1° ATTO
Ci sono tanti modi di vivere la vita, alcuni eccezionali altri vegetali ma, l'importante è essere vivi. No, io credo che l'importante sia viverla in pieno, in ogni momento, in ogni attimo, in ogni respiro perché nessuno sa se quel respiro è l'ultimo soffio d'aria che passa dai tuoi polmoni.
Ho letto da qualche parte che, qualcuno una volta ha detto che tutti vivono, ma non tutti possono dire di aver vissuto o qualcosa di simile. Condivido perfettamente quest'idea e odio le persone che vivono in attesa di non si sa cosa, senza alcun tipo di responsabilità o entusiasmo, sia questo dovuto a cose belle o brutte.
Ecco... la mia vita era così.
Una sottospecie di essere umano che, in attesa di giudizio, viveva senza giudizio, e faceva scorrere gli attimi della propria vita come se fosse stata infinita.
Questo era quello che ero prima.
Prima che tutto accadesse.
Dopo, non so quante vite ho vissuto e per quante volte sono morta e tornata, ma so che quello che mi è successo e che sto per raccontarvi ha fatto in modo che io morissi e nascessi per molte volte e che cambiassi completamente atteggiamento nei confronti di me stessa.
Non sono mai stata un granché brillante e di successo. Già la partenza era sbagliata. I miei faticavano ad avermi e forse era meglio se non ero nata. Questo è quello che ho pensato con molta convinzione per un bel po' d'anni. Magra, bruttina, malaticcia, antipatica.
Sì antipatica vista la reazione del parentado nei miei confronti. Una miriade di parenti che si preferivano l'un l'altro escludendomi praticamente a priori.
Io non ero nel conto.
Vivevo in un piccolo paese dove tutti sanno tutto di tutti e dove tutti dovrebbero aiutarsi ed essere amici, in una grande casa di campagna, divisa con altre famiglie, con un bel cortile circondato da alberi e campi.
Mi piaceva tanto starmene al fresco sotto le grandi acacie a giocare con gli altri bambini ma dopo un po'succedeva sempre che rimanevo da sola.
Così prendevo uno dei miei tanti libri che i miei tenevano nella libreria, e mi mettevo a leggere.
La libreria che avevamo in salotto era per me un Sancta Sanctorum.
Mi aveva sempre ipnotizzato, come se fosse una cosa viva che custodiva i miei tesori.
Mi guardava dall'alto dei suoi ripiani, e mi chiamava sapendo che non avrei mai potuto resisterle.
Così io rispondevo al suo richiamo, prendevo una sedia, ci salivo, e arraffavo il primo libro che riuscivo a prendere.
Non importava che l'avessi già letto o meno.
Era come una persona: se la vedevo per la prima volta ero incuriosita di fare la sua conoscenza, se la conoscevo già ero contenta di vederla di nuovo.
Così scorreva la mia vita, mese dopo mese, anno dopo anno, senza grandi emozioni, quasi sempre nell'ombra, offuscata da bambine della mia età carine e brillanti ovviamente circondate da maschietti baldi e cavalieri che nemmeno si erano accorti che c'ero anch'io nel mondo.
Un bel grigio triste, con sfumature marroni sono i colori più adatti che mi sento, a distanza di anni, di attribuire alla mia adolescenza completamente priva di amici e amori.
La scuola, reincarnazione dell'autunno secondo il mio punto di vista, era una vera e propria tortura. Quell'odore di quaderni, di libri, d'antico che ora adoro in quel tempo mi devastavano. Quando entravo nell'edificio, mi si chiudevano le orecchie e sembrava che tutti mi fossero ostili.
In classe aspettavo con ansia l'ora di uscire ed una volta uscita mi rovinavo tutta la giornata con il pensiero che il mattino dopo sarei tornata di nuovo lì. Sono arrivata persino al punto di pensare che avessi problemi a livello di testa, nel mio cervello.
Ecco appunto: il mio cervello.
Non capivo cosa ci fosse nel mio cervello se qualcosa di troppo o di troppo poco rispetto agli altri della mia età, ma mentre tutti erano più o meno solari e giocosi, io trovavo sempre il lato triste e malinconico in tutto e attribuivo questo motivo al fatto che i miei amici sono sempre stati pochissimi, quei pochi che riuscivano a starmi accanto.
L'ambiente familiare non mi aiutava.
Ogni attimo era buono per litigare e musi lunghi, angoscia, ansia erano all'ordine dei giorni che vivevamo, anche se riconosco ora a distanza di tempo che erano tempi duri e dolorosi.
Non ricordo molti sorrisi di mio padre che, sempre troppo preso dal suo lavoro, spesso se lo portava a casa, nella testa, e scaricava le sue ansie in famiglia.
Mia madre faceva parte della casa come se ne fosse una stanza, in particolar modo la cucina.
Io ero lì in mezzo che non riuscivo a capire che cosa non andava in me, cosa c'era di sbagliato e non capivo cosa non piaceva di me agli altri.
Ne' cosa a me non piaceva negli altri.
Ma capivo che non ero uguale a nessuno e che gli altri questo lo percepivano e lo manifestavano evitandomi o ignorandomi.
Mi sentivo diversa, sempre fuori posto.
Mi mancava l'aria, volevo morire o invecchiare di colpo per non essere vista e non essere messa a paragone di nessuno dei miei coetanei.
In mezzo a tutta questa mia crisi esistenziale, in piena adolescenza, a coronare il tutto, arrivò la guerra.
Avanzava inesorabile verso di noi giorno dopo giorno nera signora e padrona, come un'enorme onda malefica, venefica, mietendo vittime, orfani, fame.
Noi ci arrangiavamo come potevamo, cercando di tenerci occupati e non pensare, lasciando da parte le nostre energie per quando avrebbe bussato anche da noi.
Per un po' riuscimmo a vivere serenamente e per me il conflitto era un toccasana: niente scuola, niente amici.
Solo la mia famiglia, nido sicuro dove, non vista, quasi invisibile, riuscivo a sopravvivere nell'attesa di qualcosa che prima o poi avendo pietà di me sarebbe arrivato.
Di questo n'ero sicura.
Non potevo vivere tutta la mia vita in quel modo, non ce l'avrei mai fatta.
Sapevo che le cose sarebbero cambiate, ma non sapevo in che modo e se ciò fosse stato positivo o negativo per me e per gli altri.
Vivevo in un limbo pesante e difficile, praticamente inutile, con il continuo bisogno di conferme esterne.
Imitavo alla perfezione l'accondiscendenza e l'approvazione di tutto ciò che mi circondava, ma in realtà non c'era niente in ciò che mi circondava, che mi piacesse o appassionasse.
Il fatto era che non sapevo proprio nemmeno io cosa mi piaceva o mi appassionava.
Per il momento.
Insomma tutto era sbagliato e noioso.
Devastata dall'apatia dentro e fuori, finalmente arrivò quel qualcosa che, con un alito d'amore, fece attraversare la strada della mia vita da un fatto che l'avrebbe per sempre completamente cambiata.
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2° ATTO
L'INSEGNANTE
Come ho detto, nonostante la miseria e i disagi, riuscivamo ancora ad avere i nostri passatempi e divertimenti.
Non essendoci scuola, mi tenevo occupata andando a dare una mano a papà sul lavoro e questo mi piaceva.
Eravamo solo io e lui, quindi non dovevo competere con nessuno né rischiavo d'essere trasparente per nessuno.
Mi piaceva quello che faceva, era interessante, e mi aiutava ad essere più aperta e spigliata e anche se andavo molto piano, sentivo che quell'ambiente mi faceva stare bene, mi migliorava.
C'erano i clienti che venivano in negozio, ma non mi davano fastidio, anzi essendo del tutto disinteressati ed estranei mi aiutavano ad essere naturale e me stessa.
Se uscivo presto, mi fermavo alla libreria o in biblioteca a vedere se c'era qualcosa di nuovo.
I miei amori erano sempre e soltanto i libri, e anche se una parte di me sognava ben altro, la carta stampata era la mia aria, il mio cibo, la mia anima.
Lo incontravo spesso in biblioteca e lo osservavo da lontano, di nascosto mentre era assorto nei suoi studi.
Magro, fine, a suo modo bello, con modi esageratamente eleganti sia per la sua età che per il periodo in cui vivevamo, era sempre molto galante quasi cavalleresco.
Mi affascinava quel suo modo cortese di comportarsi con tutti, quel suo sorridere sempre e mi trasmetteva qualcosa di indefinibile solo guardarlo.
Successe tutto per caso un pomeriggio d'autunno, freddo e piovoso quando un temporale cattivo e arrogante mi costrinse a fermarmi presso il Caffè del centro.
Io ero lì, lui entrò.
Ebbi un tuffo al cuore che non mi spiegai, quando una volta asciugatosi alla meglio i lunghi capelli dalla pioggia, si soffermò a guardarmi e con un galante cenno della testa mi sorrise.
I suoi occhi erano caldi.
Le sue mani erano da artista e sembravano create per modellare.
I lunghi capelli bagnati, di un dorato color nocciola.
Non era molto alto, vestiva in modo classico e nonostante il cappotto e le scarpe piuttosto malandati, la sua figura appariva signorile e d'altri tempi.
M'incuriosì da subito il suo modo di fare con me quando, avvicinatosi, iniziò a parlare come se mi conoscesse da molto, lasciandomi stupita che fra tante persone, trovasse la mia compagnia gradevole e degna del suo tempo.
Ero goffa e impacciata, mi sudavano e tramavano le mani.
Odiavo le mie mani.
Avevano vita propria e in alcuni momenti non riuscivo a gestirle e ovviamente questo attirava l'attenzione su di loro annullando se ciò era possibile ancora di più la mia personalità.
Anche lui era attratto dalle mie mani e dal libro che stringevano.
Quasi scusandomi gli dissi che mi piaceva tanto leggere e che lo facevo ogni volta che avevo un attimo libero.
Gli dissi che a casa avevo tantissimi libri, ma che andavo in biblioteca e in libreria sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.
