immobili a guardare. "Lui lo portiamo con noi!", disse infine Jhon. Lo sollevò di forza, gli rubò l'arma e lo fece camminare davanti a lui, puntandogliela contro. "Mani sopra la testa e cammina, figlio di puttana", gli urlò poi. Tim intervenne timidamente: "Jhon, cosa vuoi fare?" - "Torniamo alla Struttura. È l'unico posto sicuro" - "Non è più sicuro Jhon! I cancelli sono stati privati di corrente elettrica. Gli animali sono liberi!" - "Non ho paura di quattro porcellini un po' troppo cresciuti! Il pericolo vero è qui, in mezzo alla giungla. Ti ricordo che ci sono ancora i Raptor che girovagano per l'isola" - "Cosa ne facciamo di loro?", chiese poi Tim indicando i due neoarrivati - "Non mi interessa onestamente. Io e te ce ne torniamo alla Struttura in attesa del sottomarino. Poi quando arriverà, ci armeremo e lo raggiungeremo al molo. Nel frattempo ce ne staremo al sicuro". Justin e David decisero di seguirli per recuperare delle armi e magari trovare del cibo. E così, una volta liberati i polsi, tutti e cinque si incamminarono verso la Struttura.
Dopo un'ora di cammino passata praticamente in silenzio, Justin finalmente chiese ai due ex compagni del volo 0023: "Ma cos'è successo all'isola? Non era sprofondata?". "Che cosa hai detto? Come fanno saperlo?", chiese Tim. "È normale. Non sono sotto amnesia", disse il colonnello Royd da davanti. "Di che diavolo parli?", gli chiese Jhon arrogante. "Nulla! Continuiamo a camminare o farà buio" - "Eh no, amico! Ora noi ci fermiamo, e tu mi spiegherai che diavolo sta succedendo" - "Non è saggio fermarsi a parlare nella giungla... quel mostro potrebbe tornare e..." - "Parla!!!", sbraitò Evergrand afferrandolo per la divisa - "Oh, e d'accordo. Ti accontento subito. Tu e il tuo amichetto Redwine, siete supersiti del volo 0023 Pechino - Sidney, del 22 giugno 2015. Dopo che avete provato a distruggere l'isola, si è accidentalmente azionato un meccanismo che l'ha spostata nel tempo. Ora siamo avanti dieci anni, rispetto alla vita reale" - "Che cosa?..." - "Vi abbiamo trattenuto qua con l'inganno, usando la stessa amnesia che avevano tentato di applicarvi gli uomini in bianco dieci anni fa" - "E come mai io non ricordo niente di tutto questo? Stai cercando forse di prendermi in giro?!" - "Non ricordi niente per il semplice fatto che sei ancora sotto l'effetto" - "E come si esce?" - "Non lo sappiamo. Noi..." - "Royd!! Ti ho fatto una domanda! Rispondi o ti faccio secco!" - "Se mi uccidi non lo saprai mai, non ti conviene farlo e..." - "Ah si? Allora ti farò soffrire. Ti sparerò su ogni dito del piede fino a quando non ti deciderai a parlare! Va bene così?" - "No no! D'accordo! Parlerò..." - "Come si esce da questa amnesia?" - "Andando via dall'isola, o distruggendola... Ovviamente la prima opzione è la più facile".
Nel frattempo, Alex e Lisbette, stavano camminando su una collina. Entrambi erano esausti, ma volevano raggiungere la spiaggia a tutti i costi. Se si fossero fermati, avrebbero rischiato di essere raggiunti da qualche predatore. "Alex, fermiamoci sono esausta!", disse Lisbette - "Si, d'accordo. Tieni, hai sete?", rispose lui offrendole la borraccia. Lei bevve un sorso e poi gliela ripassò. "Cosa stiamo facendo?", gli chiese poi - "Non lo so. Ma per prima cosa dobbiamo metterci in salvo. La giungla non è più sicura" - "Secondo te cos'è successo?" - "Gli intrusi. Sicuramente sono spie e hanno manomesso loro le apparecchiature!" - "Spie? E di chi?" - "Del governo. Vogliono farci chiudere fin dall'inizio" - "Ahahah! Beh, ne hai di fantasia" - "Ridi pure... ma quando ci troveremo accerchiati da quei mostriciattoli su due zampe, non credo che avrai ancora voglia di scherzare" - "Che ti prende Alex? Ultimamente sei strano con me" - "Beh, sono solo spaventato. Mi sembra ovvio" - "Ehy, dimmi la verità..." - "È che... da quando è arrivato quel ragazzo... Justin! Non lo so, mi sento strano" - "Avrai bisogno di riposare. Sono state giornate pesanti" - "Su, forza. Proseguiamo!". Tirò su lo zaino e si rimise in marcia. Lisbette, che rimase indietro, lo guardò rammaricata, e poi si incamminò anche lei.
Anche Kate e Sawyer camminavano nella giungla. "Che diavolo era quel rumore, James?", chiese Kate - "Senti, te l'ho già detto. Non lo so! Sarà stato qualche animale" - "Un animale che fa tremare il pavimento e butta giù gli alberi?" - "Beh, non mi sembra la prima volta..." - "L'ultima volta era il mostro di fumo a farlo! Peccato che l'abbiamo ucciso il mostro di fumo!" - "Senti, 'lentiggini'. Non lo so, va bene? Non ero qui negli ultimi otto anni! Quindi non so che cosa diavolo sia successo? Non chiedermelo più!" - "Come vuoi!". I due avevano sempre bisticciato, fin dai tempi in cui si conobbero. Ma nonostante ciò, c'era un legame tra loro, anche se il destino li aveva separati più volte. "Posso sapere almeno dove stiamo andando?", insistette Kate - "A cercare tuo figlio!" - "In mezzo alla giungla, senza una destinazione?" - "Da qualche parte dovremo pure iniziare. Nel caso non te ne fossi accorta, quest'isola è cambiata negli ultimi anni" - "Oppure sei tu che te la sei dimenticata..." - "Va bene Apocaontas! Allora guidami tu!" - "Non so dove siamo... Ho solo detto che forse dovremmo raggiungere la spiaggia e cercare il nostro vecchio accampamento. Magari da lì potremmo orientarci meglio" - "Veramente credi ancora che ci sia?! E comunque no, non l'avevi detto!" - "Beh, l'ho detto adesso!".
Il gruppo di Jhon arrivò finalmente alla Struttura. Era quasi sera ormai, e il sole iniziava a tramontare dietro la montagna. "Ok, ora prestiamo attenzione. Una volta entrati, dirigiamoci subito in centrale operativa, ok? Quello è l'unico posto sicuro", disse Jhon. Così i cinque entrarono nel primo padiglione e iniziarono a camminare verso il fondo. "Non va più la luce", commentò Tim, che stava schiacciando degli interruttori. "È andato a puttane il sistema elettrico. Era inutile sperarci...", rispose subito Jhon. I due tirarono fuori dagli zaini due pile e fecero da guida. Camminavano lentamente in mezzo agli stand. Justin e David potettero vedere una vera e propria esposizione di ossa fossilizzate con tanto di descrizione, esposte per il pubblico. Probabilmente, quel padiglione era riservato ai fossili. Quando raggiunsero il padiglione successivo, una volta aperto il portone taglia-fuoco, udirono l'eco di alcuni versi e rumori di oggetti che cadevano. "C'è qualcosa là!", esclamò Justin. "Ma non mi dire... Siamo nel padiglione dei cuccioli. Fortunatamente sono erbivori", rispose Tim con tono antipatico. "Incredibile!", continuava a commentare David. Per lui era un'esperienza assolutamente nuova. Passarono in mezzo ad altri stand, questa volta composti da gabbie di diverse dimensioni, quasi tutte con dei teli sopra, per non far spaventare le creature e ripararle dalla luce. Ora che la luce non c'era non servivano a niente, ma rimasero lì lo stesso e si sentiva ogni tanto qualche verso provenire da sotto. "Che diavolo sono?", chiese David. "Beh, ci sono tante razze di dinosauri, tutti cuccioli a quanto pare...", spiegò Justin - "Perché noi non sapevamo niente di questo parco?" - "Che cosa?! Non eravate a conoscenza del parco?", domandò stupito Tim. "Beh, no...", rispose Justin. Jhon però li interruppe: "La volete finire di chiacchierare!? Pensiamo prima a raggiungere il rifugio, va bene?!". E così tutti si ammutolirono e proseguirono. Mano a mano che giravano nei padiglioni, a un certo punto, fu Royd a interrompere nuovamente il silenzio: "Almeno adesso che siamo qui, posso avere una pistola anch'io?". "Sei impazzito, non mi fido di te! Continua a camminare", gli rispose Jhon - "Senti. Io sono il tuo diretto superiore. E questo è un ordine! Riconsegnami quell'arma" - "Non sei più il mio comandante da quando hai deciso di farmi fucilare" - "Ero costretto. Non avevamo più contatti col mondo esterno. Ti credevo artefice di tali sabotaggi" - "Beh, io continuo a non fidarmi e quindi l'arma te la scordi. Continua a camminare" - "Ah, e così, è?". Detta quest'ultima frase, Royd si lanciò a destra e si mise a correre in mezzo agli stand. "Ehy fermo!", urlò Jhon, e lo inseguì. I due scomparvero nel buio. Si sentì solo qualche sgommata di scarpe sul pavimento lucido del padiglione. Poi ci furono un paio di versi, che rimbombarono potenti nel padiglione. "Merda!", commentò Tim. "Perché 'merda'? Che diavolo sono?", chiese spaventato David. "Velociraptor...", rispose Justin fissando il buio pietrificato. "Jhon, dove sei? Sta attento ti prego...", bisbigliò tra se e se Tim. All'improvviso si udì un urlo! Sembrava Royd dalla voce. "Jhon!", urlò Tim. E a quel punto si precipitò a vedere. "No Tim! Non andare!", disse invano Justin. "Presto di qua", sussurrò poi a David, e i due si portarono verso il lato sinistro del padiglione, dove c'erano le uscite di sicurezza. "Merda! Sono tutte luchettate", disse Justin - "Come usciamo da qua?" - "Non lo so". Dall'altro lato di colpo si vide Tim che correva come un pazzo, urlando: "Via! Via!". Subito dietro di lui arrivarono una decina di Velociraptor, che saltavano giù dagli stand o vi passavano in mezzo. "La balconata! Raggiungiamo la balconata!", gridò Justin, indicando un corridoio sporgente dall'altro lato del padiglione, che si affacciava sul salone dove c'erano gli stand. Cominciarono tutti a correre lungo il perimetro, con i Raptor alle calcagna. Quando raggiunsero la scala mobile, uno di loro vi balzò sopra, bloccandogli il passaggio. In cima alla scala, che era ovviamente spenta, c'era Justin, che disse: "Oh no! No! Andiamo, fai il bravo!". E fece qualche passo indietro. Il Raptor gli balzò addosso, ma Justin si abbassò e il dinosauro rotolò giù per la scala facendo cadere anche Tim, David e Jhon, che era appena arrivato. Justin corse di sopra, mentre gli altri tre, appena rialzati dalla caduta, evitarono il Raptor, che era a terra pure lui, e si precipitarono di nuovo sulla scala, correndo tre gradini alla volta. Quando furono in cima si fecero tutta la balconata di corsa, fino a quando raggiunsero finalmente la centrale operativa. Fu Jhon l'ultimo a entrare, chiudendosi alle spalle le porte scorrevoli. "Resisteranno quelle porte?", chiese Tim col fiatone. "Si, sono a prova di dinosauro", rispose Jhon, anche lui esausto - "Dov'è il colonnello?" - "Morto... non ce l'ha fatta. E ho rischiato anch'io. Uno di quei bastardi mi ha graffiato il braccio e ho pure perso il fucile" - "Oddio, Jhon! Sanguini" - "No, non è niente. Apri quella cassetta del pronto soccorso" - "Si" - "Prendi la benda e il disinfettante" - "Brucerà un po' professore" - "Resisterò". Mentre Tim medicava la ferita di Jhon, Justin disse ironico: "Caspita! Mi ero dimenticato di tutto questo! Uff! È da rifare!"