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La Parola
Il ronzio degli studenti distratti cessò rapidamente ad un segnale ormai codificato; il professore riordinò i suoi due pesanti volumi l'un sull'altro lungo un lato della cattedra, e allo schiocco delle rigide copertine venute a contatto la lezione era ufficialmente cominciata.
A procedere come al solito, il professore aprì la cartella con il programma per il giorno e ne vagliò silenziosamente i relativi appunti, diligentemente assorto per almeno un paio di minuti.
A parte qualche colpo di tosse sommessa e un discreto fruscio di piedi nell'incrociar le caviglie, la classe intera taceva per rito e si confermava al normale svolgimento.
Il professor Bianco era un tipo taciturno, sì, e spesso non si capiva che aria tirasse, con il suo piglio austero e distaccatamente disgustato, ma operava come un orologio svizzero e i suoi metodi erano tanto prevedibili quanto i Giovedì sul calendario. A lasciargli spazio, senza disturbare le sue procedure monastine, si guadagnava in interrogazioni preparate di concerto e niente fuori programma inconvenienti.
Era la penultima settimana di corso e l'Estate già si sprimacciava melliflua, allungando dita di luce accecante tra le lame grigie delle persiane, ma la disciplina per quest'ora della mattina si manteneva straordinariamente autunnale.
Il professore corrugò la fronte, prese un lento e profondo respiro e continuò a scorrere lo sguardo tra righe apparentemente interminabili, poi come di norma si rivolse a Doviti con un distinto ed educato borbottio, senza levar gli occhi dalla cartella, ripetendo la formula "Tutti presenti, oggi?", alla quale lo studente in fondo all'aula rispose prontamente, da bravo caporale: "Sì, professore. Manca solo Shaki, che ha cambiato corso dalla settimana scorsa."
"... Dalla settimana scorsa," mormorò all'unisono il professore, confermando l'aggiornamento sull'appello. Non si sapeva come Doviti si fosse beccato il compito di far la conta dei presenti per Bianco, ma così fu deciso da quest'ultimo dopo il primo appello in classe.
Doviti era il tipo che ruttava ad arte ed elemosinava palesemente per l'aiuto dei compagni quand'era alla lavagna, ma forse l'arcano Bianco l'aveva inquadrato sin dall'inizio, e investito della responsabilità proprio apposta.
L'insegnante estrasse un foglio dalla cartella, lo pose davanti a sé e incrociò le dita sulla cattedra, osservando un punto sconosciuto sulla finestra nell'angolo.
"In base all'insieme delle opere studiate durante questo semestre possiamo ora cogliere i frutti della nostra ricerca, la quale per sua riconosciuta costituzione s'è rivelata necessariamente approfondita," disse atono, "In accordo con le linee che ci eravamo prefissati, e in tempi produttivi, aggiungerei."
Con un vago sorriso di punteggiatura aprì lo sguardo su vari volti a caso, suscitando in ognuno degli interessati una rapida escursione mentale di nozioni d'ordine, fosse mai avesse deciso di soffermarsi per verificare gli individuali stati di preparazione.
"Dunque..." cincischiò con le coste dei libri, arrestandosi per un attimo e correggendosi con affettata ironia. "Non si comincia una frase con Dunque, ovviamente, non fate il mio stesso errore... errore clericale, ma sempre sgraziato... e lo accentuo, perché..."
E ora parte una storia, pensò simultaneamente quasi tutta la classe, notato il riconoscibile preambolo.
"... Perché ai miei tempi da giovane, mentre attendevo il mio turno per un importante esame, vidi un mio collega cominciare il suo argomento d'introduzione con un distratto ma sonoro Dunque, e prima che potesse accennare un'altra sillaba, l'esaminatore, che non era conosciuto nell'ambito, lo fermò e gli disse, chiaro come una fucilata: Dunque è una congiunzione, non un soggetto. Lei ha finito. Buona giornata."
Le studenti in prima fila sorrisero e scambiarono sussurri di circostanza.
"Potete quindi constatare," continuò Bianco, "come sia avvisabile il soppesare con cura ogni parola, e non solo farle pesare per effetto."