Anche a lui piaceva leggere, qualsiasi genere, qualsiasi cosa, ma non mi aveva mai visto in biblioteca.
Di questo non avevo alcun dubbio.
E neanche in quel Caffè che lui frequentava quando usciva da scuola: insegnava ai bambini, quando ancora era possibile farlo.
Ad un tratto l'Insegnante, come se all'improvviso si fosse ricordato qualcosa di molto importante, si voltò verso la porta, si alzò e andò verso l'uscita.
La pioggia obbedendo ad un suo tacito ordine cessò di cadere.
Come sotto incantesimo mi alzai e lo seguì.
Senti la mia voce che chiedeva se l'indomani fosse passato di nuovo da quel Caffè.
Senza che lui si voltasse la sua voce rispose che se doveva passare, sarebbe passato.
Uscimmo e le nostre strade si divisero.
Ma il mio pensiero rimase con lui e la gioia che provai fù inenarrabile quando
il giorno dopo, come se fossimo stati guidati da un tacito accordo, ci ritrovammo di nuovo lì insieme alla stessa ora.
E il giorno dopo... e quello dopo... e quello dopo...
Stavo bene con lui, mi faceva dimenticare tutto il resto e la sua compagnia era per me come brezza frizzante e vento forte.
Durante il giorno non riuscivo a concentrarmi. Il pensiero fisso su di lui, sui nostri incontri, i nostri discorsi.
La notte non riuscivo a dormire, il suo volto antico e nobile tormentava il mio sonno.
Vedevo le sue mani, sentivo la sua voce.
Ci incontravamo in biblioteca, in libreria, al Caffè e parlavamo di tante cose e passavamo le ore in modo piacevole, trovando argomenti comuni e scambiandoci opinioni.
Tutto ciò ci rilassava.
Troppo.
Trovammo il Caffè chiuso quel giorno, ma lui a casa l'aveva.
Mi disse.
E io adoro il caffè.
La sua casa, a pochi chilometri dalla mia, era piccola, buia, fredda ma pulita e confortevole. C'era un forte odore di pane tostato e di stanze chiuse. La casa di un uomo che vive da solo.
Pochi mobili piuttosto vecchi, un grande divano, due poltrone, un tappeto e un tavolo ingombro di libri, riviste, giornali, quaderni.
Finestre oscurate da pesanti tende scure.
E aveva anche alcuni libri di cui avevamo parlato, libri ormai introvabili che se a me faceva piacere mi avrebbe prestato e che io avrei letto con calma.
Non ero mai stata a casa di un uomo solo da sola.
Potevo fare a meno del caffè, ma i libri...
Esitai un po'...
Solo un po'...
Credevo di essermi assopita solo per qualche minuto ma quando guardai l'orologio era la fine del pomeriggio e dalle finestre non filtrava nessuna luce. Era buio.
Provai al alzarmi per andare via.
Fu allora che capì che la mia vita non sarebbe più tornata quella di una volta.
Mi vidi come dagli occhi di un'altra persona, da fuori campo.
Mi vidi nuda, sotto le sue coperte, nel suo letto, nella sua casa.
Vicino a me, lui, nudo, dormiva.
Rilassato.
I tratti del suo bel viso erano dolci e aveva un leggero sorriso sulle labbra. I lunghi capelli sul cuscino arruffati.
Il cuore provò ad uscire dal petto, ma non ci riuscì. Mi scoppiavano le tempie.
Provai ad alzarmi, ma il suo braccio cingeva la mia vita. Era piacevole, sicuro stare lì con lui. I suoi occhi si aprirono e il calore del suo sguardo inondò il mio. Il suo braccio mi liberò ed io mi alzai, piano. La mia mente voleva restare li, ma il mio corpo comandato da una forza esterna stava uscendo da quel covo di piacevolezza infinita.
Mi vestì evitando la sua faccia.
Sapevo senza guardarlo che i suoi occhi mi stavano accarezzando dal letto, mentre con le mani si legava i lunghi capelli.
Ricordo che avevo fame. E freddo.
Vicino alle mie cose che qualcuno aveva appoggiato vicino al letto, c'erano dei libri suoi.
Mi ricordai allora di essere entrata con lui dal portone d'ingresso e di aver salito le scale, piacevolmente eccitata dal fatto che qualcuno potesse vedermi.
Di essere entrata in casa sua al buio e in silenzio come in un covo segreto e di essere rimasta per un attimo paralizzata di fronte all'enorme quantità di libri che aveva.
E poi ricordai anche tutto il resto...
Di essermi stesa sul suo letto, di aver avuto il suo viso vicino al mio, di aver sentito le sue mani lungo i miei fianchi.
E di essermi sentita come non mai, donna diversa dalla mattina di quello stesso giorno e mai più uguale.
Mi avviai verso la porta in silenzio e a disagio, chiedendomi cosa pensava di me in quel momento o cosa aveva pensato prima, quale opinione mai si fosse fatto.
Ma a quel punto la sua voce mi chiese se fossi tornata.
Fui lusingata, senza capirne il perché, che uno come lui mi chiedesse questo.
Risposi che se dovevo tornare sarei tornata.
E tornai... e tornai... e tornai...
La mia infanzia volata via e la mia adolescenza mai avuta avevano aiutato l'Insegnante ad entrare facendomi scoprire colori come l'azzurro e il giallo e gioia e armonia e risate liberatorie e corse veloci e batticuori e paure e bugie e sotterfugi...
Imparai l'arte dell'inganno, della facciata, della finzione, della recita.
Nessuno doveva accorgersi di nulla, nessuno doveva sapere della mia doppia esistenza.
Nessuno doveva sapere veramente quello che in realtà pensavo o facevo.
Così riuscivo a far credere cose in modo talmente reale e veritiero da confondermi sovente io stessa con l'altra me.
La me del mio Insegnante.
Tutto questo trovò un terreno molto fertile, un terreno che aveva solo bisogno di un bravo coltivatore.
Il mio Insegnante era un ottimo coltivatore.
Iniziai a provare emozioni forti, emozioni delle quali non conoscevo l'esistenza come brividi caldi e fredde passioni.
I nostri incontri andarono avanti per molto, molto tempo e nei pomeriggi intensi, bellissimi, che passavamo insieme io mettevo da parte tutto e appena lo vedevo tutto spariva per far posto alla nuova me come se lui fosse stato il mio interruttore sul mondo esterno.
Non sapevo d'essere capace di toccare picchi tanto alti di benessere e spensieratezza.
Ma sapevo che il mio Insegnante non insegnava solo a me e che quella dei bambini non era la sola scuola che gestiva.
Altre andavano a imparare da lui.
L'avevo capito, da subito, dalla prima volta in casa sua, ma non lo volevo credere.
Avevo troppo da perdere!
Ma un Insegnante non poteva avere quelle cose dentro, non poteva avere quel tipo di esperienza, non poteva conoscere così a fondo le donne.
E anche il suo modo di comportarsi lo aveva tradito.
Mi faceva sentire una primadonna, ma era come se seguisse un copione e avevo la sensazione di vivere dentro una scena già vista.
Ma non potevo parlargliene per paura che tutto finisse e mi auto-ingannavo che andava bene anche così.
Io volevo un esclusiva che lui non mi avrebbe mai dato e lui sapeva che io sapevo.
Così dovevo accontentarmi del male minore poiché provavo un'eccitazione tale anche quando non ero con lui che mi sembrava di averlo sempre accanto.
Lui mi aveva fatto scoprire l'effetto che una donna come me può avere sugli uomini, cosa poteva ottenere con il suo fascino, come poteva sottometterli con le sue lusinghe e come poteva far credere che erano loro a gestire il gioco con la sua falsità.
Mi aveva fatto scoprire l'autostima, l'ambizione e l'amor proprio.
Se ora valevo come donna dovevo tutto a lui e non me lo sarei lasciato sfuggire.
Ma quel giorno la sua porta non si aprì.
Ne'quello dopo... ne'quello dopo.
Il mio cervello, già provato da tante emozioni sconosciute, stava facendo corto circuito.
Ero persa, soffocata, liquida.
Camminavo e vivevo per inerzia, aspettando che quella porta si aprisse.
Non successe.
Lui non c'era più, ne'al Caffè, ne' in giro.
Niente.
Che non fosse mai esistito e fosse stato un brutto scherzo della mia testa per sopravvivere alle brutture quotidiane?
No, impossibile... le sue carezze erano vere, i suoi baci caldi, se chiudevo gli occhi ancora lo sentivo su di me.
No, il mio Insegnante non era una mia immaginazione.
Era vero ed era sparito dalla mia vita per entrare in quella di qualcun'altra che doveva imparare.
Pur avendo fatto tesoro dei suoi insegnamenti, non riuscivo a riprendermi, nulla e nessuno mi interessava.
Facevo continuamente nuovi incontri ma, al suo confronto, erano persone banali e sciatte che non destavano in me alcuna sensazione.
Niente era al suo paragone, niente e nessuno.
Cercavo di impiegare il mio tempo con la lettura e le passeggiate in centro. Ma neanche i miei libri riuscivano a tamponare la mancanza atroce che sentivo dentro di me. E passeggiare non mi e' mai piaciuto; scusa banale per cercare il suo viso, la sua figura, in mezzo alla gente sempre più frettolosa e veloce.
Cominciava a fare freddo, anche dentro di me.
Il grigio dell'inverno aveva contagiato la mia vita, tornata cupa e noiosa.
Ed io tornai in letargo.
Furono i colpi alla porta che mi riportarono alla realtà.
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3° ATTO
L'UFFICIALE
Era arrivato l'inverno ed io non ero più andata a passeggiare nel centro, né al Caffè, dove avevo passato tante vuote giornate in attesa di vederlo entrare.
La biblioteca e la libreria erano state chiuse e andare al negozio era diventato pericoloso, così me ne stavo chiusa in casa a non pensare e non vivere.
Una sera, il vento soffiava particolarmente forte e la pioggia era particolarmente sfacciata verso i vetri della finestra.