- "Non essere spiritoso... Non è stato divertente per niente", rispose David imbronciato. Qualche minuto dopo, i quattro presero delle armi da un armadio. "Queste le sapete usare?", chiese Jhon. Justin rispose di sì, e contemporaneamente David negò. "Beh, prendi questa per adesso. È una beretta a 12 colpi. Attento. C'è già il colpo in canna. Devi solo premere il grilletto. Tienila puntata sempre verso terra. Justin, tu sei sicuro di saperla usare?", disse Jhon - "Si. Non ti ricordi le nostre vecchie avventure? ... Ah, già... L'amnesia. Va beh, tranquillo. Non ti deluderò", rispose il ragazzo, che sembrava esaltato, come se fosse in un videogioco. Mentre finiva la frase prese il fucile e lo caricò, dopodiché se lo mise a tracolla. "E tu quando hai imparato a usare le armi?", gli chiese stupito David - "Beh, qua sull'isola ovviamente! Ne abbiamo fatte di sparatorie all'epoca. Peccato che si sono dimenticati tutto, altrimenti potevano testimoniare", rispose Justin scherzando. "Vorremo tanto ricordare qualcosa, credimi", disse Jhon. "Ehy! Ho controllato. Nessun Raptor in balconata. Posso andare al contatore", li interruppe Tim, che era andato a spiare in corridoio se c'era qualche dinosauro. "Perfetto, andrò io però", disse Jhon - "Che cosa? E perché? Io sono più agile, mentre tu sei pure ferito" - "Non importa. Tu sei giovane. Non ti farò rischiare la vita inutilmente. Io invece non ho nessuno" - "Non ho nessuno nemmeno io se è per questo", provò a ribattere Tim. Ma se Jhon si metteva in testa una cosa, era difficile fargli cambiare idea. David chiese: "Un momento. Se non c'è più energia a cosa serve il contatore?". "In caso di emergenza possiamo attivare manualmente delle batterie esterne, per fare luce e chiamare i soccorsi. Sempre se l'antenna satellitare non è danneggiata...", rispose Tim. "Beh, basta col pessimismo. Vado ad attivarlo", disse Jhon, che prese delle radioline e ne diede una a Tim. Poi gli disse: "Comunichiamo via radio. Mano a mano che premerò i pulsanti, mi dirai se riuscirai a comunicare col mondo esterno. Almeno risparmiamo tempo. Le radio sono scariche... per cui, se qualcosa dovesse andare storto, voi chiamate i soccorsi e andatevene. Anche senza di me!" - "D'accordo Jhon. Non farti ammazzare!". Così l'archeologo aprì le porte della centrale ed uscì in balconata, mentre Tim le richiuse subito. "Ok, mi sto portando alla scala antincendio a est", comunicò Jhon - "Bene, mi raccomando", rispose Tim - "Ora sono al piano terra. Per ora niente ostacoli". E poi dopo qualche minuto ancora: "Ok, ho raggiunto il contatore. Vado col settore 1" - "Attivo", rispose Tim - "Settore 2" - "Attivo" - "Settore 3" - "Perfetto" - "E infine, settore 4!" - "Ok, si è acceso. Com'è laggiù?" - "Illuminato. Ci sono solo i neon notturni e le segnalazioni di emergenza" - "Bene. Qua invece si sta attivando il processore. Ci vorrà un po'" - "Bene. Io risalgo" - "Ti aspettiamo Jhon". Jhon rientrò in centrale operativa sano e salvo. "Uff! Ce l'ho fatta!", disse poi. Posò la radio e si mise insieme a Tim ai computer. "Maledizione!", esclamò poco dopo. "Non funziona?", chiese Justin - "Antenna fuori uso. Ma che cazzo!" - "Come mai?" - "Il Metal Gear" - "Il Metal che??". Tim intervenne: "Jhon! Forse loro sanno...". "Di che stai...?? ... Ma certo! Hai ragione, come ho fatto a non pensarci. Ragazzi, voi ricordate qualcosa di una certa macchina da guerra sepolta sotto terra e spenta da anni?", chiese Jhon ai due neo arrivati. Fu Justin a rispondere: "C'ero solo io sull'isola, comunque sì. Gulam ci aveva accennato qualcosa" - "Avete conosciuto Gulam??", esclamò Tim sorpreso - "Si, ma poi è morto" - "Incredibile" - "Cosa c'è di incredibile?" - "È lui che ha progettato tutto questo", rispose Jhon - "Ora si spiegano un po' di cose. Quel tale era un pazzo. Lui e i suoi uomini ci avevano condotti qui con l'inganno e volevano farci prendere il loro posto come protettori dell'isola, per poi svignarsela lasciandoci qui" - "Protettori dell'isola?" - "Si, un tempo c'era una grotta da qualche parte. Là, questi uomini, con dei riti e, appunto, delle amnesie, annettevano altre persone al loro gruppo, e poi sacrificavano alcuni di loro, convinti che questo avrebbe fermato il male. Ma in realtà era tutta una copertura per condurre noi qui, a prendere il loro posto. Pare che abbiano vissuto qui per secoli, costretti a impedire che l'oscurità uscisse dalle viscere del vulcano e si diffondesse così su tutto il pianeta. Lo so, sembra una storia assurda. Eppure è tutto vero, l'ho visto coi miei occhi. E anche voi..." - "Wow! Ecco perché ci hanno costretti a restare qui. Per i loro sciocchi esperimenti!", commentò Tim - "Quello che non mi spiego è come mai l'isola è ancora integra" - "Di che parli?", domandò ancora Jhon - "Quando ce ne siamo andati, abbiamo fatto in modo che il vulcano esplodesse, fermando così tutto sto cataclisma. E così è stato. Ci siamo salvati appena in tempo e abbiamo assistito tutti alla scomparsa dell'isola. Poi fummo trovati da una nave, ma dei dinosauri marini la fecero affondare, così alcuni di noi, come me, Charlotte e sua figlia, riuscimmo a scappare, mentre voi, a quanto pare siete tornati indietro" - "Come mai hai menzionato Isla, prima?" - "Perché credevo che voi foste tornati là, visto che quell'isoletta non è esplosa" - "No, siamo sempre rimasti qua. Un'eruzione vulcanica in realtà c'è stata. Però ha preso solo un lato dell'isola. Questo è rimasto salvo. E poi sono passati dieci anni. La natura è ricresciuta" - "Un momento, come hai detto?" - "Che è ricresciuta la natura..." - "No, prima! In che anno siamo?" - "Nel 2026 ovviamente" - "O mio Dio... non ci posso credere" - "Perché, non mi direte che venite dal passato?" - "È proprio così! Ecco perché non sapevamo del parco dei dinosauri. Perché non è stato ancora aperto!" - "Infatti ha aperto solo quest'anno. Da che anno venite voi?" - "2016... e anche voi. Dobbiamo riportarvi indietro, anche perché ragazzi... non siete invecchiati per niente!". Era incredibile, eppure a quanto pare era così. Quando si aprì la finestra temporale, Justin e David arrivarono sull'isola, ma dieci anni dopo rispetto al normale! Ecco spiegato il mistero della giornata di differenza nei loro arrivi!
EPISODIO 28 - IL METAL GEAR
La psicologa disse a Justin che doveva semplicemente conoscere meglio se stesso. Se non riusciva ad aprire il cuore con altre persone, era perché non era ancora in grado di gestire le sue emozioni. Tutto questo perché ha perso la sua adolescenza, sprecata a sforzarsi ad essere come gli altri, quando in realtà lui era semplicemente diverso. Solo all'alba dei vent'anni lo accettò. Meglio tardi che mai, si, ma comunque aveva perso gli anni migliori. O almeno non li aveva vissuti pienamente. Fin da piccolo era stato il più sfigato della classe, il più piccolo e quello che le prendeva da tutti. Già da allora si poteva capire ciò che sarebbe diventato crescendo. Ma ovviamente era troppo piccolo e doveva prima farsi le sue esperienze. Quando accettò definitivamente la sua personalità, si sentì finalmente libero! Uscì dallo studio della psicologa contento. Finalmente era riuscito a sfogarsi e a parlare con qualcuno. Lui vedeva gli psicologi come dei mercenari, ma da quando si rese conto che riusciva finalmente a liberarsi dei macigni sullo stomaco, cominciò a cambiare opinione. La svolta vera e propria arrivò quando conobbe Jack, il ragazzo con cui per un paio di settimane tradì David. Fu lui a spronarlo e a fargli sputare fuori tutto. A differenza di David lo aveva aiutato molto a parlare, e di questo Justin gli fu riconoscente. Poi però le cose presero una piega diversa e dovette interrompere questo rapporto con lui, per salvare la storia con David.
Quando Justin quella sera rientrò a casa, dovette litigare con sua madre e il compagno, per via della droga. Questa volta l'aveva scoperto, così sua mamma contattò il papà di Justin e tutti e tre insieme si incontrarono per discuterne. Per Justin fu un'umiliazione, ma fortunatamente qualche mese dopo smise completamente di farne uso. Così facendo però perse molti amici, tra cui Alex, col quale si incontrerà tra un anno e partiranno insieme per l'Australia.