Gettò un altro sguardo sul foglio, poi concluse, in tono piú amministrativo, "Di lezioni, d'altronde, ne abbiamo imparate... giusto?"
Essendo una di quelle domande lasciate a levitare per poco nei momenti di transizione, non si sapeva bene se rispondere con brusii di conferma o considerarla retorica e lasciarla evaporare.
In genere dipendeva dalle impercettibili variazioni d'umore del professore.
E a cogliere quelle sì, che lo si era imparato.
Bianco scostò la sedia dalla cattedra, s'alzò e infilò le mani nelle tasche, quasi al rallentatore, guardando attraverso la finestra dal vetro piú scuro.
È una di quelle con la camminata sulla plancia, pensò l'Uniclasse, preparandosi all'uscita del nome.
"Pirei, da dove dovremmo riprendere il discorso circa i nostri scrittori russi e slavi dell'Ottocento e Novecento?" chiese, apparentemente apatico.
Pirei esitò nel suo "Sì..." per raccogliere i pensieri, mentre Bianco stava di fronte al vetro e scrutava il secondo edificio antistante. Pirei cominciò a introdurre il periodo storico come da prassi, recitando abbastanza speditamente i passaggi memorizzati di fresco appena un'ora fa.
Il professore si dondolava lentamente tra la punta dei piedi e i tacchi delle scarpe.
Sia Pirei che il resto della classe sapevano di poter dare piú d'un'occhiata ai loro appunti, e così continuò l'argomentazione.
Bianco piegò il capo da un lato e sembrò esser distratto da qualcosa in movimento verso la parte opposta del vasto cortile esterno, passò l'indice sotto i corti baffi rossicci e aspettò che Pirei finisse la frase. "Delle antologie assegnate il mese scorso, di quale ci vuole parlare..." chiese, alla ricerca d'un nome. "... Cossani?"
Nel mezzo delle menzioni d'obbligo circa Dostojevski, Cossani si perse e cominciò a cincischiare con accenni già discussi per ritrovare il filo. Bianco si schiarì la gola e si voltò, avanzando lentamente verso la cattedra. "Bene. Melopagani, lei si preparò per Pushkin nella scorsa relazione..."
Melopagani annuì, battendo le ciglia e sistemandosi meglio sulla sedia.
"Vuole condividere le sue impressioni sui lavori di Cechov che l'hanno interessata di piú?"
Melopagani introdusse fluentemente autore e opere ed elaborò sulle produzioni teatrali.
Bianco tappeggiò le nocche d'una mano sulla cattedra, guardando la lavagna, il pavimento e annuendo occasionalmente quando lo sguardo si posava su Melopagani, dritta sui binari ed esaustiva.
Le lancette dell'orologio incalzavano altrettanto senza indugi.
Bianco ascoltava partecipe, tornando alla finestra e guardando di fuori con le mani in tasca.
Da vedetta, somigliava ad un generale inglese intento ad esser ragguagliato sugli ultimi sviluppi dal fronte d'una lunga guerra.
Fuori la porta s'udì un gruppo di studenti passare in corridoio, contribuendo alla distrazione incipiente. Il professore intervenne verso la fine della ricapitolazione di Melopagani, fece un cenno di approvazione e si diresse alla lavagna, scegliendo uno dei gessetti e delineando i temi trattati in alcuni insiemi separati, vergandone termini e nomi d'appartenenza.
La classe assisteva e riproduceva lo schema sui loro quaderni.
Bianco posò il gessetto e sfregò i polpastrelli, appoggiandosi al bordo anteriore della cattedra e chiedendo a Da Minici della sua lettura di relazione per il mese.
Da Minici aveva la risposta pronta ed esordì con un curioso schiocco di lingua, evidentemente non intenzionale. Aveva, insieme a Melopagani, i voti migliori della classe.
"Il romanzo è Due Prigionieri di Lajos Zilahy, ambientato..."
Bianco aveva sollevato l'indice ed aveva annuito, poi spostò lo sguardo verso Pirei, arrestando Da Minici con un palmo aperto; "Dove ci troviamo?"
Pirei si trattenne dal rispondere Cecoslovacchia, tradendone però l'istinto.
Bianco ruotò le pupille fino a posarle su Melopagani. "Cossani?"