Da sola, in penombra, leggevo il libro che il mio Insegnante mi aveva dato l'ultima volta che c'eravamo visti.
Leggere il suo libro mi rimandava al suo ricordo.
Col senno di poi, riconosco che quel giorno i suoi occhi mi dissero che era l'ultima volta che lo vedevo.
Tutto era silenzioso, i miei genitori dormivano e gli altri vicini non si sentivano.
All'improvviso un fascio di luce entrò con prepotenza nella stanza e lo scalpiccio di molti stivali nel grande cortile fece subito capire di cosa si trattava.
Tre colpi, forti, decisi, cattivi alla porta.
Erano in molti, entrarono in tutte le stanze, presero chi e cosa volevano.
Non riuscì a portare nulla con me, solo il mio libro.
Mi presero di forza, trascinandomi su un camion.
Una volta salita, salì vidi che erano già in molti là sopra al buio, infreddoliti, impauriti, ignari e consapevoli, alcuni estranei altri che conoscevo.
I miei non erano con me, ed io non avevo fatto in tempo a vedere dove li avevano portati.
Ci portarono alla stazione e ai binari il rumore e le voci erano artigli assordanti.
Urla, gemiti, pianti, grida, nomi.
Cercai le facce dei miei genitori in tutto quel caos, ma invano.
Non li vedevo da nessuna parte!
Ero catatonica e allo stesso tempo agitata.
L'orrore della guerra aveva deciso di coinvolgermi.
Mi stava bene. Tutto per sentirmi di nuovo viva.
Ma non i miei genitori, loro avevano già sofferto abbastanza in passato!
Iniziarono a far salire le persone con spinte, cattiveria alcune, come sedate altre.
Io guardavo la scena come se non fossi presente, non ne facessi parte.
Non mi piaceva quel film, ma ero costretta a guardarlo, impotente e ad un tratto... successe... di nuovo.
Una lunga colonna d'auto arrivò a tutta velocità con un forte stridio di gomme.
Tutto si bloccò come se la pellicola si fosse rotta.
Dalla prima auto scesero tre figure nere, orrende che si fermarono vicino alla seconda auto diversa dalle altre con le armi in pugno.
Il più alto di loro aprì la portiera posteriore e disse qualcosa a qualcuno all'interno,
annuì, richiuse, riferì agli altri due che subito si avviarono verso i vagoni.
Iniziarono a scegliere; donne, belle, ben vestite.
Le costringevano a salire su un grande camion che chiudeva la colonna delle auto; tre, cinque, venti...
Presero anche me, con forza, ma io non cedetti e graffiai l'animale che mi aveva afferrato.
Mi sferrò un potente pugno, gettandomi a terra e facendomi sanguinare il naso.
Nello stesso istante, dal finestrino leggermente abbassato della seconda auto arrivò un ordine, potente.
Fu come un colpo di scure.
Tutti si congelarono e l'uomo alto, rimasto in disparte, guardandomi, iniziò a camminare verso di me, rimasta vicino all'entrata del camion dove ero caduta, tirando fuori la pistola dalla fondina e armandola..
Chiusi gli occhi e pensai a mia madre.
Arrivato, mirò e sparò...
In piena tempia all'essere che mi aveva colpito!
Morire e rinascere a volte impiega pochi secondi.
Poi, venne verso di me e senza toccarmi m'invitò a salire sull'auto da cui era arrivato l'ordine.
Ero terrorizzata, non riuscivo a muovermi.
E non capivo.
Ripeté la richiesta, calmo.
Perché si comportava così?
Perché aveva una sorta di sottomissione nei miei confronti?
Quell'uomo che aveva appena dimostrato che per lui nessuna vita valeva più di uno sputo, era con me stranamente docile e cortese.
Mi aiutò ad alzarmi.
Le mie gambe iniziarono a muoversi verso la seconda auto, nera, minacciosa.
Qualcuno aprì un ombrello per ripararmi dalla pioggia.
Al limite dell'assurdo!
Centinaia di persone bloccate inermi a guardarmi, silenziose sotto le armi spianate di volgari assassini si preparavano a morire, ed io ero riparata dalla pioggia!
Ecco ero arrivata.
Un guanto nero afferrò la maniglia e aprendo la portiera m'invitò a salire.
Salii.
L'abitacolo era buio, caldo.
C'era un pesante odore di tabacco e profumo da uomo.
Nessuno trovava più profumi da anni e il tabacco era un privilegio dei pochi che riuscivano a procurarselo in modo illecito.
I sedili erano grandi di velluto grigio e in mezzo a loro troneggiava un piccolo tavolino con una bottiglia di qualcosa e un posacenere. Vicino alla bottiglia due calici pieni a metà.
Sedetti.
La portiera si chiuse e il rumore che udii fu lo schianto di un tuono nella mia testa. La faccia della figura che mi sedeva vicino, era oscurata dalla penombra ed io non riuscivo a vederla, ma vedevo le sue gambe dentro a lucidi stivali e il suo corpo dentro ad una divisa da ufficiale.
Non aveva guanti e stava fumando.
Era un uomo possente, alto, di granito, statuario.
Aspirò e la piccola brace della sigaretta illuminò qualcosa di semplicemente unico.
Il suo profilo scolpito, leggermente ambrato ricordava immagini d'antichi imperatori; i suoi occhi grandi, scuri, gentili.
La sua bocca unica era abituata a comandare ma anche fuori del comando sapeva intrigare e soggiogare a qualsiasi suo volere.
Era un uomo di cui avere paura e per più di un motivo.
Si voltò verso di me e il suo sguardo violò il mio.
Una strana sicurezza mi aveva invaso.
Mi sentivo superiore e arrogante nei suoi confronti.
Forte di un potere che lui stesso mi aveva trasmesso facendomi salire sulla sua auto.
Per il momento non sapevo a cosa andavo incontro né se quell'uomo mi aveva salvato la vita o mi avrebbe ucciso più tardi.
Mi offrì un calice; lo presi.
Sigaretta?
Essia.
Qualsiasi cosa avessi dovuto affrontare sicuramente alcol e fumo mi avrebbero aiutato... pensai.
L'auto partì e ad un impercettibile segno dell'Ufficiale, il vetro scuro fra noi e l'autista si alzò.
C'era musica bassa, in sottofondo, dolce e carezzevole.
Lui disse poche cose con voce forte e decisa, suadente.
Mi aveva dato un candido fazzoletto per fermare il sangue e mi domandò come mi sentivo.
Avrei voluto gridargli in faccia, domandargli chi si credeva di essere, come si permetteva di decidere così delle vite degli altri, ma a poco a poco mi stavo riscaldando e mi sentivo leggermente intontita dal tepore.
Così rimasi inerme a guardarlo e mi limitai ad annuire alla sua domanda.
Dopo un breve tragitto entrammo nel parco di una villa dietro un enorme cancello che si aprì al nostro arrivo e che era controllato da due loschi individui in divisa armati.
Il parco non finiva mai e man mano che ci avvicinavamo mi accorsi che la villa era un castello.
Un antico, enorme castello blindato.
Uomini armati e cani al guinzaglio erano in ogni parte.
L'auto si fermò e veloce la servitù scaricò alcune valigie e portò tutto dentro.
Con la meraviglia che va oltre l'immaginabile, L'Ufficiale scese e precedendo l'autista venne ad aprirmi. Ovviamente, nonostante l'apparente indifferenza generale, la scena non era per niente passata inosservata.
Provò a baciarmi la mano ma io la ritrassi con sgarbo.
Lui mi sorrise con malizia e disse qualcosa ad una bella e anziana signora rimasta in disparte.
La signora si avvicinò.
Lei si sarebbe occupata di me. Mi sorrise bonariamente; non riuscì a ricambiare.
Mentre salivo la grande scalinata che portava all'entrata principale mi voltai e vidi che eravamo solo noi.
Le altre auto e il camion non c'erano più, non erano entrati nel parco.
Entrammo nel salone freddo, grigio, con i soffitti immensi, poco illuminato da enormi candelabri.
La signora camminava con eleganza davanti a me.
Salimmo al piano di sopra dove notai tantissime porte chiuse.
Entrammo nell'ultima stanza, una camera esageratamente grande con il caminetto acceso. Il letto, l'armadio, le tende tutto era di un lusso sconcertante. I colori erano chiari ma caldi e il piccolo caminetto ad angolo aiutava a rendere tutto più confortevole.
Adiacente la sala da bagno, bianca, immensa, pulita con un enorme vasca piena di acqua bollente e profumata.
Non avrei mai osato sperare in quello che vidi!
Era la prima volta che vedevo una vasca da bagno ed io avevo freddo ed ero bagnata e sporca.
La signora dopo avermi preparato degli asciugamani vicino alla vasca si esonerò con un inchino.
Fino a quel momento nessuno aveva mai abbassato la testa in mia presenza e l'educazione che mi era stata impartita e gli ideali con cui ero cresciuta non concepivano che un essere umano lo facesse in presenza di un altro essere umano.
La cosa mi fece piacere lasciandomi stupita verso me stessa.
Mi spogliai, lasciando i miei vestiti a terra, ed entrai nel Paradiso.
L'acqua calda mi massaggiava piacevolmente le spalle ed io iniziai a pensare.
Dovevo sfruttare al massimo quella occasione, facendo tutto ciò che dovevo per far girare il vento a mio favore.
Ero lì per un motivo e qualunque esso fosse ne avrei approfittato.
Dopo avrei pensato ai miei.
Non potevo fare altro per il momento.
Alle nove la signora venne ad avvertirmi che ero attesa di sotto nel salone.
Scesi.
C'era di nuovo musica e un piccolo vociare discreto.
Seguì i rumori.
Mi venne incontro un signore distinto con guanti bianchi che mi indicò da che parte andare con un elegante cenno della mano e mi aprì l'enorme porta a vetri in fondo al salone d'entrata.