Ogni tanto Justin ci pensava. Aveva deluso praticamente tutti nella sua vita. Tranne sua nonna che, fortunatamente, sapeva solo un decimo delle cose che faceva il nipote. Sua madre sperava che lui si laureasse, e invece lasciò le superiori senza neanche diplomarsi. Suo padre rimase deluso per la sua debolezza, che lo spense poi a drogarsi. Il suo primo ragazzo, Mark, lo aveva lasciato per un altro. E Justin ci soffrì a lungo, perché fu l'unico di cui innamorò. Fu anche l'unica volta che qualcun altro fece un torto a lui. Le sue relazione successive furono una più disastrata dell'altra. Una cosa curiosa di Justin che lo distruggeva e gli faceva perdere autostima, era che tutti si innamoravano di lui, ma lui non ricambiava mai il sentimento per nessuno. Non era cattivo, semplicemente non ci riusciva. Vedeva tutti come degli amici e niente più, oppure come delle macchine da sesso. L'unico di cui fu Justin a innamorarsi, l'aveva lasciato tempo fa, per cui non faceva testo. Tutti gli altri non gli trasmessero mai niente. Nessuno fu mai stato come Mark. Ogni tanto ci pensava anche a questo. David, per esempio, per quanto fosse stato importante e unico, non aveva le caratteristiche di Mark. Fu forse questo a non far scattare la scintilla decisiva per l'innamoramento. Oppure semplicemente ci voleva più tempo. Anche se con Mark bastò un mese per innamorarsi. Comunque era acqua passata. Ma in primo luogo, per ultimo e non meno importante, aveva deluso se stesso! Era un ragazzo d'oro, glielo dicevano in molti, ma lui non era mai riuscito ad avere una vita normale. Niente amici, niente fidanzamenti, rapporti rovinati coi parenti. Ormai era assolutamente solo. Fu proprio questo a convincerlo a ritornare sull'isola. Lì, bene o male, aveva uno scopo almeno. Si sentiva importante, poteva essere utile per qualcosa. La prima volta aveva salvato il mondo, questa volta invece non sapeva ancora che cosa sarebbe successo. Ma da quando tornò sull'isola, si sentì di nuovo nato. Non aveva di certo trovato la felicità, ma perlomeno si sentiva vivo. La sua vita ora aveva uno scopo, anche se ancora non sapeva quale.
Ora stava camminando con David, Tim e Jhon alla ricerca di una soluzione per farsi trarre in salvo. Forse era proprio questo il suo scopo, salvare i suoi vecchi amici. Lasciarono la Struttura all'alba, armati fino ai denti. I Raptor avevano fatto piazza pulita di tutti i poveri cuccioli di dinosauri rimasti nel padiglione, distruggendo le gabbie e mangiandoseli vivi. Ora, non essendoci più cibo per loro, avevano abbandonato il posto. I quattro raggiunsero la cima di una collina rocciosa. Oltre a quella si distendeva un'enorme fiancata distrutta e bruciata dalla lava. Era incredibile come, da un lato c'era vegetazione pura, e dall'altro solo rocce. "Visto?", disse Jhon. "Incredibile", rispose Justin. "Ora dovremmo andare", suggerì Tim. "Certamente", rispose Jhon. E si incamminarono di nuovo verso la spiaggia. Era andato distrutto tutto, le stazioni Dharma, il villaggio, il Tempio... Era rimasta solo la Struttura, modificata e ristrutturata in seguito all'eruzione, e a quanto pare questo enorme Metal Gear, sotto di loro. Appena fece buio si accamparono e accesero un fuoco. "Come ai vecchi tempi", disse Justin. "Ci credo sulla parola", rispose Jhon scherzando. "Dove saranno tutti gli altri? I vostri compagni", chiese David. "Probabilmente morti, o sparsi come noi per la giungla", disse Jhon. "Parlami del Metal Gear", intervenne Justin. Jhon mandò giù l'ultimo pezzo di mango, deglutì e iniziò a raccontare: "Io e Tim, abbiamo scoperto che da sotto terra stanno emergendo dei pezzi di metallo radioattivi. Questo, non solo altera la mente degli animali, che diventato più cattivi e meno controllabili, ma danneggia i nostri sistemi di controllo. Esattamente come è appena successo. Quindi ora siamo isolati completamente dal resto del mondo. Possiamo solo aspettare il sottomarino, sperando che torni a prenderci, oppure trovare un altro modo per andarcene" - "Cosa succede se non ce ne andiamo?" - "Quel macchinario ci ucciderà" - "Ma chi l'ha costruito esattamente?" - "I soldati della vecchia Singem, circa 15 anni fa" - "A che scopo secondo voi?" - "Beh, riteniamo che volessero usarla come ultima carta per distruggere questo luogo. I motivi possono essere tanti. Il più logico è l'estinzione immediata delle nostre reclute, in caso di emergenza" - "Ma così ucciderebbero anche gli umani!" - "Credo che se si arriva ad utilizzare il Metal Gear come ultima risorsa, è perché non c'è proprio più nessuna speranza" - "Ma allora perché si è attivata adesso?" - "È quello che nessuno di noi si sa spiegare... Supponiamo che si tratti di un guasto tecnico, o di un sabotaggio. A che scopo, non si sa" - "E se non fosse un guasto?" - "Dove vuoi arrivare?" - "E se fosse l'energia radioattiva che si nasconde sotto l'isola? Credevamo di averla distrutta ma a quanto pare non è stato sufficiente far esplodere un vulcano. È proprio quella fonte di energia la causa di tutto" - "Io non riesco a seguirti... Di cosa stai parlando?" - "Qui una volta c'era l'energia positiva, ovvero una luce bianca protetta da Hugo e i suoi seguaci, e l'energia negativa, protetta invece dai membri della ex Singem. Secondo me loro hanno costruito questa macchina per evitare che tale energia negativa, l'oscurità, distruggesse l'umanità, nel caso fosse sfuggita loro di mano. Magari avevano paura che se un giorno avessero fallito, non ci sarebbe stato più niente che potesse fermarla. Allora hanno usato questa ultima risorsa: il Metal Gear" - "Teoria interessante, ma perché non si è attivato l'ultima volta? Quando siamo precipitati qui e volevano portarci negli inferi con l'inganno" - "Perché non c'era stato il rischio che tale energia si liberasse. Abbiamo semplicemente combattuto con quegli uomini, ma siccome l'isola non si è distrutta completamente... Un momento, forse ho capito tutto! Ma certo! Il Metal Gear protegge l'isola! Oppure la distrugge, a seconda delle esigenze. Ecco perché è rinata la vegetazione. Ecco a cosa serve quell'affare!", esclamò poi Justin. Un uomo arrivò nel loro campo e interferì nella loro conversazione: "Complimenti ragazzino! Ci sei arrivato!". "Chi c'è?", urlò Tim balzando in piedi - "Metti giù quel fucile pivello! E soprattutto vergognatevi. Tu e il tuo amichetto Evergrand. Questi idioti sono arrivati da pochi giorni e hanno già capito tutto. Voi invece siete qui da un anno e vi siete fatti manipolare come degli stupidi!", rispose il capo della Singem, scortato da alcuni dei suoi uomini. Tutti e quattro erano balzati in piedi con le armi in mano, ma i nemici erano molti di più e quindi dovettero arrendersi. "Consegnate le armi e venite con noi!", sbraitò il capo. Così fecero... Lasciarono giù armi e zaini e tirarono su le mani. "Bene, ora uccideteli!", ordinò il capo. "Che cosa? No! Un attimo!", urlarono i quattro. Proprio in quel momento partirono dei colpi. Per un attimo i prigionieri pensarono di essere stati colpiti loro, da quelli della Singem, ma poi videro cadere il loro capo a terra e anche alcuni degli armati. Altri colpi arrivarono da tutte le direzioni, colpendo a morte un altro paio di soldati. "Forza, da questa parte!", urlò qualcuno. Così i quattro ripresero le armi e le loro cose, si lanciarono nella giungla e iniziarono a correre, lasciandosi indietro i loro inseguitori. Quando furono abbastanza lontani, si nascosero in una grotta e aspettarono lì. "Grazie James. Non pensavo di rivederti!", bisbigliò Justin. "Di niente. Ma ringrazia che stavo passando di là", rispose lui -. "Avete trovato il bambino?" - "Purtroppo no, ma inizio a pensare che non si trovi qui" - "Come mai?" - "Credo che ci vogliano morti!". Justin rispose a James e poi si rivolse ai compagni che erano sull'isola: "Chi mai dovrebbe volervi uccidere? Un momento! Jhon, Tim... Voi avete visto un bambino? È loro figlio e...". Poi però fu interrotto da James: "Loro vivevano qui?!". Fu Jhon a rispondere: "Si, vivevamo qui. Ma non abbiamo vostro figlio. Non c'è nessuno bambino con noi". "Sicuro? È un bambino biondo, di 11 anni...", chiese Kate. "Spiacente, mai visto". "Voi vi fidate di loro?!", chiese James a Justin e David. "Si, erano con noi sull'aereo. Se dicono che non hanno visto vostro figlio, vuol dire che non c'è".
Quella notte sembrava non volesse passare mai. Accesero un altro fuoco e continuarono a stuzzicare un po' di frutta e verdura, raccolta in giro per l'isola. Justin si allontanò un attimo. Si sentiva strano, voleva fare quattro passi da solo. Così inventò la scusa che doveva andare in bagno. Oltrepassati i primi alberi però, gli venne un attacco di nausea, e vomitò a terra. David arrivò alle spalle. "Justin... Stai bene?", gli chiese - "Si. Vi avevo detto che volevo stare un po' da solo" - "Ma non è sicuro girare di notte per la giungla. Avanti torniamo indietro" - "David... credo che dovrò distruggerlo" - "Che cosa?!" - "Il Metal Gear. Credo che vada distrutto, altrimenti non finirà mai quest'incubo" - "E come pensi di fare?" - "Non lo so ancora... Ma se il destino mi ha condotto qua, ci deve essere una ragione. E credo sia questa, fermare il male distruggendo quella macchina. L'altra volta ho fallito... Questa volta non posso" - "Dovremmo parlarne con gli altri" - "Non credo che capirebbero" - "Non puoi farlo da solo!" - "Tu sei con me?" - "... Justin... Io sono stato sempre con te!".