"Ungheria," rispose Cossani, con una punta di compiacimento.
"Luogo di nascita?" aggiunse il professore, vagamente sornione.
Doviti alzò la mano, uno strano segnale dal fondo della classe. Bianco sollevò appena il mento in direzione di Doviti, che pronto disse "Transilvania."
"Esatto," confermò Bianco, "Romania."
Cossani, Melopagani e alcuni altri studenti scambiarono un sorriso ironico col professore, che subito ricalibrò l'attenzione su Da Minici per farne riprendere il contributo.
Bianco ascoltava a braccia conserte fissando il pavimento, quando nuvole passeggere adombrarono l'atmosfera in sfumature plumbee. Si riavvicinò alla finestra mentre Da Minici rendeva conto della trama del romanzo, partendo dalla struggente conclusione d'un rapporto inconcluso e disfatto dagli eventi della Grande Guerra, descrivendo il filone generale.
C'era un bisbiglio smorzato tra due banchi, mentre il professore si incamminò lungo il davanzale, apparentemente colto a scrutare le innumerevoli scritte, disegni e scarabocchi arzigogolati a singhiozzo. Il bisbiglio cessò e diverse pagine furono sfogliate.
Bianco si fermò all'angolo opposto del muro e guardò fuori dalla finestra, irrigidendo la mascella. Da Minici tentennava a disagio una volta esaurito il riassunto di dovere, ma il professore pareva decisamente piú assorto del solito, anche se era lì ad ascoltare ogni parola. Da Minici riprese a parlare dell'autore con alcune note e citò altri suoi lavori e collaborazioni teatrali.
Bianco tornò all'altro angolo della stanza, davanti al vetro piú scuro. Il Sole tornò con un abbaglio, cogliendo il volo radente d'un balestruccio e stagliandone un'ombra fugace sul muro. S'udì un altro bisbiglio piú marcato, poi il cauto spostarsi d'un paio di sedie.
Da Minici aveva ovviamente esaurito gli argomenti, scandendo meccanicamente le ultime nozioni di merito. Venne ad incombere un silenzio dapprima aspettato, secondo le note pause di Bianco, poi sinistramente paludato quando le nuvolaglie in corsa schermarono di nuovo il Sole. Diverse paia d'occhi si levarono alla rigida nuca del professore, fisso a rimirare ignoti barbagli all'orizzonte. Da Minici ricambiò gli sguardi di altri compagni vicini, facendo spallucce e inarcando le sopracciglia.
"Perché prigionieri? A parte il contesto, cosa li rende tali?" chiese Bianco con voce roca e appena al di sopra del tono con cui avrebbe borbottato a se stesso. "... Pirei?" aggiunse, prima che Da Minici prendesse un respiro rassegnato.
Pirei dissertò spigliatamente sul concetto chiamato in causa, sapendo d'avere il peso della lezione sulle spalle e controllando l'orologio così come gli altri studenti; al presente minutaggio ci sarebbe altrimenti stato un discorso a tema del professore, o un intuibile test di mezz'ora.
Bianco, visto di fianco, socchiudeva gli occhi e portava la mano al taschino della camicia, la rimetteva in tasca e sembrava seguire le evoluzioni dei bassi cumulonembi, unendo e separando le labbra di poco come in completo, annoiato oblio.
Pirei ampliava le riflessioni con sufficiente costrutto e senza divagazioni, ma il mantenere un ragionamento lineare rapportato ai riferimenti esterni si faceva piú arduo a mano a mano che approfondiva il soggetto.
Cossani passò un biglietto al banco vicino.
Bianco era ritto di fronte alla finestra, animandosi solo per sistemare gli occhiali sugli zigomi. Forse ascoltava, forse no.
Pirei aveva toccato il fondo del barile, cercando una fuga negli asciutti schemi sulla lavagna, ma anche considerando di potersi allacciare a temi vagamente associabili.
Una mezza dozzina di balestrucci seguì fugace la traiettoria lasciata prima dal loro simile, come l'agitarsi di mani per un teatro delle ombre.