Lo sfavillio degli argenti, dei cristalli, degli specchi mi costrinse per un attimo a sbattere ripetutamente gli occhi ma dopo qualche secondo misi a fuoco ciò che avevo di fronte.
Tutto in quel castello sembrava creato per essere usato da giganti.
Mai visto un tavolo apparecchiato così lungo con una tovaglia così bianca e un enorme quantità di bicchieri, piatti e stoviglie.
Caraffe di vino e vasi di fiori erano stati disposti in più punti del tavolo e le sedie sembravano piccoli troni.
Le persone elegantemente vestite formavano capannelli parlanti in alcuni angoli della gran sala. Alcuni uomini in divisa altri in frac. Le donne, raffinate esibivano sfacciatamente i loro gioielli.
Cercai di camminare in modo naturale nel mio stretto vestito lungo di velluto nero, che avevo trovato sul letto, cercando di dominare il pericoloso decolté, viste le dimensioni del mio seno.
Non avevo messo i gioielli che mi erano stati mandati ma solo due orecchini di preziosi diamanti a goccia, rifiutando il resto con grande sorpresa della signora.
Il rossetto rigorosamente rosso dava un che di deliziosa angoscia e arroganza alla mia perfetta figura.
Il tacco a spillo mi aiutava a sentirmi imponente rispetto agli altri e a darmi coraggio.
Appena entrata nel salone, involontariamente mi sorpresi a cercare la sua faccia. Sentivo il suo sguardo.
Mi voltai.
Era lì vicino a me che mi guardava già da un po' e il suo solito sorriso malizioso e d'approvazione appena percettibile mi offese.
Avevo capito perché ero lì quando avevo visto il vestito e i gioielli, ma negavo l'evidenza aspettando che l'evidenza non si facesse più negare.
E, questo era appena successo.
La cena fu noiosa.
Non capivo niente di ciò, che veniva detto, ma in compenso mangiai cose che da anni non mangiavo, il tutto accompagnato da vino fresco e buono.
Nessuno faceva caso a me e, a me stava bene così.
Ero abituata ad essere un fantasma e in quella occasione sembrava essere una fortuna.
Dopo la cena tutto era diventato meno rigido, complice il vino e le coppe di rinomato champagne che sembravano non avere mai fine.
La gente rideva e il vociare si era fatto più intenso.
Anche la musica che avevo sentito dalle scale e che aveva accompagnato tutta la cena era più alta e arrivava da una nicchia dove era stata sistemata una piccola orchestra.
L'odore di tabacco nell'aria unito ai fumi dei liquori dava un'atmosfera inebriante e afrodisiaca.
Alcune coppie salivano su per le scale ridendo sguaiatamente e sparivano nelle stanze al piano di sopra.
Mi girava la testa, avevo bisogno d'aria.
Uscì nel parco.
Era ghiaccio fuori, veramente freddo e un brivido mi scese lungo la schiena.
L'aria era pulita ma il cielo nero e la luna che si vedeva appena fra le nubi non promettevano niente di buono.
C'era vento che entrava prepotentemente nei vecchi alberi facendoli gemere di disapprovazione.
Vidi molte auto di lusso parcheggiate qua e la nel parco e in mezzo alle auto gli individui con i cani fumavano e ridevano.
I cani accovacciati, calmi.
Passai indisturbata e imboccai un sentiero che s'inoltrava nel parco ma dopo qualche minuto mi accorsi che non ero più sola.
L'Ufficiale era accanto a me, felino e silenzioso.
Mi appoggiò un prezioso scialle di morbida lana sulle spalle e cominciò a parlare.
Per tutta la sera non aveva fatto altro che guardarmi, fra la gente, senza dire una parola, evitandomi con quel suo sorriso odioso.
Ora parlava con me in modo naturale, carismatico, come nell'auto.
Sapeva il mio nome, chi ero, dove abitavo.
Tutto, su di me, sulla mia famiglia.
Se provavo a chiedere spiegazioni a tutto ciò , mi interrompeva e mi chiedeva se c'era qualcosa che non gradivo o che desideravo.
Non mi piaceva quello che stava accadendomi ma non potevo farci niente.
Ci eravamo allontanati un bel po' dal castello e ora la musica e le voci erano lontane.
Davanti a noi una piccola terrazza circolare coperta, buia, antica, intima.
Entrammo.
Il pavimento a mosaico raffigurava la nascita di Venere dalla spuma del mare.
Le panchine di marmo, fredde.
Continuava a guardare dentro i miei occhi come se cercasse chissà quale verità.
Stavo tremando, ma non avevo paura, avrei solo voluto voltarmi a guardare altrove nel buio del parco.
Ma, nulla era più buio e scuro che quello sguardo.
Non riuscivo a smettere di guardare in quegli occhi.
Con tenera prepotenza, ad un tratto, mi prese i polsi e mi girò le braccia dietro le schiena obbligandomi ad esporre il mio viso indifeso verso di lui.
Il movimento brusco fece cadere lo scialle e abbassare il decolté del vestito scoprendo ancora di più le mie spalle.
Arrivarono le sue labbra... calde e morbide.
Le sue mani lasciarono i miei polsi e agirono sfacciatamente indisturbate su di me.
Avevo il cuore in gola ma il tremito era passato lasciando il posto ad un caldo inaspettato.
Lui era manesco, dittatoriale, ma faceva esattamente quello che io volevo, come se, ubbidendo ad un mio tacito ordine, fosse il mio schiavo che obbligava il mio corpo a sottomettersi a lui.
Una complicità silenziosa, mai provata prima.
Qualcosa di primordiale viveva dentro quell'uomo e una passione rabbiosa che sembrava non trovare sfogo da secoli si sprigionava su di me.
E a me tutto questo piaceva.
Lui sapeva ciò di cui io avevo bisogno...
Io volevo ciò di cui avevo bisogno...
Il caffè era più bollente del solito quella mattina e gli occhi più pesanti.
Avvolta nella calda vestaglia guardavo dalla finestra della mia camera.
Tutto fuori era silenzioso e deserto come se non ci fosse stato nessuno la sera prima.
Nessun'auto, nessun uomo armato, nessun cane.
Il vento era cessato e la pioggia cadeva noiosa e insistente.
Non vedevo la fine del parco, ma vedevo il tetto della nostra terrazza, battuto dalla pioggia in lontananza.
Passavo le mie giornate cercando di tenermi occupata in qualche modo, ma sembrava che io non dovessi fare nulla, come se fossi lì per un altro scopo.
Avevo la bella e anziana signora che pensava alla mia persona, la cuoca che preparava quietanze squisite, la cameriera che mi serviva in tutto ciò che chiedevo e persino la guardia del corpo che mi faceva anche da autista quando volevo andare da qualche parte... insomma tutti mi trattavano come fossi una regina.
Ed io oziavo.
Il mio Ufficiale però era unico!
Non avevo bisogno di chiedere nulla, mai, perché tutto ciò che io volevo era lì prima che lo desiderassi e questo mi faceva sentire importante, viva, radiosa!
Così fra un ricevimento, una cena, il teatro, il tempo passava ed io non mi rendevo conto che il mio modo di comportarmi, di parlare, di muovermi era plagiato e modellato dalle situazioni che vivevo e che ne facevo sempre più parte.
Io stessa non mi riconoscevo più.
Alcune volte poi, quando tornavamo tardi, di ritorno da qualche evento, salivamo nella sua camera, nella parte più alta del castello e passavamo la notte insieme.
Quella stanza, rispecchiava alla perfezione il suo carattere e il suo modo di porsi con gli altri:mobili antichi, forti, scuri, con un grande letto, alto con baldacchino, una scrivania in noce perfettamente in ordine dove teneva le sue carte private ed un caminetto dove sopra una grata di ottone, bruciavano perennemente grossi ciocchi di cerro pregiato.
Mi dava l'idea di una grande prigione dorata e non ero contenta di stare lì.
Ma c'era lui con me e tutto cambiava, sempre e ogni volta.
Nel frattempo avevo continuato a cercare i miei genitori ma non ero riuscita a sapere niente se non la sicurezza matematica che erano ancora vivi, ma dove si trovavano non riuscivo a saperlo.
Avrei voluto portarli lì con me e far veder loro chi ero, come mi ero trasformata.
Dare loro la vita agiata che avevo io. Ma avevo le mani legate e più di tanto non avevo il potere di fare. Dovevo fidarmi di quello che mi veniva detto.
Dietro a questo pensiero, c'era anche l'angosciante consapevolezza che tutto ciò non sarebbe durato, non poteva durare.
Non mi sbagliavo; infatti, quella sera, in quel locale, l'idillio ebbe fine.
Era nervoso quando mi disse di mettermi qualcosa di semplice ma appariscente.
Ed io pensai che il mio tailleur rosso porpora andasse più che bene.
Non mi aveva mai portato in un posto come quello.
Per cui non ero assolutamente preparata né all'ambiente né al tipo di persone che lo frequentavano.
Era a circa mezz'ora di macchina dal castello, ed era una vecchia osteria, piena di fumo, di birra e di gente che occupava tutti i tavoli della sala, mangiando e facendo un sacco di baccano.
L'Ufficiale entrò in modo disinvolto come se fosse un luogo per lui abituale, tenendomi sottobraccio e, passando in mezzo alla calca, andò verso un piccolo salottino privato che aveva sicuramente vissuto giorni migliori.
Alzò la tenda che faceva da divisorio ed entrammo.
Le pareti erano ingiallite e i quadri appesi raffiguravano tristi scene di caccia.
In mezzo alla stanza erano sedute cinque persone, quattro uomini e una donna intorno ad un tavolo apparecchiato.
Erano persone ben vestite ma qualcosa nelle loro facce e nei loro modi mi diceva che non era quello il loro abbigliamento abituale.
Anche l'Ufficiale era in borghese con un bel vestito marrone scuro spigato e un borsalino che abbracciava la sua notevole figura.
Alla nostra vista, gli uomini si alzarono salutando e la donna ci sorrise.
Dopodichè prendemmo posto e uno di loro ordinò da bere e da mangiare.