I due rientrarono all'accampamento. Quando si addormentarono tutti, Justin si alzò di nascosto, prese il suo telefonino, scrisse un messaggio per David e glielo mise sul petto acceso, con la tastiera bloccata, in modo che quando lui si sarebbe svegliato, lo avrebbe potuto leggere. "Ti amo. È per questo che me ne sono andato. Ti prego non cercarmi. È colpa mia se ti ho trascinato in questo inferno, avrei dovuto impedirtelo. Ma ormai sei qui, quindi mettiti in salvo. Ti prego, se mi ami anche tu, fallo!", queste furono le parole che Justin lasciò scritte per il suo fidanzato. Poi, facendo il meno rumore possibile, prese uno zaino, ci mise dentro una bottiglia di acqua, un po' di frutta e una scatola di munizioni, tirò su il suo fucile e se andò. Doveva farlo! Sentiva che doveva farlo. E si sarebbe sentito troppo in colpa se avesse portato con se David e l'avrebbe fatto ammazzare. Ora sapeva chiaramente dove doveva andare. Per tutta la vita era rimasto solo. Quindi poteva benissimo cavarsela. Anzi, secondo lui, doveva! Raggiunse nuovamente il punto in cui vennero sorpresi poche ore prima. C'era ancora il fuoco mezzo acceso e alcuni uomini a terra. "Fermo là!", disse qualcuno. "Calma, non sparate! Voglio venire con voi!", disse Justin ad alta voce, portando subito le braccia in alto e lasciando cadere il fucile. "E sentiamo... perché vorresti venire con noi?", disse il loro capo, che era sopravvissuto alla sparatoria di prima grazie al giubbotto antiproiettili, ferendosi soltanto in alcuni punti del corpo. "Perché voglio distruggere il Metal Gear, proprio come voi" - "Ahahah! E cosa ti fa pensare che noi vogliamo distruggerlo?" - "Perché non siete in grado di controllarlo... e sapete benissimo che se non lo distruggiamo, sarà la fine per tutti quanti" - "Beh, hai fatto male i conti ragazzino. Io non ho intenzione di distruggere niente. Perché se lo facessi, per il mio parco sarebbe la fine" - "Ma non capisce? Se non lo distruggiamo sarà la fine per tutto il mondo!" - "Ahahah! Tu hai guardato troppi film marmocchio. Non sarà la fine per un bel niente! Perché quel coso è proprio ciò che impedisce la fine del mondo" - "Si sbaglia! Il Metal Gear è difettoso. Non può essere sufficiente per proteggere questo posto. Va distrutto!" - "Rilassati ora! Inizi a scocciarmi. Lo so benissimo che è difettoso. È per questo che lo aggiusteremo. Così l'energia rimarrà contenuta e il mio parco non cesserà di esistere" - "Lei pensa solo al suo interesse! Si vergogni!" - "Tesoruccio! Nel caso non te ne fossi accorto, nel mondo è così che funziona" - "Per il suo egoismo potrebbe andarci di mezzo gente innocente. Perfino i suoi figli. Ci pensa a questo?" - "Beh, per fortuna che non ho figli! Ahahah! Uccidetelo!" - "Sta facendo uno sbaglio... la prego si fermi... mi ascolti!" - "L'unico sbaglio è stato perdere tempo ad ascoltare le tue lagne! Addio mocciosetto...". Proprio in quel momento un Tirannosaurus Rex apparve alle spalle del comandante e se lo mangiò vivo! Tutti gli altri si spaventarono e scapparono via. Questa fu l'occasione che Justin aspettava. Non ci penso due volte, raccolse l'arma e fuggì anche lui nella giungla. Doveva trovare il modo di distruggere quella macchina, ma non sapeva ancora come fare.
EPISODIO 29 - SALVATAGGIO IN EXTREMIS
Justin correva. Correva e correva. Aveva perso il conto del numero delle volte che attraversò quella giungla. Ormai sembrava quasi che il suo destino lo dovesse condurre sempre e comunque là, a correre per raggiungere o per scappare da qualcosa. In questo caso scappava dall'ultimo Tirannosauro che, poco prima, divorò il capo della Singem, prima che egli potesse ucciderlo. Un ennesimo colpo di fortuna. Oppure era destino, ma questo era un dubbio senza fine. Ora era mattina e Justin non sapeva nemmeno dove stesso andando. Il Tirannosauro ormai l'aveva seminato, ma non si sentiva sicuro a rimanere in mezzo a quelle piante. Troppi mostri da cui fuggire. C'erano delle persone in fondo. Non riusciva a distinguerle da lì. Doveva avvicinarsi un po' di più. Poi rallentò il passo, era esausto. Aveva la milza dolente e il cuore che batteva a mille. Erano in due e indossavano entrambi la divisa Singem. Uno dei due era una ragazza. Stavano andando nella stessa direzione di Justin, e da lì già si scorgeva il mare. Però non doveva farsi vedere, era troppo pericoloso. Quei pazzi davano loro la caccia. Provò a seguirli di nascosto, magari lo conducevano all'ingresso del Metal Gear. Erano avanti di un centinaio di metri circa. Da lì non lo avrebbero visto. Ad un certo punto li perse, ma in mezzo agli alberi si poteva intravedere la spiaggia. Quando la raggiunse non riuscì a trovare i due conigli bianchi. "Maledizione", mormorò. "Cercavi noi?", disse una voce alle sue spalle. Justin si voltò e vide Alex e Lisbette. Il primo, col fucile in mano puntato contro di lui. "Alex?", stava per dire Justin. Poi si fece furbo. Se quei due non lo riconoscevano, poteva usarli per raggiungere il Metal Gear. Sicuramente sapevano dove fosse l'ingresso. "Ragazzi aspettate, vi prego!", disse allora. "Sentite, sono stato alla Struttura con Evergrand e Redwine. C'era anche il colonnello Royd, ma è morto. Il posto è stato abbandonato. Abbiamo provato a far funzionare l'antenna, ma è fuori uso. E il motivo di tutto ciò è il Metal Gear. Dobbiamo distruggerlo. Solo così possiamo salvarci", continuò poi. "Che diavolo è il Metal Gear? E chi sei tu?", rispose Alex sempre col mitra puntato. Justin raccontò tutto, ma i due, o almeno Alex, non sembravano molto convinti. "Tutto questo è assurdo. Noi vogliamo solo andare a casa", disse lui - "Amore e se avesse ragione?", gli chiese Lisbette. Justin nel sentire la parola 'amore' rimase un attimo basito e per un istante gli venne uno schizzo di gelosia, ma poi passò. Spiegò loro che se il Metal Gear continuava ad esistere, le comunicazioni col mondo esterno sarebbero state impossibili da effettuare. "Alex, tu saprai sicuramente dove si trova questo affare... diglielo!", disse Lisbette - "Pensi che mi dicevano tutto? Queste sono informazioni altamente riservate! Io non sapevo neanche dell'esistenza di questo coso. Ma ti do un consiglio amico, prova alla Struttura. Sicuramente parte tutto da lì. E se è sotto terra, beh, io so che ci sono dei piani inferiori alla Struttura. Probabilmente la porta è laggiù", disse Alex. "Grazie. Non so come ringraziarti. Ora però mettetevi in salvo. Se riuscissi nel mio intento, non saprei quali potranno essere le conseguenze. Magari ci saranno effetti collaterali e non vorrei ne rimarreste coinvolti", rispose Justin. Poi diede una pacca ad Alex e sorrise alla sua ragazza. Loro restarono immobili, mentre lui corse via nella giungla. Ad Alex successe qualcosa però, in seguito al contatto fisico con Justin. Gli passarono per la mente dei flash in cui vedeva immagini sfocate del suo passato. Gli sembrò di vedere loro due che si abbracciarono sulla spiaggia, in seguito a un disastro aereo, e altre scene molto confuse che ricordava a malapena, ma nelle quali c'entrava sempre quel Justin. "Che ti prende?", gli chiese Lisbette. "Credo che dovremmo aiutarlo", rispose lui. "Ehy aspetta amico!", gridò poi. Justin si fermò e tornò indietro. "Prendi questa, è una cartina della Struttura. C'è anche il sistema idraulico e quello elettronico. Non è tanto, ma spero che possa aiutarti" - "Grazie amico. Ora scappo. A una altra vita!", e corse via con la mappa in tasca.
Il veggente, lo stesso che un tempo esaminò Claire Littleton, più di dieci anni fa, obbligandola con l'inganno ad andare sull'isola per far nascere lì suo figlio Aeron, ora stringeva le mani della piccola Margot. Era un po' più invecchiato, ma il suo talento rimaneva sempre lo stesso. Charlotte sedeva sul divano affianco al tavolo. Qualche istante dopo, il guaritore si spaventò e si staccò subito dalla bambina, che sussultò anche lei. "Che succede?", chiese la signora Charlotte, che un tempo era molto scettica, prima di assistere in prima persona a certe esperienze che le cambiarono la vita. Lui allora chiese alla madre della bambina: "Siete stati su un'isola di recente?" - "Oddio, si! Come fa a saperlo?" - "Credo che lei voglia che voi ritorniate laggiù" - "Mi scusi, come!?" - "Lo so, suona strano. Ma credo che se ciò non avviene, ci saranno delle catastrofi in futuro. Già una volta avevo mandato una donna incinta laggiù. Le avevo raccomandato di crescere suo figlio personalmente, ma qualcuno glielo portò via e ora si è aperta una specie di scatola. Ci sono degli eventi che si stanno verificando a catena e l'unico modo per alleviarne le conseguenze... è tornare laggiù!" - "No! È fuori discussione! Noi non torneremo laggiù dopo tutto quello che ci è successo. Ha una minima idea di che posto è quello?" - "Si, perfettamente. So che è un luogo pericoloso, ma se non ci andrete, insieme, sarà la fine per tutti" - "Io credo che lei ora stia esagerando". "Che succede mamma?", chiese Margot spaventata. "Niente amore, andiamo via", rispose Charlotte prendendola per mano e dirigendosi verso l'uscita. "Signora, la prego di ascoltarmi!" - "No, mi dispiace. Non sarei dovuta venire fin quaggiù. Si tenga i soldi, non mi importa. Ma io là non ci torno! Ce ne torniamo in Italia domani!", ed uscì dalla casa del veggente, che rimase in piedi con le banconote in mano. Appena sentì il rumore della macchina di Charlotte accendersi, un sorriso gli si disegnò sul volto, quasi come se avesse ottenuto, in maniera indiretta, esattamente ciò che voleva. Chissà se è stato un caso che poi Charlotte, tornando in Italia il giorno dopo, sia finita accidentalmente sul volo Sidney - Tokyo AK123? Qualunque sia la risposta a tale quesito, ora lei si ritrovò sull'isola con sua figlia!
Appena uscirono dall'acqua, nello stesso punto in cui precipitarono la volta precedente, si trovarono nel lato dell'isola distrutto dalla lava. Una scena macraba per i loro occhi. Allora percorsero per un giorno intero la costa, fino a quando, appena svoltato dietro ad un promontorio, ricominciò la giungla.