Pirei ronzava nell'epilogo della sua presentazione, diluendo la zuppa senza piú astutezze. Alcuni studenti passarono in corridoio, e la loro presenza ovattata s'irradiò invadente a livello del pavimento.
"La storia, il senso della storia..." eruppe quindi Bianco, come una secca spaccatura nel ghiaccio. Tutti gli occhi tornarono tra le pieghe del collo del professore.
"Come ci raccontano la storia, i nostri autori? La descrizione e dissezione di personaggi ed emozioni... come la si potrebbe definire?... Cossani?"
Cossani si sentì preso per il bavero della camicia, mentre la strana atmosfera di paralisi sembrava essersi dissipata.
"La descrizione può esser definita... intima, finemente dettagliata, così da dare al lettore un senso ravvicinato delle... delle dinamiche personali, in rapporto ai confinamenti della realtà mondana e delle convenzioni sociali, suscitando una schietta... empatia, nella loro spesso drammatica umanità, la drammatica umanità dei personaggi. Ciò è visto attraverso la lente della nostalgia, già insita tradizionalmente nella filologia... filosofia russa..."
Bianco si allontanò dalla finestra nell'angolo, massaggiandosi il cranio pelato con
fare di nuovo assorto. "Intendevi dire raffinatamente dettagliata?"
Cossani replicò istintivamente per non marinare nell'interruzione. "Sì, una descrizione intimamente... resa, tramite uno squisito uso di fini dettagli e sfumature emotive, oltre che di ambientazione." Cossani realizzò di aver ricamato all'uopo sul margine di Bianco, ma si chiese se avesse mancato di cogliere un bizzarro invito a correggersi, un accenno a chissà quale altra tematica, o se quello era semplicemente semi-perso nel suo rimuginare.
"Lei ha trovato cos'è che cova nella coscienza popolare russa, o piú ampiamente slava, che ne causa la proverbiale, inscindibile malinconia?" chiese Bianco.
Cossani sapeva che, non avendo segnalato altrimenti, il professore intendeva continuare con lui, ma perlomeno si trattava d'una nuova parete e non c'era bisogno di cercare altri appigli. Constatò però di dover ora commentare su altri spunti, e chissà dove si andava a parare. Quell'orologio poi non si muoveva piú come prima...
Sperò che per un contributo del genere Bianco saltasse a Melopagani lasciandola parlare per un po', data l'aria che tirava, così questa cavolo di lezione sarebbe andata in porto.
Il professore era lì, imbambolato, sempre davanti alla finestra, i suoi pesanti libri allineati sulla cattedra accanto alla cartella aperta.
Cossani fece del suo meglio per caratterizzare un filone di riferimento tra gli autori già citati, elaborando verbosamente e ricalcando stralci della risposta di Pirei, ma l'arrampicata su alti specchi ben levigati si figurava inevitabile.
La domanda non era mica facile... anzi, che razza di domanda era, verso la fine dell'ora?
I banchi di nuvole ottenebrarono fitti il cielo, quasi preannunciando un acquazzone.
Bianco tornò ad appoggiarsi sul bordo della cattedra, di fronte a Melopagani. "Cossani ci ha appena parlato della sensibilità russa, lei che analisi ne fa? Cosa si evince dal languore espresso in volti e luoghi cari a personaggi... d'estrazione nobile o umile che si voglia, accomunati da un orgoglio atavico?..." Melopagani stava già per rispondere, Bianco s'arrestò brevemente, "... di fondo?" chiese conclusivamente, mordicchiandosi il labbro inferiore.
"È... la riflessione d'un sentire collettivo, della coscienza collettiva riferita ad immagini legate all'esperienza comune d'un popolo figlio della vasta, e spesso aspra, natura geopolitica..." rispose sicura Melopagani, quando Bianco ripeté "La coscienza..."
Melopagani continuò mantenendo il contatto visivo con il professore, che però piegava la testa e tornava a cercar occhi nel pavimento.
"... Come sintetizzato in un'espressione quasi autocriticamente affettuosa, proprio di Anton Cechov, che disse..."
Bianco torse le labbra di lato e porse l'orecchio a Melopagani. Lei fu pronta a recepire, sorrise a metà e si corresse. "Il quale disse che i russi amano il passato, odiano il presente e..."