Iniziarono subito l'argomento per il quale eravamo lì. Capì immediatamente da come parlavano che quella gente non sapeva chi era veramente l'Ufficiale ma anzi lo trattavano come uno di loro, ed io ero sua moglie;questo loro lo sapevano, io no.
Lui stava al gioco in modo perfetto. Se non avessi passato gli ultimi anni della mia vita con quell'uomo avrei giurato che non era mai stato in divisa a capo di uno squadrone d'aguzzini. Era disinvolto, falso, ingannevole, ma vero e reale.
Non era la prima volta che incontrava quelle persone le conosceva da tempo, ci avrei giurato!
All'improvviso il terrore entrò nel mio corpo come una possessione demoniaca. Iniziavo finalmente a capire lo scopo del mio essere lì, quella sensazione d'attesa per chissà quale scopo... in tutto quel tempo ero stata addestrata a mia insaputa per quel momento.
Tutto ciò che avevo vissuto con lui era solo un addestramento e plagio che io non dovevo neanche sospettare per essere veramente naturale quella sera e ingannare tutti senza il rischio di tradirmi.
Tutto divenne opaco, il mio stomaco si ribellò ai miei pensieri e un conato che riuscì con forza a dominare salì su dentro la mia bocca mentre sentivo di perdere i sensi.
Come poteva chiedermi questo?
Come pretendeva che io ciecamente lo seguissi nei suoi sporchi piani?
La donna mi stava osservando con occhi buoni e malinconici.
Era più anziana di me ma sotto le rughe e la gioventù lontana si notava ancora una raffinata bellezza ormai sfiorita.
E non solo dagli anni.
Quella donna aveva sofferto di una sofferenza che ti strappa l'anima e ti graffia il cuore togliendoti l'alito della vita.
Fece portare un bicchiere d'acqua fresca e un po' di tè.
Bevvi.
Stavo meglio...
Anche lei, mi disse, aveva avuto i miei problemi i primi mesi, poi tutto era andato bene fino al parto.
E fino a quando a ventun'anni non glielo avevano ammazzato, il suo unico figlio.
Lo schifo si trasformò in odio, un odio forte, caldo, potente!
Le risposi bruscamente che si sbagliava.
Durante tutto questo l'Ufficiale faceva l'indifferente, come se sbadatamente non si fosse accorto del mio malessere.
Invece se ne era accorto, eccome!
Nulla sfuggiva ai suoi occhi penetranti, ma la parte che impersonava lo obbligava a far creder che niente era più importante del motivo per cui eravamo lì!
Durante la conversazione parlavano spesso di un tale, lo chiamavano "Il Partigiano", non un, ma il, come se quella parola fosse stata creata apposta per lui. Sembrava che quest' uomo fosse una pedina indispensabile per realizzare tutto il progetto.
Al ritorno ero furiosa!
Perché aveva scelto me quella sera alla stazione, eravamo in tante, perché il suo ordine verso di me?!
Lui non si arrabbiava mai, ma i suoi occhi diventavano di ghiaccio grigio e il suo viso si stirava, quando voleva far capire che non c'era discussione.
Così aveva deciso, così sarebbe stato.
Non doveva spiegarmi niente.
Non doveva giustificare niente.
Io l'amavo?
Anche lui mi voleva bene, sicuramente, forse mi amava.
Ma, ci sono cose che vanno oltre, che hanno la priorità. Su tutto.
E poi lui aveva già una famiglia...
Era un mostro schifoso abominevole!!!
Non avevo via d'uscita, dovevo stare al gioco e fare quello che dovevo, mi disse.
Non c'era possibilità di scegliere, poiché così era deciso, così sarebbe stato.
Capì fra le righe la minaccia, e la consapevolezza di essere stata usata e gettata via m'invase.
Una famiglia, una moglie, dei figli... forse.
Non mi ero mai accorta di niente.
Si è vero a volte si assentava per giorni, ma quando tornava tutto era più bello di prima e nelle notti che passavamo insieme, fra le sue braccia mi sentivo unica, considerata da lui il suo universo, come lui lo era per me, come se la mia essenza uscisse dal mio corpo per entrare nel suo ogni volta.
Tutto era finito.
Nella mia stanza, sul tavolino, il libro del mio Insegnante.
Lo strinsi forte al petto, piansi, senza lacrime.
Il suo calore e il suo odore mi tornarono in mente, mi fecero battere forte il cuore.
Va bene d'accordo.
Ancora una volta sarà come deve essere.
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4° ATTO
IL PARTIGIANO
Nelle ultime settimane, la donna del locale ed io eravamo diventate buone amiche. Abitava in un piccolo appartamento arredato in modo classico e sobrio vicino al caffè del mio Insegnante. Spesso, il pomeriggio c'incontravamo lì ed i miei occhi cercavano avidamente la sua fine figura, senza mai trovarla.
Io e la mia amica parlavamo del nostro passato, ed io ero semplicemente stupenda nel ricordare i minimi particolari di una vita mai esistita, che non avevo mai vissuto, ma che mi era stata appiccicata addosso.
Il nostro presente lo stavamo vivendo insieme pianificando una situazione tragica e pericolosa che, se andava bene, avrebbe ridato libertà ai nostri giorni.
Libertà che, a sua insaputa io con il mio doppio gioco contribuivo a toglierle.
Per lei, ero la moglie di un banchiere che finanziava l'impresa che andavamo a compiere.
Ai suoi occhi, l'Ufficiale era una persona unica, buona e generosa che, non avendo nulla da temere, al di sopra di ogni sospetto per le sue origini e la sua posizione, aiutava le persone meno fortunate di lui.
Era solo dispiaciuta per me, mi disse più volte, ma quando chiedevo spiegazioni a quella frase evitava con una scusa l'argomento e diceva che nella vita molte volte siamo costretti a fare quello che dobbiamo e non quello che vogliamo.
A tutti i costi.
C'era passata anche lei, a suo tempo, tanti anni fa, quando suo marito era morto da poco.
Lui non avrebbe mai sostenuto una simile vergogna e lei lo aveva fatto per salvare altre vite.
Non aveva nulla da rimproverarsi ma, nonostante fossero passati molti anni e nonostante l'eroico motivo, spesso ancora oggi il senso di colpa la faceva piangere e star male nelle lunghe notti da sola.
Non approvava assolutamente, ma era così e basta.
La guerra è la guerra ed è lei che decide per noi.
Questo lo iniziavo a capire, a mie spese!
Il tempo passava, lento, pigro ed io conobbi altri membri della squadra, persone schiette, vere, abituate a non avere paura e a guadagnarsi ogni minuto di vita.
Tutto era audace e pericoloso ma allo stesso tempo intrigante e romantico.
Mi piaceva quel nascondere le cose, fuggire all'improvviso, tornare alla realtà nel mio castello come niente fosse, anche se avevo sempre più dubbi che la realtà fosse per me ancora al castello.
Avevo la piena libertà e mi ero conquistata la piena fiducia di tutti.
Ma ero consapevole del fatto che tutti avevano pieni poteri su di me.
Per il momento.
Ero, tutto sommato, soddisfatta del grado di bravura che avevo raggiunto.
Stavo bene con me stessa e con gli altri, ingannando chi volevo, quando volevo senza problemi.
Anche me stessa.
Ricevevo continuamente i complimenti della squadra del Partigiano e allo stesso tempo dell'Ufficiale per quello che facevo e riuscivo sempre in tutto ciò che mi veniva chiesto.
Ma per quanto tempo ancora sarei riuscita a sdoppiare la mia vita e a reggere la situazione con tutte e due le parti?
Per ora il problema non si poneva.
C'era una forza dentro di me che mi teneva attiva, come se usassi una qualche specie di droga.
E inoltre mi stimolava e mi incuriosiva tanto l'idea di conoscere Il Partigiano, ma questa misteriosa figura di cui tutti parlavano continuamente sembrava non essere nel mio programma.
Ogni volta che c'era un incontro dove lui era presente, io per qualche motivo superiore venivo esclusa o inviata da tutt'altra parte.
Se chiedevo al mio Ufficiale, mi rispondeva dicendomi che non c'era bisogno della mia presenza, ma nella sua voce avvertivo un tono di sgomento misto quasi a timore per qualcosa che voleva a tutti i costi evitare, fino a che ne avesse avuto il potere.
Potere che scomparve in un bel giorno di primavera quando la notizia arrivò: avrei incontrato Il Partigiano.
Ero pronta.
Pronta per cosa... poi...
Ci trovammo come al solito nel pomeriggio con la mia amica, questa volta fuori dal centro, vicino all'argine del fiume, in mezzo ai campi.
L'aria era tiepida, c'era il sole debole e timido, stavamo bene.
Respiravo liberamente a pieni polmoni e l'aria che entrava dentro di me sembrava purificare il mio corpo prima di uscirne.
Ero euforica e impaziente di vedere finalmente che aspetto aveva!
Era diventato qualcosa di mitico e misterioso nella mia testa, poiché non avendolo mai visto avevo associato alla sua figura quello che avevo sentito dire di lui.
E quello che avevo sentito dire era veramente grande!!!
Finalmente, in lontananza, nella strada ghiaiosa, vidi la polvere che alzava la sua jeep.
Stava arrivando, piano, con calma.
Non scese subito, ma sistemò lo specchietto e scosse la polvere dalla camicia.
Dopodiché, mi guardò, sorrise, aprì la portiera e si avvicinò.
Non era un semidio come mi ero immaginata, ma un uomo comune, piuttosto nella norma, e non aveva niente a che fare col mistero.
Né rimasi quasi delusa...
Chissà cosa mi aspettavo, magari che arrivasse volando su Pegaso!!!
Aveva una corporatura media ma muscolosa, capelli a spazzola, mani grandi e forti.
Aveva la camicia aperta fino a metà e metteva in mostra un torace abbronzato e leggermente villoso.
Viso freddo, maschile, serio.
Sorrideva solo con la bocca, gli occhi facevano parte di un altro mondo.