"Justin! Sei tu?", urlò Charlotte. "Chi c'è?", gridò lui da in mezzo agli alberi. Mamma e figlia arrivarono correndo e Justin quasi si spaventò, ma appena le riconobbe ci fu un momento tenero di baci e abbracci. "Perché siete salite su quell'aereo? Io te l'avevo detto di non farlo!", la rimproverò poi lui - "Avevi ragione. Avrei dovuto ascoltarti e mi dispiace. È che semplicemente non lo ritenevo possibile" - "Non è la prima cosa fuori dal normale che ci capita. Ormai dovresti poter credere a tutto..." - "Mi dispiace, ma ormai siamo qui. Che si fa ora?" - "Io sto andando in un posto a fare una cosa. Voi... Voi dovreste andarvene. Mettetevi in salvo!" - "Veniamo con te" - "No! No, non è possibile. È troppo pericoloso" - "Più pericoloso che restare a spasso per la giungla?" - "Charlotte, dove sto andando io... Senti, distruggerò l'isola!" - "Pensavo l'avessi già fatto!" - "Ma non sono riuscito... Questa volta invece so come fare" - "Perché vuoi distruggerla? Non possiamo andarcene e basta?" - "Perché devo! Se non lo faccio questo incubo non finirà mai! L'isola non ha ancora finito con noi... È per questo che siamo tutti qui!" - "Se c'è una ragione al fatto che io sia qui, allora dovrò aiutarti. Non trovo una motivazione migliore" -"Ah... Charlotte!" - "Non me ne starò con le mani in mano" - "Oh maledizione! Vuoi mettere a rischio la vita di Margot?", le sussurrò poi nell'orecchio - "La sua vita è già in pericolo", rispose lei a tono normale.
Non ci fu niente da fare. Charlotte e Margot andranno con Justin. "Se passiamo da lassù taglieremo. Pensate di farcela?", chiese il ragazzo - "Si, d'accordo. Proviamoci". I tre si diressero verso una salita piuttosto pendente, composta da terra, rocce e liane per arrampicarsi. La salita fu difficoltosa, ma aiutandosi a vicenda, riuscirono a passare oltre. Spesso si rischiava di scivolare, oppure qualche masso crollava giù, o le liane si staccavano. Nel pezzo finale, Charlotte era in cima al dirupo, sdraiata a pancia in giù, Justin più in basso, appeso a una liana e Margot in mezzo tra i due. Justin la spinse da sotto con un braccio, mentre la madre l'afferrò dall'alto e l'aiutò a salire. Poi, facendo l'ultimo sforzo, si trascinò anche lui in cima al pendio. Erano tutti sporchi di terra e con le mani leggermente sbucciate, ma erano arrivati finalmente abbastanza in alto da poter vedere il tetto dei padiglioni della Struttura. "Mancheranno un paio di chilometri, forse un chilometro e mezzo e poi siamo arrivati", disse Justin. "Benissimo", rispose Charlotte. Margot aveva sete. Per trovare dell'acqua dovevano trovare un ruscello, e per trovare un ruscello dovevano passare attraverso la giungla. Cosa che, tuttavia, avrebbero dovuto fare ugualmente per arrivare alla Struttura. Camminando, il desiderio della piccola si avverò. C'era un ruscellino di acqua limpida che scorreva in mezzo a dei sassi lungo la foresta. Justin riempì l'unica borraccia che aveva e fece bere la bambina. Dovevano proseguire. Là in mezzo non erano al sicuro. Di recente erano passati i Raptor da lì. Potevano tornare da un momento all'altro se avessero fiutato del cibo. E non c'era niente che potesse fermarli. Grazie a Dio, arrivarono alla Struttura senza complicazioni. Un fucile di certo non poteva bastare contro nessuna di quelle bestie. Una volta entrati, ci fu da affrontare di nuovo il buio pesto. "Non ho la minima idea di dove iniziare sinceramente", disse Justin. "Fantastico direi"; commentò Charlotte. Si recarono alle scale antincendio, per scendere nelle fognature. Per ora nessuna presenza strana nascosta in agguato. "Ok, secondo la mappa qui ci dovrebbe essere un passaggio che porta di sotto", disse Justin illuminando la cartina con la torcia. "Già, ma dove?", chiese Charlotte - "È quello che dobbiamo scoprire". All'improvviso un rumore spaventò tutti quanti. Margot si era appoggiata alla parete e involontariamente aveva spinto un mattone con la schiena, azionando così un meccanismo che aprì un corridoio nel muro. "Grandissima Margot! Sei la numero uno!", esclamò Justin, battendogli il cinque. I tre si infilarono dentro. "Sei sicura Charlotte? Potreste aspettare qui voi...", disse poi Justin - "Tanto vale restare uniti ormai", rispose lei sicura di sè. Così proseguirono in questo tunnel lungo e buio. A un certo punto bisognava scendere. Il corridoio finiva e iniziava una scala che portava di sotto, in un altro tunnel molto più stretto. Scese prima Justin, che aveva la torcia. In mezzo Margot e per ultima Charlotte. Dopo una discesa di tre o quattro minuti abbondanti, arrivarono finalmente nelle fognature. La puzza era tremenda, tanto che dovevano tenersi il naso tappato con le dita. Però il posto era grande e trovarono un contatore per la luce, che probabilmente funzionava con quelle famose batterie d'emergenza. Meglio così! Si accesero solo dei neon. Camminarono e camminarono. Il soffitto era molto alto e il passaggio altrettanto largo. In mezzo scorreva l'acqua, mentre ai lati c'erano i passaggi pedonali. Arrivarono ad un portone tagliafuoco, mezzo ammuffito. "Sembra che qua non ci venga nessuno da tanto", commentò Justin. Poi provo ad aprire il portone, ma era piuttosto pesante e si incollava a terra con l'acqua sporca e appiccicosa della fogna. Allora Charlotte gli diede una mano, e dopo un grande sforzo, riuscirono finalmente a sbloccarlo e a farlo scorrere verso sinistra. All'interno era buio, ma subito a destra c'era un contatore. Justin si fece luce con la torcia e fece accendere tutto il salone. Era enorme. All'interno c'era un processore gigante, a forma circolare, con decine di schermi su tutta la circonferenza. "Bene... abbiamo trovato il cervello!", disse Justin. Passarono diverse ore senza che i due riuscissero a combinare qualcosa di produttivo, infatti ogni pulsante che schiacciavano faceva semplicemente accendere o spegnere un altro schermo, senza portare a niente. Margot nel frattempo giocava intorno, saltando nelle pozzanghere o toccando gli oggetti sugli scaffali. Proprio da uno di quegli scaffali Charlotte aveva provato a cercare delle istruzioni, ma erano tutte in una strana lingua composta da geroglifici sconosciuti, e la metà di quelle pagine era comunque illeggibile a causa dell'umidità o della muffa. Sfogliando un libricino però, Charlotte trovò illustrato un disegno nel quale secondo lei veniva spiegato come smontare un certo pezzo del processore. "Io non ci ho mai capito molto di computer!", esclamò a un certo punto Justin, che si stava iniziando a stufare. Inoltre la puzza era proprio insopportabile là sotto. A un certo punto udirono delle voci e dei passi nel corridoio. "Presto nascondiamoci!", disse Justin e tutti e tre si misero dentro un armadietto di metallo. Charlotte teneva la mano sulla bocca di Margot e cercava di farla stare il più ferma possibile. Quegli uomini parlavano nella loro lingua dell'isola, perciò non si capiva cosa dicevano, ma sembravano agitati per qualcosa. Dalle fessure orizzontali ad altezza uomo, si poteva spiare fuori e intravedere qualcosa. "Dove siete? Venite fuori!", gridò uno di quegli uomini armati. Dannazione, li avevano scoperti! "Restate immobili"; sussurrò Justin. "Le cose sono due. O venite fuori e vi fate giustiziare, oppure spariamo su tutte le pareti e vi ammazziamo lo stesso. In entrambi i casi morirete. Quale scegliete delle due?", gridò ancora l'armato. "Ho controllato ovunque capo, non sono qui", disse una voce familiare. Era di schiena, ma Justin lo riconobbe lo stesso. Era Alex! Lisbette però non era con lui. "Bene. Cercateli allora. Non saranno troppo lontani!", sbraitò ancora il loro capo in comando. Siccome il generale e il colonnello erano morti, un altro soldato aveva preso il loro posto, e ora guidava quei pochi di loro rimasti, che saranno stati una dozzina circa, compreso Alex. Alcuni soldati uscirono dall'atrio alla ricerca degli intrusi, mentre il capo con altri tre uomini, più Alex, rimase nella stanza del processore. "Sono stati qui e hanno toccato qualcosa, ma fortunatamente il Metal Gear è intatto", disse poi. "Probabilmente ci hanno sentiti arrivare e sono scappati via", rispose timidamente Alex - "Beh, li troveremo e gli faremo rimpiangere di aver voluto fare gli eroi". Sembrava quasi che Alex stesse cercando di proteggerli. Ma forse era solo un'impressione di Justin, perché l'amico continuava ad essere sotto amnesia. Un'ora dopo, finalmente decisero di andarsene, restò solo Alex con un suo collega a piantonare il computer, pronti a comunicare via radio nel caso avessero avuto bisogno di rinforzi. I tre supersiti stavano quasi soffocando per mancanza di ossigeno e inoltre faceva un caldo allucinante dentro quell'armadietto. Non ce la facevano più, stavano sudando come dei pazzi ed erano scomodissimi. Mentre i due passeggiavano e parlavano tra di loro, dicendo che se avessero visto i prigionieri li avrebbero fatti soffrire, si sentì uno sparo. L'uomo accanto ad Alex cadde a terra ferito e iniziò ad gridare dal dolore. "Silenzio! Fai silenzio!", gli urlò Alex, puntandogli la pistola contro. Poi gli disse ancora: "Lascia giù la radio o ti ammazzo. Non provare a fare rumore! Forza venite fuori". "Dovremmo fidarci?", chiese Charlotte a Justin. "A questo punto non ho più dubbi", confermò il ragazzo, che spalancò le ante ed uscì dall'armadio. "Piacere di rivederti amico mio", disse poi ad Alex. "Ragazzi, non abbiamo tempo! Loro torneranno da un momento all'altro. Aiutatemi a piazzare il C4 e poi usciamo da qui!", rispose lui - "Fantastico. Finalmente si inizia a ragionare!". L'uomo a terra intanto si dimenava, e provava a trascinarsi verso l'uscita. "Charlotte! Tieni questa. Se scappa o prova ad alzarsi, sparagli", disse Justin dandole una pistola. Nel frattempo i due ragazzi stendevano i fili tutti intorno al processore e piazzavano il C4 in diversi punti del macchinario. "Dove hai imparato tutto questo?", chiese Justin sbalordito - "Beh, un anno di esperienza nel campo militare, ovvio. Ok, qui abbiamo finito. Ora dileguiamoci, svelti!". Alex stordì il collega a terra