"... E temono il futuro. Per la precisione." chiosò il professore. "La scontentezza, l'attitudine a lamentare ciò che fu e che si conosce... o meglio riconosce, come voci dell'animo di un cittadino disilluso, d'un lavoratore avvinto ad una schiacciante rivoluzione d'intenti, del contadino, mai padrone delle proprie patate..."
Melopagani annuì compita, senza piú l'impulso d'anticipare o intervenire.
"Le amarezze e le caute speranze velleitarie dipinte nei pomeriggi dei salotti di Pietroburgo, le distanti e gelide prese della burocrazia centrale moscovita, disarmante quanto i severi abbracci della madre steppa... l'ufficiosità militare come disperata dignità a fronte della barbarie bellica, l'onore d'una famiglia dove il patriarca anela ad un futuro migliore... per chi?"
Il suo sguardo tornò tra gli alunni, ma la retorica qui era chiara; nessuno avanzò una risposta istantanea, pur cercando di comporre una reazione adatta giusto in caso.
"Per i figli, per chi si spera abbia un futuro migliore, chiaro, no? Alla fine del diciannovesimo secolo, quella era la luce tra le nebbie... promesse, avanzamenti... e, se non un periodo di studio nell'attraente Francia, un posticino borghese all'ombra rassicurante del Cremlino, o tra le floride campagne bagnate dal Volga... o dalla Volga, a preferire."
Bianco proseguiva a ruota, l'orologio a scandirne impaziente l'estemporaneo monologo.
"Si trova quella malinconia perenne, persino negli episodi di gioco tra giovani pronti al sentimento... avete presente quel sussurro amoroso rivolto alla bella, che si perde tra il vento e il movimento di un istante? Mai colto, mai sbocciato, quindi perso nella nostalgia delle cose che furono o che sarebbero potute divenire..."
Gli studenti nel raggio dello sguardo di Bianco annuirono. Fosse che stesse rivivendo il ripasso d'un esame a suo tempo?
"... E in questa prospettiva intima, limitata... e fallace, ma ricchissima di particolare umano, profusa di esercizi d'intelletto e ragioni del sentire, si legge e si studia la condizione di vita in una prosa inevitabilmente, intrinsecamente, poetica..."
L'incupimento del cielo opprimeva la stanza in ombre disagevoli, era quasi certo che di lì a poco avrebbe piovuto forte.
D'Irgreo, seduto al banco piú vicino all'interruttore accanto alla porta, pensò di chiedere al professore se fosse il caso di accendere le luci. Ma Bianco era troppo preso, e non gli sarebbe andato a genio di fargli da interlocutore in quel frangente.
"Abbiamo visto la rassegnata desolazione esistenziale, praticamente ineluttabile, e la minuta ricerca d'una consolazione, no? D'una redenzione accampata su imprevisti momentanei che non siano solo forieri di disgrazia e logoramento, come nelle passeggiate improvvise di Kafka, e non avvinte all'alienazione tra persone pur discernenti... o in un rapporto formale, sulle righe d'una fredda analisi medica, come nelle frustrazioni di Tolstoj."
Alcuni degli studenti avvertivano una certa ansia per qualsiasi cosa si stesse approntando, pur se agli sgoccioli della lezione. I banchi di nuvole soffiarono verso il sud-ovest della città, riaprendo le cortine al vivido blu dell'assolata mattina.
D'Irgreo udì Carolesi rivolgerglisi con un sussurro strozzato. "Giorgio?"
D'Irgreo si voltò piano, con le pupille giroscopicamente dirette alle camminate di Bianco mentre sproloquiava ininterrotto.
"Questo ha sbroccato, finalmente..." sibilò Carolesi. D'Irgreo stirò un sorriso all'ingiú a denti stretti, tornando a seguire l'animato andirivieni del professore.
"... Attraverso lo studio ne riscontriamo le sfaccettature psicologiche e culturali, ma è già tramite la lettura che lo scrittore ci cala in quella realtà opaca, ruvida e fin troppo avvinta ai destini umani... fino a che noi, io, te... vediamo attraverso la lente rivelatrice posta direttamente, guarda un po', di fronte ad uno specchio... un alto e antico specchio riposto in soffitta..."