Un mondo di paura e di sgomento.
Mi diede la mano e strinse la mia con uno strattone deciso, autoritario e sincero.
Fu a quel punto che capì qual'era la sua vera forza:quell'uomo non aveva bisogno di far paura per farsi obbedire; non era il timore ciò che emanava, ma rispetto e stima e questo bastava ai suoi per rischiare ciecamente la loro vita per lui.
Camminammo per un po', mentre mi esponeva i piani.
La mia amica rimase ferma all'auto.
Non riuscivo a comprendere le sue parole. Ero presa dal suo comportamento verso di me, dal suo modo di trattarmi. Non mi aveva mai visto, non sapeva chi ero e cosa facevo prima della guerra. Eppure la sua fiducia verso di me era completa, senza alcun tipo di protezione.
I suoi si fidavano di me.
Questo a lui bastava.
Lui si fidava di me.
Si era presentato da solo e disarmato completamente vulnerabile ai miei attacchi, in tutti i sensi... sapeva che qualsiasi azione avessi fatto, avrebbe potuto schiacciarmi come una mosca.
In quanto al resto mi ero subito accorta che il mio fascino su di lui non aveva presa e che il suo sguardo nei miei confronti non era di ammirazione come ero solita ricevere ma di speranza come avrebbe potuto guardare un qualsiasi membro del suo gruppo al quale affidava questioni di vita o di morte.
Fu chiaro sin dall'inizio su cosa dovevo fare, dando per scontato che ne avessi già parlato insieme a mio marito, messo al corrente a suo tempo sul rischio che correvo: ottenere informazioni da alcune persone in alto, molto in alto.
Il modo lo dovevo trovare io, non era un suo problema.
A quel punto si fermò e mi guardò, prima il viso poi il corpo.
Sentì letteralmente i suoi occhi su di me come se mi toccassero e mi parlassero dicendomi che una donna come me non doveva avere grossi problemi ad ottenere ciò che voleva quando lo voleva.
Non era poi del tutto indifferente al mio fascino... forse.
Ovviamente mio marito aveva fatto un mucchio di storie all'inizio ma la guerra e' la guerra e decide lei.
Dove avevo già sentito quella frase?
C'erano tante altre donne che stavano facendo la stessa cosa e molte di loro erano sposate come me.
Pensai alle donne alla stazione, caricate sui camion...
Così alla fine aveva accettato anche se era un sacrificio enorme!
Sacrificio?
Non credo che L'Ufficiale sapesse che esisteva una parola simile!
Non si accorse che ero completamente all'oscuro di tutto, in questo ero molto brava e una volta concluso l'argomento tornammo all'auto.
Un cenno di saluto con la testa alla mia amica, salì e partì, freddo e serio come quando era arrivato.
Mi lasciò lì con i miei orrendi pensieri su ciò che mi aveva appena detto che avrei dovuto fare.
Era semplice capire cosa intendeva sul come avrei ottenuto le informazioni.
Possibile che se qualcuno vedeva qualcosa in me vedeva solo il mio corpo?
Possibile che fosse solo quello il mio utilizzo, come un oggetto che serve a fare solo una cosa?
Ero arrabbiata anche con lui, questo grande uomo che avevo avuto tanto desiderio di conoscere e di cui tutti ne cantavano le gesta era uguale agli altri!!!
Niente di più, niente di meno!
Ed ero arrabbiata con me stessa, perché il solo pensiero che avevo dopo l'umiliazione di ciò che mi aveva appena chiesto, era non sapere se e quando l'avrei rivisto, ma sapere che avrei fatto tutto il possibile per rivederlo presto, perché mi aveva lasciato dentro il terribile bisogno di sentire di nuovo il suo odore selvatico, forte, ribelle, rispettoso.
Un odore coraggioso che mi aveva contagiato, nel profondo.
Passò qualche mese, liscio e noioso come tutti gli altri.
Qualche azione pericolosa, un po' di timore di essere scoperta nel mio doppio gioco.
Avevo visto cosa faceva il gruppo del Partigiano a chi faceva la spia.
Una volta sicuri del colpevole, un colpo alla nuca e via... neanche il tempo di spiegarsi.
Ma non era la paura di morire che mi avvicinava sempre di più a quel mondo, ma la sensazione di aver sbagliato parte.
Non era quella la sponda su cui volevo aspettare la mia barca...
Non parlai mai all'Ufficiale di cosa quel giorno al fiume mi aveva detto Il Partigiano e lui stranamente non mi chiese mai nulla.
Tanto sapeva già tutto!
Però mi guardava sempre con un velo di sospetto sugli occhi.
Poi un giorno quando iniziavo a sperare che forse le cose erano cambiate, che non c'era più bisogno di me, la mia cara amica, guardandomi con freddezza glaciale, in modo molto distaccato, mi disse che quella sera avrei dovuto cominciare.
E così cominciai.
Alcune volte, prima di andare, mi prendeva il panico e volevo fuggire via lontano da tutto e da tutti.
Altre volte pensavo di uccidermi.
Me ero vigliacca e paurosa.
Così razionalmente, facendo buon viso a cattivo gioco, mi vestivo, mi truccavo e salivo sull'auto dove mi aspettava la mia guardia del corpo che mi avrebbe portato direttamente giù all'Inferno.
Dopo i primi incontri tutto diventò pian piano abituale... cene... teatro... bei vestiti... belle camere... stesso schifo...
Regali più o meno preziosi, viaggi più o meno lontani, informazioni più o meno importanti.
Gli uomini che incontravo erano perlopiù ricchi e di mezza età, sposati con figli.
Avevano importanza per il ruolo che coprivano e per le cose che sapevano e in genere li vedevo solo una volta.
Ci fu solo uno in particolare, che non aveva famiglia e che si attaccò a me come l'edera.
Era giovane e spaccone e pensando fossi una sua proprietà voleva vedermi spesso, quasi tutte le sere, ma io non avevo più nulla da ottenere da lui.
Nè parlai all'Ufficiale.
Non vidi mai più quel ragazzo.
Mi guardai dal chiedere.
Man mano che l'impresa andava avanti il mio rapporto con l'Ufficiale diveniva sempre più freddo ed io mi sentivo sempre più distante anche fisicamente.
Di rado dormivamo insieme e quando rientravo, molte volte la luce del suo studio era ancora accesa e lui era lì assopito sulla sua poltrona che mi aspettava.
Ma io toglievo le scarpe e facevo più piano possibile mentre salivo in camera mia.
Dopo un po' sentivo i suoi passi prima sulle scale, poi davanti alla mia porta dove si fermavano per qualche secondo per poi riprendere fino alla sua stanza.
Non parlavamo quasi più e lui era spesso assente per settimane.
Ma io non sentivo la sua mancanza, né mi interessava sapere dove andava.
Era questo il timore che aveva e il motivo per cui rimandava sempre il mio incontro con il Partigiano: lui sapeva.
Sapeva che il mio vero io sarebbe uscito sempre meno domabile una volta entrata in quel mondo.
Era un io della macchia, dei rifugi, delle armi, della fame; un io che non aveva niente in comune con quello che mi aveva fatto vivere con lui, nel castello.
Un io plagiato da nessuno, un io vero e reale, ribelle.
Era la mia vera natura.
Finalmente mi informarono che la sera dopo sarebbe stata quella decisiva dove tutto si sarebbe compiuto quella dell'incontro più importante, la scala gerarchica era finita.
La sera dove il ragno avrebbe finalmente mangiato la preda rimasta nella tela tessuta per tanto tempo.
Al mattino incontrai come al solito la mia amica e disse che quel pomeriggio avrei di nuovo incontrato Il Partigiano, e quando me lo stava dicendo i suoi occhi brillavano di felicità per me.
Mi disse che lui aveva seguito personalmente, da quell'incontro sull'argine, tutto ciò che ero riuscita a sapere e le aveva detto che donne come me non se ne trovano.
Disposte a tutto, eroiche e coraggiose.
Secondo lei questi erano più che complimenti!
Il Partigiano non si apriva facilmente in adulazioni e quando si esprimeva riguardo qualcuno era perché andava molto al di sopra delle sue aspettative.
Al ritorno al castello non stavo più nella pelle!!!
Non mi importava niente di ciò che pensava di me, se ero brava oppure no, ma ero euforica per il fatto che stavo per rivederlo e questa volta direttamente nel suo covo, non qualche minuto ma per tutta la notte!!!
Potevo stargli vicino e sentirlo parlare... e sentire tutto il suo carisma.
Entrai svelta nel grande salone e andai di corsa di sopra nella mia stanza.
Senti L'Ufficiale che mi chiamava dal suo studio, ma non risposi e una volta entrata chiusi a chiave la porta.
Presi le mie cose, quelle a cui tenevo di più, poiché non avrei mai potuto portare via tutto.
Il mio amato libro per ultimo.
Sapevo che non sarei mai più tornata nella mia camera.
Uscì senza guardarmi intorno, a capo chino e sul pianerottolo ad aspettarmi trovai la signora che per tanto tempo mi era stata vicina.
Mi guardò con gli occhi velati e tristi.
Non mi ero accorta di quanto era invecchiata da quando ero arrivata, di quanto tempo era passato.
Mi abbracciò.
Sapeva che me ne sarei andata, era inevitabile.
Lui ha il potere di rovinare tutto ciò che tocca.
Da tanto, tanto tempo...
Una volta non era così... una volta il suo cuore batteva e con me lo aveva sentito battere di nuovo. Sperava, pur sapendo che non sarebbe mai successo che fosse arrivato il momento in cui non avrebbe più smesso di battere.
Mai nessuno aveva fatto breccia come avevo fatto io nella vita dell'Ufficiale.
Ne parlavano tutti.
Mi disse di stare attenta, molto attenta. Aveva capito le mie intenzioni. Rimasi immobile, perplessa. Non credevo di essere stata una figura così importante per l'Ufficiale, non dopo di ciò che mi aveva costretto a fare, ma ci sono cose che vanno oltre...