col retro del fucile, e poi tutti e quattro scapparono fuori. "Dove pensate di andare?", disse il nuovo comandante, che gli si presentò davanti. "Oh maledizione", commentò Alex - "Volevi aiutarli a fuggire è? Bene! Verrai giustiziato con loro. Non sopporto i tradimenti. Mani in alto!". Tutti quanti alzarono le braccia e lasciarono a terra zaini e armi. Era finita! Ora li avrebbero uccisi e tutta la loro fatica sarebbe stata inutile. Avevano fallito! Alex però sembrava voler provocare il nemico: "Che fai? Mi spari? Divertiti pure. Ma sappi che hai fallito figlio di puttana!" - "Ma di che diavolo stai parlando?". Alex schiacciò un pulsante di un telecomandino che aveva nella mano destra, e di cui nessuno si era accorto. "Viva la fiesta!", urlò con tono scherzoso. Un'esplosione fece cadere tutti a terra. Il processore era saltato in aria! Alex aveva avuto un piano perfetto. L'unico problema è che ora non sapevano se sarebbero riusciti ad uscire in tempo dalla Struttura, prima che essa crollasse sopra le loro teste. Se non avessero incrociato i nemici, avrebbero fatto esplodere il C4 solo una volta usciti e messi al riparo. Ma purtroppo dovettero improvvisare. Il gesto di Alex fu molto saggio e coraggioso. Rischiare la propria vita e quella dei suoi amici, pur di non fallire con la loro missione: distruggere il Metal Gear. Tutto iniziò a tremare. I quattro intrusi iniziarono a correre, mentre quelli della Singem si stavano ancora chiedendo che diavolo stava succedendo. Voltarono appena l'angolo prima che alcuni di loro gli sparassero addosso, mancandoli di pochi centimetri. "Piano fantastico amico! Via! Via!", urlò Justin ai suoi. Corsero come se non ci fosse un domani, mentre pezzi di soffitto cadevano a terra, le tubature esplodevano e schizzava acqua ovunque, e tutto il resto tremava paurosamente. "Amore alzati!", gridò Charlotte a sua figlia, che era inciampata. "Presto! Su per la scala! Prima voi!" urlò Justin. Quindi mamma e figlia iniziarono ad arrampicarsi, poi Justin e infine Alex, che sparò prima qualche colpo verso gli uomini armati che li stavano inseguendo. "Presto Alex! Lascia stare! Sali!", gli disse Justin. Salirono la scala più in fretta che potevano. Quando raggiunsero il corridoio in alto una spiacevole sorpresa li attendeva. Un'ondata di acqua gli piombò addosso! "Tenetevi forte!" - "Mamma! Aiuto!" - "Margot!", gridarono. Il getto d'acqua, probabilmente causato dall'esplosione di sotto, era fortissimo, e non solo impediva ai quattro di proseguire, ma li spingeva persino indietro. "Dio santo! Non vedo l'ora di fare una doccia appena arrivo a casa!", gridò ironico Justin, che afferrò la mano di Charlotte e la trascinò a forza fuori da lì. Appena passati oltre il muro mobile, uscirono finalmente da quel passaggio segreto e si ritrovarono nel padiglione, che stava letteralmente crollando. La parete veniva giù orizzontalmente, loro quattro correvano verso il lato opposto per raggiungere l'uscita. Per pochi centimetri riuscirono a evitare il soffitto del padiglione, ma rimasero avvolti dal nuvolone di polvere e dalle macerie. Tuttavia ne uscirono fuori integri. Una jeep arrivò davanti a loro. Erano Jhon e Tim. "Forza salite a bordo eroi!", gridò sarcastico Jhon. Non ci pensarono due volte e si lanciarono sopra l'automobile, come meglio potettero, senza neanche fermarsi dalla fuga precedente. Con una sgommata Jhon partì e schizzò via da lì, mentre la Struttura crollava davanti ai loro occhi. "Dov'è David?", chiese Justin. "Non lo sappiamo! È scomparso la stessa notte che te ne eri andato. Probabilmente ti sta cercando", rispose Tim. Come se tutto ciò non bastasse, la Recluta gli sbarrò il passaggio! "Maledizione, no! Proprio ora!", disse ancora Jhon. Fece subito un'inversione a U, facendo rotolare i quattro passeggeri nel retro dell'auto, che dovettero tenersi per non volare fuori. Jhon si diresse verso una rampa. "Jhon che vuoi fare?!", chiese Tim preoccupato - "Tim! Prendi il volante", gli urlò lui - "Che cosa, sei impazzito?" - "Prendi quel maledetto volante e sali sul ponte! Fidati di me!". Così Tim assunse la guida del veicolo, mentre Jhon schiacciò un pulsante che fece alzare il suo sedile verso l'alto. Il tettuccio si aprì e lui sbucò fuori, dal torace in su. Anche una mitragliatrice uscì fuori dal tetto della macchina. Mentre Tim guidava, Jhon iniziò a sparare alla Recluta, sperando così di rallentarla. "Jhon! Il ponte finisce!", urlò Tim appena si accorse che era crollato tutto alla fine della rampa. Jhon allora si voltò e gli disse: "Accelera!" - "Che cosa?!" - "Accelera dannazione!!" - "Oh signore. Proteggici ti prego!". E così il ragazzo schiacciò il piede sul pedale fino in fondo e chiuse gli occhi. La jeep fece un salto di 15 metri. Il ponte crollò sotto di loro non appena balzarono verso il vuoto. Sembrava una scena da film! Per qualche breve secondo ci fu il vuoto totale e il silenzio. Pure Jhon chiuse gli occhi e si ritirò di sotto, lasciando la mitragliatrice. La jeep passò in mezzo ad un albero con due tronchi, che formavano una V, sfiorando le cortecce ai lati, e atterrò sul terreno serrato all'inizio della giungla. A causa dell'alta velocità a cui andavano, prima di fermarsi, dovettero schivare alberi, massi e cespugli! "Non ti fermare", disse Jhon. "Mio Dio! Non l'ho fatto veramente?" - "A quanto pare si! Ahaha! Tutto bene là dietro?". Justin e Alex risposero di sì annuendo con la testa. Erano tutti scossi e col cuore in gola, ma in fondo era stato divertente. Dopo qualche minuto che camminavano con la jeep, seminarono la Recluta. Si sentì solo un ruggito finale, ma era ormai lontano.
EPISODIO 30 - ANDARE AVANTI
Erano tutti completamenti distrutti. Sia dentro che fuori. L'isola stava tremando. Gli alberi si spezzavano e rischiavano di cadergli addosso. I massi crollavano dalle montagne e franavano verso valle. Gli animali correvano a destra e a sinistra. C'era il caos totale, proprio come l'altra volta!
Succedeva tutto a rallentatore. Kate appesa ad una liana, ai bordi di un precipizio. Sawyer che cercava di tirarla su. Un'esplosione grossa quanto una montagna spazzò via metà isola. Quella fu la prova che il Metal Gear ormai era distrutto. Ormai si sperava solo che tutto ciò avesse funzionato. E che non fosse stato un sacrificio inutile. Tutti quei dinosauri, la vegetazione... Stava andando tutto distrutto! C'erano cadaveri di animali ovunque. La jeep andò a sbattere contro il collo di un Brontosauro disteso morto a terra, e fece un balzo, andandosi a schiantare contro un albero. I sei passeggeri fecero in tempo ad abbandonare la macchina prima che il tronco di quell'albero vi cadesse sopra e la schiacciasse come carta. C'era un terremoto allucinante sull'isola. Si vedevano addirittura le onde del mare, alte almeno una quarantina di metri, schizzare in alto oltre gli alberi! Scappare integri da lì sarebbe stato veramente arduo. Justin prese un attimo Alex da parte, e gli disse: "Alex ascolta. Lo so che ora ti sembrerà difficile da capire. Ma io e te siamo stati amici per tanti anni...". L'amico però lo interruppe: "Justin. Ora ricordo tutto!", e scoppiò in lacrime abbracciandolo. I due rimasero abbracciati per qualche secondo, entrambi piangevano, mentre attorno a loro continuava a cedere tutto quanto. Poi Justin gli disse: "Alex, dov'è Lisbette?" - "L'ho lasciata alla spiaggia. Loro hanno una nave!" - "Raggiungila. Portala via da qui!" - "Che cosa?! E tu?" - "A me in ogni caso mi ammazzeranno. Quindi non potrei venire con voi" - "Cosa vuoi fare?" - "Vado a cercare David. Non posso lasciarlo qui! Ci vediamo in un'altra vita fratello!". Per comunicare tra loro, i supersiti, dovevano urlare, per sovrapporre le voci al rumore stordente del terremoto. "Jhon, Tim, Charlotte! Anche voi. Andatevene", disse Justin - "Grazie di tutto giovanotto", rispose subito Jhon, che aveva capito benissimo le sue intenzioni e per non perdere tempo cercò di tagliare corto. Gli strinse la mano e si sorrisero. "Justin... no...", continuava a dire Alex piangendo - "Tranquillo amico. Magari farò in tempo a raggiungere la barca e ce ne andremo tutti insieme!" - "Non prendermi in giro. Sappiamo entrambi che non andrà così!". Justin sorrideva e piangeva allo stesso tempo. Poi di scatto si voltò e corse via. Il gruppo si divise: Jhon, Tim, Alex, Charlotte e Margot, si diressero alla spiaggia, mentre Justin corse dentro la giungla sperando di trovare David.
La gente era già fuori dalla chiesa che aspettava. Era un mattino caldo ed allegro. Erano tutti vestiti eleganti, con gli abiti da cerimonia. Justin arrivò nel parcheggio di fronte, in macchina, con suo padre. Quando quest'ultimo spense l'auto, restarono ancora qualche istante seduti. "Papà... sei felice per me?", chiese il ragazzo - "Ovviamente. Perché non dovrei?" - "Non lo so. Siamo stati così distanti noi due... Mi dispiace" - "Dispiace anche a me figliolo. Ma vedi, nella vita non sempre le cose vanno nel modo in cui vorremmo. Noi, nel bene e nel male, ci siamo voluti bene lo stesso" - "Grazie papà" - "Ora entra e fagli vedere chi sei, maledizione" - "Ahahah.. Certo, non ti deluderò!". Così scesero dall'auto e si diressero verso la chiesa. Tutta la gente ormai era entrata. Tra di loro Justin aveva intravisto sua madre, le sue sorelle, suo zio Mike, Alex e altri suoi amici. Prima di entrare, rimase un momento fuori, a fissare l'ingresso. In quel mentre uscì Alex, per fumare una sigaretta. "Ehy amico. Che fai, non entri?", gli chiese appena lo vide. "Si, tra poco ti raggiungo", rispose lui. Si scambiarono un sorriso di intesa e poi Alex rientrò. C'era un'atmosfera felice nell'aria. E tutti quanti avevano addosso quella strana luce, perfino negli occhi. Justin aveva paura. Come sempre d'altronde. Paura di affrontare il futuro. Però ormai era lì. Nella vita credeva di aver deluso tutti. Ora tutte le persone che amava erano là che lo aspettavano, mancava solo lui. Non poteva deluderle una seconda volta. Ciò che sarebbe successo una volta entrato, non poteva saperlo. Doveva solo fare l'ultimo passo decisivo...