Vari polsi rotearono a mostrare il quadrante d'un orologio.
"Ed è attraverso la fine angolatura e rifrazione di questa lente discorsiva, che tale preziosa letteratura ci dà..."
Le ultime penne finirono di segnare veloci appunti, alcuni fogli vennero silenziosamente rassettati, Bianco tornò a guardare fuori dalla finestra con le mani in tasca.
Era ormai tempo di chiudere, ed era insolito che il professore non avesse già concluso ragionamenti o interrogazioni, occupato a controllare la sua rubrica mentre sedeva alla cattedra. La classe vicina alle scale, a lato del corridoio, cominciò a svuotarsi con un chiacchiericcio scomposto. Nell'aula di Bianco, quel silenzio sospeso di prima tornò a posarsi come un telo umido distaccatosi inaspettatamente dal soffitto color crema.
Tutti guardavano il professore, Da Minici altrimenti pronta con la sua breve domanda su questa o quella precisazione.
Bianco ripeté, riprendendo a parlare "... Che tale preziosa letteratura ci dà una... ci offre la..."
Posò i palmi delle mani sulla mensola sopra i termosifoni, ostinato a perlustrare l'orizzonte assolato. "Perciò è attraverso quella prospettiva, che... questa letteratura storica ci offre... una..."
Melopagani piegò il collo e scosse il capo per muovere le ciocche ricciute, impaziente.
Bianco s'incurvò davanti al vetro, ticchettando indici e medi, cercando la parola che, incredibilmente insolente, gli sfuggiva.
Doviti portò il pugno chiuso alle labbra, tossendo affettatamente. Due compagni si voltarono e fecero "no" col capo, indicando di lasciar perdere.
L'uomo fece ballare una gamba, massaggiandosi il cranio glabro.
"Questa letteratura ci dà una... una..." mormorò di nuovo, raddrizzandosi e prendendo lente boccate d'aria, lasciando cadere la mandibola. Crucciava la fronte, socchiudeva gli occhi e tradiva la sua ansia nel focalizzare non piú un punto perso chi sa dove nel cielo, ma già al di qua del vetro. La campanella suonò nella testa degli studenti alcuni secondi prima del vero e proprio trillo, e nessuno si mosse dalle sedie.
Nuvole gonfie di cotone schermagliavano col Sole, alternando il ventaglio di luce sui muri dell'aula.
"La... è attraverso questa lente che il volume di questa letteratura, di tale letteratura, ci dà... una..." ripeté. La tensione legava gli studenti ai loro banchi, quando il corridoio raccoglieva e riverberava le molte voci di passaggio. Bianco era rimasto immobile, animandosi solo per poggiar le mani sulle anche. Un brusio montò dal fondo della classe, qualcuno s'alzò dal posto e guardò intorno, scambiando occhiate tra i compagni e il professore.
"Una... ci dà una..." continuò questi, terribilmente perso a se stesso. I suoi tomi e la sua cartella giacevano, soli, sul piano in formica.
D'Irgreo s'alzò, aggirò il banco e si diresse nervosamente verso la porta, che pareva fosse stata chiusa ermeticamente. Da Minici lo fermò, senza alzare troppo la voce, "Aspetta..."
D'Irgreo gesticolò facendo spallucce, esprimendosi col labiale, poi si fece incerto e considerò se tornare a sedersi o meno. Quasi tutta la classe era in piedi, comunque, con lo zaino in spalla ed enormi punti interrogativi in volto.
"Professore... scusi..." azzardò Cossani, nell'esatto momento in cui Pirei tentò di completare la frase di Bianco. "La letteratura russa dà una visione approfondita della condizione umana, è un esempio esplorativo... "
Tutti si zittirono, nel corridoio procedeva il normale tumulto. Bianco incrociò le braccia al petto, poi divincolò la mano destra per stirare gli angoli della bocca con pollice ed indice. "No..." replicò rauco, rispondendo ad un suggerimento che sarebbe potuto apparire sulla superficie della finestra. "Ci dà una... una..." seguitò a bofonchiare.
Gli studenti, attoniti, sapevano che c'era una brutta piega nello stallo del professore, del tutto assente.