L'abbracciai forte e le diedi un bacio sulla guancia.
Iniziai a scendere il grande scalone con la valigia in una mano e il mio libro nell'altra, quando alzando la testa lo vidi, là in fondo.
Oscura figura di ghiaccio, impassibile nella sua perfetta divisa.
Mi fermai un attimo e ripresi a scendere.
Gli passai accanto, mi prese con forza il braccio obbligandomi a fermarmi.
Mi voltai, lo guardai negli occhi.
Un immenso abisso era concentrato in quello sguardo e il suo impassibile e bellissimo viso era incredibilmente diventato umano e imperlato di sudore.
Sperai che, dopo quello che mi aveva detto la signora, l'iceberg dentro di lui finalmente si sciogliesse e che il lato umano prendesse il sopravvento.
Aspettai una sua parola.
Rimase in silenzio.
Abbassò lo sguardo e lasciò il mio braccio.
Quel grande comandante era finalmente impotente.
Aveva trovato l'unica cosa che nessun'arma avrebbe mai vinto: L'amore.
Uscì senza voltarmi.
Una strana sensazione mi prese una volta uscita dal castello. Era quello che volevo, eppure una parte di me sarebbe rimasta per sempre in quelle stanze.
La mia guardia del corpo mi aspettava con il portabagagli aperto per mettere le mie poche borse.
Sembrava che tutti sapessero.
Salì e me ne andai.
Per sempre.
Trovai la mia amica e gli altri del gruppo ad aspettarmi al luogo stabilito. Presi posto sul sedile anteriore dell'auto che avevano lasciato libero e partimmo. C'era silenzio, un silenzio, pesante, teso, impaurito.
E avevano tutti una strana forma di rispetto nei miei confronti, lo stesso rispetto che si ha per un malato a cui restano poche giorni di vita.
Viaggiammo per più di due ore poi uscimmo dalla strada principale e imboccammo un sentiero in salita fra gli alberi. Lasciammo l'auto nascosta tra i cespugli e continuammo a piedi.
L'odore del sottobosco era fresco e allegro e iniziava a fare caldo, ma là sotto l'ombra faceva da padrona e tutto sembrava magico e fatato.
Una voce dal nulla ruppe il silenzio urlando qualcosa e dopo che il capofila ebbe risposto continuammo il cammino indisturbati.
Arrivammo al campo, una immensa radura verde e ombreggiante dove diverse baracche, camuffate, mimetizzate con i fusti degli alberi o con le pareti della montagna erano sparse qua e la.
Vicino c'era acqua ne sentivo il fragore.
Bene, pensai, in quel modo i nostri rumori erano più attutiti ed eventuali passaggi vicino da parte di qualche malintenzionato divenivano meno pericolosi.
Lui era lì, in mezzo ai suoi.
Impartiva bonariamente le indicazioni e tutti lo ascoltavano, rapiti ed entusiasti.
C'erano donne, bambini, anziani.
Famiglie. Da quanto tempo non vedevo una famiglia, una vera famiglia...
La mia dov'era?
Non avevo saputo più niente di loro da quella notte.
Avevo continuato ancora a cercarli, ma c'era sempre lo stesso invalicabile muro che ci separava, quando sentivo di essere loro più vicina.
Il Partigiano mi vide e venne a salutarmi.
Il suo odore m'invase.
La voglia di abbracciarlo e baciarlo era irrefrenabile, ma anni di esperienza mi avevano insegnato a gestire bene e nascondere meglio le mie emozioni!
Insieme con gli altri andammo nella baracca più grande, dove tutto sarebbe stato deciso e pianificato per l'ultima volta.
Le persone che occupavano il campo si erano interessate subito a me incuriosite, al contrario di ciò che succedeva negli anni della mia giovinezza, ma io mi ero abituata a quel tipo di sguardo e anche se al mio passaggio ci fu qualche commento che non capii, non me ne curai.
Erano le donne a commentare e sapevo che per una donna, una come me non è per niente un eroina coraggiosa.
La riunione fu breve con un ripasso generale sugli orari e le posizioni.
Io sarei arrivata prima di tutti e la mia posizione la conoscevo.
Fin troppo bene.
Quando uscimmo, era stato preparato un invitante tavolo in mezzo alla radura.
C'era poca illuminazione, per ovvi motivi, e le poche lanterne che avevano messo davano a tutta la scena un aria romanzesca.
Prendemmo posto.
Il Partigiano non andò al capo del tavolo, ma si mescolò tra i bambini e rifornì i loro piatti.
Tutto era allegro, con portate semplici saporite e buone e vino forte e caldo.
Io aiutavo con le pietanze, ma notai che non ero gradita anche se destavo meraviglia che mi sottomettessi a servire.
A fine cena gli uomini, fumando e bevendo, si scambiavano battute su chi era stato meno coraggioso nelle imprese passate.
Il Partigiano si alzò e si allontanò pensieroso.
Lo seguì e lo raggiunsi, di fronte all'entrata di una baracca.
La sua.
Lo avevo capito, ero lì per questo.
Si accorse di me, ma non fu sorpreso di vedermi lì.
Lo precedetti ed entrai, senza sapere se avrei già trovato qualcuno, una compagna, una moglie.
Non ci pensai, l'idea proprio non mi sfiorò neppure.
La penombra era intima e avvolgente e con la sola luce che proveniva dall'esterno riuscì appena a distinguere le sagome di un tavolo, alcune sedie, un letto grande.
Più che sufficiente.
Sentì il suo respiro dietro di me, caldo, profumato.
Sentì le sue braccia che mi presero alla vita, forti come tenaglie.
Sentì la sua faccia affondare nei miei capelli.
Aspirò.
Avevo un buon odore, disse, odore di profumi ricercati che non hanno niente in comune con il posto dove mi trovavo.
Neanch'io se è per questo, se ne erano accorti tutti, mi disse.
Perchè lo facevo, cosa ci facevo lì, che avevo in comune con loro?
Poi diventò padrone, piacevolmente padrone... e anch'io, padrona di me stessa.
La libertà vera stava pian piano facendosi posto nel mio corpo, impossessandosene con gentilezza.
Sapevo che mai più avrei messo da parte la mia dignità di donna, mai più mi sarei umiliata.
Finalmente stavo facendo quello che volevo, con chi volevo.
Nessun ordine, nessun obbligo, niente di niente.
Solo desiderio e passione.
Passione vera rossa come il sangue e nera come la morte.
Un raggio di sole mattutino entrò dalla finestra illuminando le nostre facce rilassate ed i nostri occhi aperti.
Abbracciati, vicini, sotto le lenzuola, guardavamo il tetto di tavole della baracca come se in attesa di un miracolo che non arrivò.
Da fuori una voce chiamò Il Partigiano... era il momento, disse.
Ci guardammo e una lacrima scese lungo la mia guancia come un rivolo di lava incandescente.
Mi abbracciò, mi baciò e in quei gesti sentì tutta la sua umana debolezza e la sua disperazione.
Era forte, pensava a tutti e proteggeva tutti.
Tutti si affidavano a lui e chiedevano i suoi consigli.
Ma a lui chi pensava?
Non mi avrebbe mai permesso di farlo, non a me.
Ci alzammo. Dovevamo andare.
Fuori l'alba era chiara e fresca.
Mi aspettavano tutti quanti e tutti quanti mi sorrisero affettuosamente come se conoscermi avesse fatto cambiare completamente opinione su di me.
Ricambiai e mi incamminai con gli altri lungo il sentiero.
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5° ATTO
IL MEDICO
Tutto andò come previsto e il piano riuscì alla perfezione con le congratulazioni dei miei compagni per ciò che avevo fatto.
La sera fu festa grande al campo e quando mi chiesero di mio marito, giustificai la sua assenza con un impegno importante a cui non poteva assolutamente rinunciare.
Per tutta la sera evitai Il Partigiano che invece mi inseguiva come il gatto con il topo.
Non avevo né tempo né voglia di dare spiegazioni poiché sicuramente il tarlo del sospetto aveva iniziato a lavorare dentro la sua testa.
Ce l'aveva scritto in faccia.
Sicuramente pensava che forse non ero poi così ingenua come sembravo o magari io stessa mi ero tradita con il mio osare dentro la sua tenda.
Avrei voluto parlargli, dire tutta la verità dall'inizio, ma ogni volta che ci provavo qualcosa dentro la mia testa mi diceva di non farlo.
Ma sapevo che prima o poi sarei stata scoperta e volevo mettere un bel po' di chilometri fra me e lui quando ciò sarebbe successo.
Il fatto che loro mi avessero creato, mi avessero insegnato l'arte della finzione non sarebbe bastato, non sarebbe servito a salvarmi la vita, neanche col Partigiano.
Dovevo escogitare un piano per sparire: non volevo tornare nel mio paese, né al castello e non potevo restare lì.
Avevo tradito tutti esattamente come loro avevano fatto con me, ripagandoli con la stessa moneta!
Finita la festa pensai di sistemarmi alla meglio nella tenda delle ragazze ma mentre entravo involontariamente mi voltai verso la sua e lo vidi lì fermo che mi aspettava.
L'istinto fù di correre fra le sue braccia, ma avevo paura, paura del dopo.
Ci guardammo per un momento infinito.
Poi lo chiamarono e quando si voltò di nuovo io ero sparita.
Alle prime luci dell'alba, in silenzio, me ne andai.
Non ero affatto sicura di passare inosservata, poiché c'erano guardie che controllavano il perimetro, ma continuai a camminare e nessuno mi fermò.
Avevo dei soldi miei, così contattai delle conoscenze che mi ero fatta durante le mie imprese.
Gente poco raccomandabile.
Con i soldi le spiegazioni non servono e dopo qualche giorno i miei nuovi documenti erano pronti.
C'era anche un biglietto aereo in data del giorno stesso.
Dovevo fare in fretta, mi dissero.
Non avevo potuto salutare nessuno del gruppo del Partigiano, neanche lui.
Forse al mattino mi avevano cercato per altre azioni da fare, forse no.