Il centro dell'isola stava risucchiando tutto come un vortice. C'era un vento fortissimo che faceva volare ogni cosa. Persino gli schizzi dell'acqua di mare arrivavano fino in mezzo alla giungla. Caddero due alberi davanti a Justin, e dietro si aprì la visuale. Riuscì a vedere la Recluta, in fondo, che fece un ultimo ruggito, con la testa verso l'alto, e poi sprofondò sotto terra. Kate e James, nel frattempo, si arresero a tale cataclisma. Allora decisero di stringersi l'un l'altra, si accovacciarono a terra, e attesero l'inevitabile, tenendosi per mano e con gli occhi chiusi. Incredibile! Justin riuscì a trovare David. Lo riconobbe da lontano che correva nella sua direzione. "Justin!" - "David!", si urlarono. Però un dirupo si aprì davanti a loro perpendicolarmente, nel terreno, e li divise. Il crepaccio si estese per centinaia di metri, e piano piano si allargava sempre più. "David!", urlò ancora Justin - "Stai attento! Sta indietro!" - "David aspettami lì! Ora salto!" - "No fermo! Non puoi farcela!". All'improvviso il terreno sotto ai piedi di David sprofondò e lui si appese in extremis al margine del precipizio con le dita di una mano. "David!!!! Resisti vengo a prenderti", gli gridò Justin - "No! Scappa! Vattene via!" - "Non ti lascio qua!". Justin doveva saltare. Saranno stati almeno sei o sette metri, ma doveva assolutamente salvare il suo ragazzo. Così prese una rincorsa, tentennò un paio di volte, e alla fine saltò. Vide per un attimo il fondo del dirupo. Era una caduta di almeno cento metri! In fondo c'era pure la lava. Riuscì ad aggrapparsi per miracolo dall'altro lato. David era a pochi metri, ma il masso sul quale si teneva aggrappato, sprofondò ancora più giù, allentandolo ulteriormente da lui. Sembrava un'impresa disperata! Ora David era a qualche metro di distanza rispetto a Justin, in basso a sinistra. 'Fortunatamente' anche Justin sprofondò di qualche decina di centimetri, e si avvicinò così di più a David. "Afferra la mia mano!", gli urlò - "Non ci arrivo!" - "Devi arrivarci! Ti prego amore non mollare!!" - "Non ce la faccio più... sto cadendo..." - "No! Puoi resistere ancora! Ci sono qua io!" - "Justin ti amo! Ti amo e ti amerò per sempre!!" - "Ti amo anch'io! È per questo che ti tirerò su!" - "Non puoi farcela amore mio!! Non puoi...", e scoppiò a piangere - "David!" - "Ti amo tanto!!!" - "David noooooo!!!!!". Fu inutile. Riuscirono solo a sfiorarsi le dita per l'ultima vota, prima che il corpo del povero David precipitò giù per il burrone. Il suo volto spaventato fu l'ultima cosa che Justin riuscì a vedere. Ora il suo corpo probabilmente era già finito nella lava e si era sciolto insieme alle macerie che continuavano a precipitare. Anche se Justin era allo stremo delle forze, gli parve di rimanere aggrappato per diversi minuti interminabili, con lo sguardo sempre fisso verso il vuoto, e le lacrime che gli ricoprivano il viso. Rimase così sconvolto, che piangeva in silenzio. Non aveva nemmeno più voce per urlare. Ma in fondo a cosa sarebbe servito gridare? David non c'era più...
Pochi chilometri più in là, intanto, Jhon e gli altri raggiunsero la spiaggia. Il vento sbatteva le onde con violenza contro la riva. C'era sabbia che volava ovunque, come una tempesta nel deserto. La spiaggia, effettivamente, ormai non esisteva più. Le onde erano così alte che andavano a schiantarsi direttamente contro i primi alberi della giungla. Era lì che si riparavano Alex, Lisbette, Tim, Jhon, Charlotte e la piccola Margot, tutti stretti l'un l'altro, tenendosi per mano come una grande famiglia. Intravidero la nave in fondo, oltre le alte onde del maremoto. Ma era troppo lontana da raggiungere a nuoto e in ogni caso sarebbe stato impossibile affrontare il mare in quelle condizioni. Solo la forza del vento, impediva loro di camminare, figurarsi la violenza della corrente marina!
Justin prese coraggio e alla fine si decise: entrò! Erano tutti seduti dentro, ognuno al proprio posto, sulle panche della chiesa. In prima fila c'era sua mamma, con affianco suo papà e le due sorelline. Dall'altro lato i suoi nonni, tutti e quattro, vivi e vegeti. Dietro di loro lo zio Mike, vestito di nero. Era il più sorridente di tutti. Sembrava felicissimo di vedere Justin. Ma tutti lo erano. C'erano Alex e Lisbette, mano per la mano, e Jack; Kurt e Claire, i suoi ex coinquilini dell'Australia. C'erano anche parecchie persone che non conosceva. Tutti parenti dei suoi amici, pensò. Riconobbe la madre di Alex in mezzo a loro. Infine, in fondo, Justin vide anche Jhon, Tim, la signora Charlotte con la figlia, Daniel con Christian, il Dott. Rossi con Emily e la dott. ssa Elouise. Pazzesco, c'erano proprio tutti. Solo David non vedeva. Lo cercò diverse volte in mezzo alla folla, ma invano. Non capiva come mai non fosse venuto anche lui. Poi si ricordò che era morto sull'isola, ma anche molte di quelle altre persone avevano perso la vita prima di lui. Allora perché non c'era? Cercò lo sguardo di suo padre, che gli fece un cenno con la testa. Forse doveva andare avanti, salire sull'altare... Non capiva ancora perché si trovasse lì. Non riusciva a capire che cosa ci faceva tutta quella gente in quella chiesa. Ricordava solo di essere stato nella sua discoteca preferita, la sera prima, con tutti i parenti e gli amici, e poi di essersi svegliato l'indomani, nella casa dove era cresciuto e aveva passato l'infanzia, e costretto da entrambi i suoi genitori, a mettersi un abito elegante per venire lì. Non ricordava niente di tutto il resto. Solo piccoli pezzi della sua vita confusi e mischiati tra loro. Dall'altare apparve David. Quasi non lo riconobbe da come era vestito. Così elegante non l'aveva visto mai. Indossava un abito bianco molto in tiro. Aveva il gel sui capelli e un viso splendido. Come sempre d'altronde. In lui non vedeva solo la bellezza fisica. Si rese conto di vedere anche la reincarnazione dell'amore! Lo amava come non aveva mai amato nessuno. Forse l'unico rimpianto era quello di non averglielo mai dimostrato bene. Ma lui ora era lì, e sembrava aver dimenticato i brutti ricordi del passato. Era là sull'altare che lo aspettava, col sorriso stampato in bocca. Il sorriso più bello che c'era! In chiesa calò il silenzio. Era pieno di persone, ma in quel momento era come se ci fossero solo loro due.
"Ciao Justin", disse - "David... ma... cosa ci fai tu qui? Cosa ci fanno tutte queste persone?" - "Beh, le hai portate tu qui..."- "No. Io non l'ho fatto!" - "Invece si, pensaci bene" - "... David, non capisco. Che sta succedendo?" - "Cos'è che vuoi chiedermi esattamente Justin?" - "Beh, innanzi tutto spiegami perché siamo qui" - "Siamo qui perché... dobbiamo andare avanti" - "Avanti? Avanti dove?" - "In qualunque cosa venga dopo" - "David, sei strano. E io onestamente inizio ad avere paura" - "Ahah sei sempre il solito. È per questo che ti amo" - "Davvero? Ma io... io ti ho fatto passare l'inferno" - "Non dirlo neanche per scherzo. Siamo essere umani. Tutti sbagliamo" - Oh ti amo anch'io! Abbracciami". I due si abbracciarono dopo tanto tempo. Fu l'abbraccio più bello e più sincero mai ricevuto per entrambi. "Siamo qui per sposarci?", scherzò Justin - "Ahah magari... no, temo sia un po' tardi per questo" - "Già... David. Mi dispiace!!" - "Justin. Non devi piangere. Tutti moriamo prima o poi" - "Non sono riuscito a salvarti. Se non me ne fossi andato quella notte, tu saresti rimasto tutto il tempo con me e..." - "Justin. Basta così. Non è importante. Ora noi siamo qui, no?" - "Ma... se tu sei morto, perché riesco a vederti e a parlare con te?" - "Beh, per lo stesso motivo per cui riesco a farlo io" - "Vuoi dire che?... Oddio...". Justin capì finalmente tutto. Ecco perché erano là riuniti. Ecco cosa intendeva David con 'andare avanti'. Ora era tutto chiaro! "
"Su avanti... vieni qua", disse David a Justin, che piangeva a dirotto e si lasciò cadere tra la sue braccia. "Ma com'è potuto succede?", chiese Justin - "Beh, quando si salva il mondo, è bello morire da eroi!" - "Ahahah!" - "Ti amo" - "Ti amo anch'io!" - "Ma quindi... Tutte le altre persone, sono morte anche loro?" - "Proprio così" - "Ma... come è successo? Io non ricordo..." - "Beh, alcuni sono morti prima di te, mentre altri dopo di te. Capita a tutti prima o poi" - " Ora che si fa?" - "Ora... si avanti!".
Così David prese per mano Justin e insieme andarono in cima all'altare, e si baciarono. Poi si voltarono verso tutti i volti sorridenti dei loro amici, e aspettarono... Justin vide lo sguardo felice di suo padre, quello di sua madre, sua nonna, di Alex e persino di Mike. Dopodiché una luce bianca avvolse tutta la chiesa e tutte le persone. E poi finì...
INDICE:
1 = LO SCHIANTO
2 = UNA STRANA COINCIDENZA
3 = DIVIDERSI
4 = PRIGIONIERI
5 = RICERCA DISPERATA
6 = UNA NUOVA VITA
7 = IL BUNKER
8 = DI NUOVO TUTTI INSIEME
9 = IN MEZZO AI CESPUGLI
10 = LA STRUTTURA
11 = IL PROTETTORE DELL'ISOLA
12 = UN POSTO MIGLIORE
13 = CASA
14 = LA SIRENA
15 = INCONTRO INASPETTATO
16 = IN SPEDIZIONE
17 = LA PORTA
18 = LA GRANDE FUGA
19 = UN GESTO EROICO
20 = ATTO DI FEDE
21 = IL PESCHERECCIO
22 = TERRA ALL'ORIZZONTE
23 = IL PARCO HA APERTO!