Aveva di fatto lasciato la stanza... ma fuori dalle mura, in bilico su cavi invisibili, ben lontani da quella parete.
"Un riscatto, un riscatto idealistico, forse?" accennò qualcuno. Un gruppetto si radunò alla porta, altri discutevano preoccupati. "No... non è quello il termine che cerco..." mormorò Bianco a sé.
Tre ragazze raggiunsero la porta difilate, quella nel mezzo visibilmente turbata. Aprirono la porta e uscirono nel corridoio trafficato. La pressione sfiatò finalmente dall'aula, altri studenti seguirono le compagne mentre i restanti si spingevano attorno ai primi banchi, con i cellulari in mano.
"La letteratura ci dà... una... ci dà una..."
Pirei e Melopagani avevano informato due insegnanti che s'intrattenevano nell'aula accanto, e che accorsero subito. Bianco era lì, ritto e immobile, a guardar fuori dalla finestra.
Da Minici lo supplicò "La lezione è finita, professore. Si sieda, per favore... forse non si sente bene."
L'uomo, quasi in trance, continuava a cincischiare con una mano in tasca e a stuzzicarsi il labbro inferiore con l'altra, bisbigliando un suo mantra come ad indovinare la particella chiave in una lunga equazione incompleta. Lo guardavano attoniti, chiedendosi cosa mai lo stesse tormentando.
I due insegnanti entrarono nell'aula, perplessi, e videro il loro collega voltato di spalle, con un coro dei suoi studenti fissi ad aspettare, come se un albero centenario fosse dovuto cadere da un momento all'altro.
"Ma che succede?" chiese discretamente il professor Còlai.
"Ci stava spiegando un tema alla fine della lezione, poi s'è interrotto a metà frase e non è piú andato avanti, s'è bloccato..."
"Non gli veniva in mente una parola e ha perso il filo del discorso, pareva avesse una paralisi."
"S'è sentito male? È caduto?" chiese ancora Còlai.
"No, non s'è mosso dalla finestra... e parla da solo."
Bianco era paonazzo, si palpava la nuca e guardava di fuori. Tra le nuvole di passaggio.
Còlai posò la sua valigetta e gli s'avvicinò, seguito dal professor Miliazi, che finì una chiamata e chiuse il telefonino.
"La letteratura russa ci dà... una..." arrancava Bianco con un fil di voce.
"Gualtiero, tutto a posto? Ti senti qualcosa che non va?" accennò casualmente Còlai.
Bianco piegò appena il capo, sorrise stranamente senza distogliere gli occhi e ribadì:
"È questa letteratura che ci propone una... che ci rivela... la... la, la... insomma, è la letteratura in particolare che ci dà, appunto, che ci dà una..."
Premette sul mento le nocche puntute.
I due colleghi si guardarono sconcertati. Còlai provò di nuovo ad approcciare Bianco.
"Sono Pasquale... c'è pure Francesco." Miliazi gli cinse leggermente il braccio.
"Dai, lascia perdere 'sta lezione... andiamoci a fumare una sigaretta, eh?"
Bianco sollevò una mano, aprì il palmo e indicò d'essere pazienti, d'aspettare di lasciarlo riprendere. E quella mano tremava un po'.
"La... la..."
"Gualtiero, su, andiamo..."
"È una... una... è che ci dà la..."
Il cielo si schiarì completamente, laggiú nell'orizzonte terso di Bianco; invece di piccoli corpi alati ad arrampicarsi per l'aria, c'era ora uno stormire di giovani sul cemento rovente, a destra e sinistra dell'ampio cortile.
Il professore era chino di fronte alla finestra, mani sul davanzale, il moto nervoso dei baffi ispidi a tradire una cosciente tensione.
Miliazi cercò di far uscire gli studenti rimasti, ma un paio ancora indugiavano presso la porta. Còlai estrasse impaziente il suo cellulare, segnalando al collega di tenere un occhio su Bianco. I due studenti lo precedettero nel corridoio, dove s'era aggregata una folla di curiosi. L'insegnante chiuse la porta e pregò tutti di pazientare per le domande, turandosi un orecchio e tenendosi in linea con l'altro. L'aula s'era fatta nuovamente quieta, con la sola voce di Miliazi che, lì vicino a Bianco, parlava casualmente della partita vista il weekend scorso, o di quella a venire, o dei figli che crescevano viziati... a mandibola serrata, Bianco rimaneva impassibile di fronte alla finestra, ma ad occhi chiusi.