24 = UNA SCOPERTA INQUIETANTE
25 = FUNERALE
26 = AK123
27 = VIAGGIO DI RITORNO
28 = METAL GEAR
29 = SALVATAGGIO IN EXTREMIS
30 = ANDARE AVANTI
EXTRA SPERDUTI
Per saperne di più...
1) Anchilosauro
Quando Jhon Evergrand si avvicinò al ruscello per prendere dell'acqua, di certo non si immaginava proprio di trovarsi davanti un enorme Anchilosauro. Restò letteralmente esterrefatto ad avere un animale preistorico, che finora aveva studiato soltanto tramite fossili, a pochi centimetri da lui. Per Jhon fu un'emozione unica e ineguagliabile.
L'Anchilosauro era un dinosauro erbivoro, apparso nel periodo del Giurassico ma che ebbe una grande diffusione nel Cretacico. Era un quadrupede che possedeva delle corazze dotate di placche ossee. Queste placche erano di forma ovale o rettangolare, organizzate in file trasversali (da lato a lato dell'animale) spesso dotate di carene sulla superficie. Il cranio e le palpebre erano anch'esse corazzate. In fondo alla coda aveva un possente macigno corazzato, grande poco più di un cranio umano, che usava per difendersi dai predatori.
2) Il pallone
Prima il Dott. Rossi e Franz, poi Daniel, poi Justin e piano piano tutti gli altri. Sempre nello stesso punto dell'isola, ovvero a circa due chilometri e duecentocinquanta metri dalla spiaggia dove erano accampati i supersiti del volo 0023, c'era quest'albero particolare e deforme. Era molto anziano e robusto. Circa ad altezza uomo, la corteccia era lievemente consumata appunto da questa palla che continuava ad andarci a sbattere. Solo chi cercava qualcosa riusciva a vederla. O meglio, tale episodio accadeva solo quando l'isola doveva illustrare la strada a qualcuno. Matteo Rossi e Franz, ad esempio, trovarono la strada per ritornare al campo, nei primi giorni. Justin ritrovò suo zio defunto, che lo aiutò a capire qual'era il suo scopo, ovvero salvare l'isola. Daniel invece riuscì a ritrovare suo figlio. Era proprio il piccolo Christian a giocare con quel pallone negli anni della sua infanzia passata sull'isola, durante l'ipnosi. Tuttavia, quando Justin raggiunse zio Mike, quest'ultimo aveva il pallone in mano e successivamente lo ricalciò contro l'albero. Ciò accadde perché anche Mike era un "figlio dell'isola". Ovvero uno dei suoi sistemi per comunicare, in questo caso, con Justin.
3) Fauna dell'isola
Non fu la Recluta l'unico esemplare inventato dagli scienziati, ma bensì anche altri predatori onnivori simili a iene, ai quali però non fu mai attribuito un nome. Il primo giorno in cui arrivarono i supersiti del volo 0023, fu proprio uno di questi animali a dar loro il benvenuto. Poi se ne rivide uno qualche giorno dopo, quando Jhon e altri suoi compagni si addentrarono nella giungla per cercare i loro amici. Addirittura, questo quadrupede nero, simile a un felino, fulmineo nei movimenti e abilissimo cacciatore, alto più o meno un metro e sessanta, un giorno fu avvistato mentre divorava un Triceratopo. Non si seppe se fu lui ad attaccare ed uccidere l'enorme erbivoro, anche perché quest'ultimo sarebbe stato parecchio più grosso di lui, ma ciò non toglie che si potettero notare i suoi denti affilatissimi, per non parlare degli artigli, peggiori ancora di quelli dei Raptor. Sarebbe stato bello vedere uno scontro tra una di queste iene del Paleolitico e un Veloci Raptor, però probabilmente la Singem aveva messo alla luce solo pochi prototipi di questa nuova specie, infatti si vedevano di rado. Probabilmente, prima dell'incidente, stavano ancora attestando le potenzialità di tali esemplari, e solo dopo determinati esperimenti, essi sarebbero poi stati creati in quantità sufficiente per creare un sistema biologico. Pertanto, questa nuova e strana razza di dinosauri, era considerata a rischio d'estinzione.
4) Il bastone
I simboli riportati sul bastone di Geremy erano gli stessi che c'erano nella grotta, quella più profonda, ovvero dove vivevano i protettori dell'oscurità, coloro che con l'inganno volevano far prendere il loro posto a qualcun altro, per poi finalmente scappare. Geremy, l'omaccione vestito di nero, strambo e con quello strano cappello in testa, portava sempre con sè tale bastone. Lui, uno dei protettori del male, aveva la facoltà e il compito di girare per il mondo alla ricerca di candidati per la loro missione, ovvero quella di rubar loro la vita e condurli sull'isola. Appariva come una persona buona, di cuore. Diceva sempre frasi sagge e che sembravano fatte per aiutare le persone a cui faceva visita. In realtà le manipolava, faceva credere loro che la strada giusta da prendere era quella che li condurrà poi sull'isola. In effetti era così. Il destino li ha portati tutti laggiù per salvare il mondo. Fatto sta che, anche se morirono quasi tutti, il piano di Geremy non funzionò. O meglio, egli riuscì perfettamente nel suo intento, ma una volta portati i candidati sull'isola poi le cose presero la loro direzione.
5) Gli indigeni
Prima che l'aereo dei protagonisti precipitasse, sull'isola abitava già parecchia gente. C'era il protettore dell'isola, Hugo Reyes, o Hurly, come si faceva chiamare lui. Poi c'erano i suoi aiutanti, Benjamin Linus e Walt. All'ex villaggio Dharma invece si erano stabiliti i supersiti rimasti del volo Oceanic 815, insieme ad alcuni degli ex "ostili", ovvero l'esercito di Jackob. Questi erano i "buoni". Poi, oltre a loro, c'erano i protettori della porta dell'oscurità, nel centro dell'isola, in fondo al vulcano. Essi avevano un capo, che si spacciava per proprietario della Singem, l'equipe di scienziati e militari che aveva dato alla luce i dinosauri e aveva costruito la Struttura e le altre basi. Poi c'erano i suoi bracci destri, Shon, ex marito di Charlotte e assassino di Emily, la figlia del Dott. Rossi, e altri uomini in giacca e cravatta. Infine c'erano gli indigeni, ovvero gli abitanti dell'isola, coloro che vivevano nella foresta in vere e proprie tribù, come gli Indios. Anch'essi erano capeggiati da un uomo grasso con una corona di fiori in testa, che aveva a sua volta un braccio destro, ovvero Christian, il figlio di Daniel, rapito cinque anni fa e ipnotizzato per farlo annettere al loro "esercito". Per quanto riguarda gli uomini vestiti di bianco, loro non erano altro che persone come Justin, Alex e company, portati anche loro lì con l'inganno e sottoposti all'effetto di tale ipnosi, che serviva a far eseguire loro gli ordini dei capi. Essi si occupavano dei riti, ovvero delle preghiere strane, pronunciate tutte nella loro lingua sconosciuta. Tali riti permettevano di ipnotizzare altri individui, oppure di trattenere il male quando veniva sacrificato qualche prigioniero nella lava. All'inizio i supersiti del volo 0023 credevano che essi volessero invece risvegliarlo, il male. Poi scoprirono in realtà che li avevano catturati per fargli prendere il loro posto e fuggire via da quell'incubo. Erano ormai secoli che i protettori dell'oscurità vivevano sull'isola. Non si sa con precisione a che data risale il loro arrivo. Ma proprio come i protettori della luce bianca, anch'essi si tramandavano di generazione in generazione. Quindi probabilmente svolgevano tale compito da secoli, o millenni, proprio come gli antenati di Jackob.
6) Roland
Roland era il comandante del peschereccio che forniva il pesce agli abitanti dell'isola, e nel frattempo allontanava i curiosi. Ne lui, ne il suo equipaggio, era al corrente di cosa accadesse laggiù. Quando trovarono i supersiti del volo 0023 in mare, alla deriva, per istinto vollero caricarli sulla barca per poi portarli lontano dall'isola. Ma quando essi raccontarono tutte le loro disgrazie, il destino scatenò la sua rabbia, facendo affondare tale imbarcazione e uccidendo tutti i membri dell'equipaggio. I pochi rimasti del volo 0023 si divisero, alcuni lasciarono l'isola e altri vi rimisero piede involontariamente, trasportati dalla corrente. Per l'anno successivo, quelli andati via fecero una vita terribile, tanto da decidere di tornare laggiù per sistemare le cose, mentre quelli rimasti vennero trovati dalla nuova Singem e ipnotizzati nuovamente. Sull'isola era già il 2026. Lo spazio temporale si aprì quando il Vulcano, esplodendo, fece liberare parte di quella luce bianca, che spostò l'isola a dieci anni dopo. Una cosa simile era già successa, quando Benjamin Linus, nel 2004, aveva girato una ruota, creata dagli antenati degli indigeni, e aveva spostato così l'isola, sperando di evitare che venisse trovata e saccheggiata dagli uomini di Charles Widmoore.
7) Metal Gear
Il Metal Gear era la Struttura stessa. La sua parte inferiore, quella che si propagava sotto terra. Essa era distesa lungo tutta la superficie dell'isola e aveva dei punti di sbocco, tramite i quali sarebbe esplosa per distruggere tutto. Fu la vecchia Singem a inventare il Metal Gear. Poi quando abbandonarono l'isola, rimase lì per anni, fino a quando la nuova Singem ne prese possesso. I capi della nuova Singem erano anch'essi protettori della porta del male, e adottarono la tecnica dell'ipnosi per annettere tanti altri uomini al loro servizio. Tra questi anche alcuni dei supersiti del volo 0023. Una volta distrutta tale macchina, l'isola sprofondò. E con lei pure l'oscurità, che così non avrà più modo di uscire e diffondersi nella Terra. L'eroico sacrificio di Justin e i suoi amici servì a salvare il mondo.
8) La chiesa
La chiesa dove Justin ritrovò tutti i suoi amici non era altro che un luogo immaginario, scelto come punto di ritrovo per fare in modo che pure lui se ne facesse una ragione, e insieme ai suoi cari proseguisse oltre. Justin ancora non sapeva di essere morto, o meglio, non voleva accettarlo. Se ne rese conto solo quando rivide David, che lo aspettava sull'altare. Quando si baciarono, la stessa luce bianca che un tempo fece precipitare l'aereo, e che veniva protetta sull'isola, avvolse tutto quanto e finalmente i protagonisti potettero andare avanti, in "qualunque cosa venga dopo", come disse David. Nessuno sa cosa c'è dopo la morte, ma loro vollero creare un posto dove ritrovarsi tutti, prima di scoprirlo. Quando finalmente si riunirono, furono finalmente pronti per andare oltre, insieme.
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