Vennero a prenderlo da lì ad una ventina di minuti; tre paramedici accomodarono il professore su una barella, senza trovare troppa resistenza, con accanto la preside che osservava gravemente. La moglie fu avvertita non appena l'ambulanza lasciò il cortile.
La signora Bianco non riusciva a capacitarsi dell'accaduto, mentre si sentiva ripetere che il marito aveva semplicemente smesso di parlare durante la lezione.
Due settimane dal ricovero del professore, e i pini esausti ventagliavano l'un l'altro nell'afa asciutta. Nel cortile di ghiaia grossa, le ombre tra i ciottoli s'allungavano in piccoli incrementi, alla sola attenzione di minuscole formiche.
Bianco sedeva sul letto nel suo camice leggero, stringendo nei palmi il bordo del materasso. Sul comodino c'era anche il solito bicchiere di plastica pieno a metà d'acqua, veleno. Veleno, veleno, veleno. Quel sapore in bocca, ancora peggio.
Uno, due, tre colpi di tosse dalla camera numero 214, ripetuti nel corridoio, il braccialetto di plastica, la sedia di plastica, il puntuale odore di disinfettante.
Due giorni prima era stata l'ultima visita della moglie, gli aveva portato quotidiani nuovi e aveva richiesto che gli radessero i baffi. Domani sarebbe tornata a trovarlo, era Domenica, Sabato, Venerdì. Era Sabato, Domenica.
Lui non parlava, le riviste le apriva ma non le leggeva, guardava fuori dalla finestra.
I pini s'erano arresi, immoti, così come le piccole e medie ombre, che si stendevano piú comodamente tra i viali e i ciottoli caldi.
Oggi ripeteva una frase in Latino, la conosceva bene. Era una delle sue preferite, la ripeteva sottovoce e con lunghe pause, spezzettandola e riformulandola volta in volta, alzando di poco il tono quando si udivano colpi di tosse dalla 214.
Si irrigidì sul bordo del letto, strinse i bordi del materasso e si trovò incapace di fermare il tremore al labbro... i pini eran sempre immobili, il ventilatore girava immutato e le ante della finestra erano socchiuse senza sorprese; detestava l'aria condizionata, e quelle dovevano stare aperte.
Avvertì un calore invadente infiammargli il corpo, mentre un invisibile peso amorfo gli si disincagliava faticosamente dal petto e gli cadeva ai piedi.
Gli era venuta la parola che cercava, improvvisamente... era quella lì la parola che cercava... due mesi fa... o tre anni fa.
Così affiorò, come un sudicio verme importuno tra le rose in giardino.
Stringendo i bordi del materasso, non gli venne da articolare nulla, né un gemito, né un richiamo per attirare l'attenzione dell'infermiera, né tantomeno Eureka, o simili patetiche idiozie. Un singulto di coscienza gli s'annodò in gola, ed era inutile preoccuparsi delle lacrime che gli offuscavano la vista.
Si sollevò dal fuoco che lo bruciava e si portò alla finestra, incredulo per l'assurda parentesi che lui solo sapeva ora chiusa.
Gli alberi presenziavano in tali fila ordinate, nella distanza, e le anse del viale s'eran tinte d'un grigiore pacato, sfumato nel crepuscolo. Il tepore odoroso s'affacciava piú seducente, ora che le ante venivano completamente separate, e il vuoto oltre il davanzale era lì senza volto, senza giudizio.
Senza parola.
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- Quando non viene la "parola", che è sulla punta della lingua quasi sempre, è una cosa tremenda. Il computer nel cranio ronza, ronza, si riscalda perfino, e la "parola" c'è, è lì da qualche parte, sicuramente, ma non viene, è qualcosa da venir pazzi, appunto. Complimenti per il brano, piuttosto lunghetto, necessariamente però, il finale giustifica l'elaborata costruzione. Un saluto
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