Comunque fosse, con la mia fuga mi ero scavata la fossa e ormai era fatta.
Quelle conoscenze poco raccomandabili, grazie ai miei soldi non avevano trovato nessun muro nel cercare la mia famiglia.
Li avevano trovati, stavano bene, qualcuno aveva pensato a loro la stessa sera che mi avevano presa al treno.
Mi aspettavano a destinazione e non sapevano assolutamente nulla di ciò che mi era successo in quegli anni, ma era stato detto loro che ero stata prigioniera, ed ero stata liberata.
Meglio, così mi era stato evitato un sacco di spiegazioni.
Seduta all'aeroporto, aspettavo l'annuncio dell'imminente partenza con il libro del mio Insegnante in mano.
Per me era diventato una specie di amuleto, non potevo più separarmene.
Un calore inaspettato e familiare dietro di me.
Mi voltai.
No non c'era nessuno.
Credevo di aver sentito la sua presenza ma chissà dov'era.
Arrivò la voce dall'altoparlante.
Era ora di andare.
Mi alzai ed entrai nella fila che si avviava verso l'imbarco, lentamente.
Passai dall'altra parte e ad un tratto di nuovo quella sensazione, il suo calore su di me.
Mi voltai di nuovo... Si... Lui era li... il mio Insegnante era lì dall'altra parte che mi guardava con i suoi occhi caldi e il suo viso nobile e signorile.
E il suo corpo dentro ad una divisa, la stessa identica divisa che indossava l'Ufficiale!
Accanto a lui l'orribile individuo della stazione!!!
Due più due fa sempre quattro.
Lui era stato il burattinaio, lui aveva organizzato tutto sin dall'incontro in quel Caffè che a me era sembrato occasionale!
Tutto era stato gestito dalla sua mente fredda e calcolatrice che aveva fatto in modo che salissi sull'auto quell'orribile sera in mezzo ai vagoni e alla gente che era inviata al macello, e che facessi da talpa nell'impresa col Partigiano!
Lui sapeva benissimo che non avrei mai tradito quella gente e che sarei fuggita dall'Ufficiale!
Lui era la vera talpa che mi aveva usato per arrivare al suo scopo...
Lui... Lui... Lui...
Sempre lui sin dall'inizio, era sempre stato lì , invisibile regista, dietro le quinte!
Avrei potuto tradirlo, dire la verità, ma a chi e a quale scopo?
Non sarei mai potuta tornare dall'Ufficiale, poiché avevo fatto esattamente il contrario di ciò che mi aveva chiesto e neanche dal Partigiano che non conosceva nessun tipo di pietà ne di perdono.
E non credo che lo avrebbe conosciuto con me dopo che ero fuggita da lui come una ladra.
Dovevo ammetterlo: avevo aiutato il ragno a tessere la sua tela e ne ero rimasta impigliata diventandone la preda.
I pensieri che stavo facendo e le conclusioni a cui ero arrivata mi avevano fatto gelare il sangue e fermato il cuore.
Per un attimo credetti che mi avrebbero presa e fatta sparire.
Ma riflettendo, capì che non avrebbero aspettato tanto se questo era ciò che volevano e se ero ancora lì era di nuovo perché lui aveva voluto così e non correvo nessun pericolo.
Avrei potuto toccarlo, era a pochi metri da me, fermo a guardarmi, mentre me ne stavo andando, per sempre.
Nell'ultimo istante prima che sparissi definitivamente nel lungo corridoio che portava all'aereo, mi sorrise e per un solo attimo rividi di nuovo l'espressione del mio Insegnante al nostro primo incontro e in quel sorriso sembrava chiedermi scusa e cercare una giustificazione a tutto ciò che era successo.
Ma la guerra e' la guerra e decide lei...
Continuai a guardare nella sua direzione dall'oblo dell'aereo, nonostante la distanza mi impedisse di vedere all'interno dove forse lui era ancora, finché non decollammo.
Il volo durò qualche ora, credo.
Sprofondata nella comoda poltrona della prima classe mi addormentai appena seduta.
Arrivata a destinazione la prima cosa che vidi fu l'Oceano, enorme massa di acqua salata e calma di un verde smeraldo intenso.
Dopo vidi i miei.
Erano diversi, sembravano più giovani e avevano un lieto, solare sorriso sul viso.
Ci abbracciammo forte.
Mia madre piangeva, mio padre rideva.
Ci aspettava il taxi che ci avrebbe portato a casa.
Casa...
Da quanto tempo non abitavo in una casa.
Era una piccola villetta in stile vittoriano situata su di una collina i cui prati scendevano fino al mare, dove una piccola spiaggia privata vi si immergeva allegramente.
Tutto intorno alla villetta c'erano rose di tutti i colori che mia madre curava come tante figlie e poco più in là un piccolo orto e un frutteto molto ben fornito.
All'interno tutto era luminoso e c'era molto spazio con mobili old england e tende colorate e non rispecchiava assolutamente la casa dove ero vissuta da piccola.
Al piano terra una cucina ampia e funzionale, per la gioia di mia madre, un soggiorno grande e confortevole completo di un bel caminetto in marmo bianco e una veranda in legno con comode poltrone in vimini, rendevano perfetta la zona giorno.
Di sopra tre camere grandi e comode si affacciavano sui tre lati della casa insieme ad un bagno meravigliosamente unico con una grande vasca!!!
I miei sogni si erano avverati.
Tutto era perfetto.
Ora.
Parlammo molto quel giorno e gli altri ancora, come se ci fosse da parte di tutti e tre una grande voglia di recuperare i tempi passati e la nostra forzata lontananza.
Sembrava di vivere una favola a lieto fine!
Aiutavo la mamma in cucina e papà nella cura degli ortaggi, andavo un po' giù al mare, e con l'auto che mi ero comprata spesso scendevo in paese e giravo un po' senza meta, così per passare il tempo, senza pensare.
Non avevo ancora iniziato a cercarmi un lavoro ma mi sarebbe piaciuto avere qualcosa di mio lì vicino senza andare più via.
Avevo trovato il mio traguardo e non ero in cerca di altro.
Ero praticamente arrivata!
Avevo fatto la conoscenza di un bel po' di persone, brave e simpatiche che erano liete di sapere che finalmente ero arrivata.
I miei non si erano risparmiati con nessuno nel parlare di me e a molti di loro sembrava di conoscermi già.
Alcuni uomini avevano iniziato a corteggiarmi, mi aspettavano in alcuni negozi dove sapevano che sarei sicuramente andata, mi offrivano da bere, e qualche temerario mi chiedeva di uscire a cena.
Perlopiù erano dei bei ragazzi, scapoli incalliti, di buon partito, che dopo essersi fatti diverse esperienze avevano deciso di appendere il cappello al chiodo, come si suol dire.
Dovevo far capire loro con eleganza che io non ero il chiodo che loro cercavano.
Alcuni, una volta capito, si offendevano dicendo che mi davo troppe arie e che donne come me ne avevano a bizzeffe, poi però l'orgoglio maschile aveva la meglio e, non dandosi per vinti, puntualmente me li ritrovavo di nuovo intorno.
Altri invece si arrendevano, dicendomi chiaramente di aver capito da subito di non essere all'altezza delle mie esperienze!
Ambiziosi di sapere che razza di esperienze avevo avuto!!!
Se solo avessi potuto gridare in faccia a quegli ignobili e presuntuosi e chiedere loro chi li aveva eletti sputasentenze!!!
Loro non sapevano niente delle mie sofferenze, delle mie gioie, del mio passato!!!
Ma chi si credevano di essere e con che diritto parlavano così di me?
E non erano soltanto loro a non sapere niente.
Anche ai miei, quando provavano a chiedermi qualcosa al riguardo, dicevo che preferivo non parlarne, tanta era stata la mia sofferenza e ogni volta gli occhi della mamma si velavano di lacrime, mentre mio padre mi scrutava di sottecchi come se capisse che non era proprio tutta la verità.
Questo mi faceva stare male, dentro, perché non volevo, non potevo più fingere.
Non con loro.
Ma anche il solo ricordare era per me spiacevole e allo stesso tempo mi metteva in una agitazione tale, che se chiudevo gli occhi, mi sembrava ancora di sentire quei rumori, quelle voci!!!
Non ce la potevo fare, non per il momento.
A loro invece piaceva parlare di quando erano arrivati lì, quel giorno, con quella grande auto che incuriosì tutti quando passarono in mezzo al paese.
Erano stati trattati bene da chiunque li aveva avvicinati, non era mai mancato nulla ed erano stati bene anche fisicamente a parte la stanchezza dei primi giorni a causa del lungo viaggio fatto.
Quel bel ragazzo era così educato che si era tanto interessato al loro benessere, diceva la mamma, proprio il tipo adatto per marito!
Si bello, diceva papà , ma non certo educato visto che in presenza della mamma non si toglieva mai il suo borsalino!
E un po' troppo autoritario per marito, con quei modi più da soldato che da banchiere, come diceva di essere.
L'Ufficiale!!!
Lui aveva salvato i miei genitori, mentre io ero occupata nelle sue azioni!
Ecco perché quel muro invalicabile!
C'era lui dietro!
Troppo orgoglioso per parlarmene, troppo modesto per ricevere i miei ringraziamenti!
Ringraziamenti che sicuramente non avrei mai più avuto occasione di fargli.
Aveva voluto deliberatamente farmi sapere, spacciandosi per banchiere, che era stato il loro benefattore.
Sapeva che avrei capito.
Ma da chi ero stata circondata per anni?
Non dovevo essere io la regina della finzione, quella che riesce a far dire cosa vuole a chiunque ed arriva sempre al suo scopo?
Ero solo una dilettante al loro confronto!
Cosa mi ero messa in testa, di cosa mi ero mai illusa?
Mi avevano insegnato loro i trucchi del mestiere, ed io, al contrario di ciò che mi ero immaginata, non ero riuscita a superare i maestri.
A quel punto inevitabilmente, il pensiero andò al Partigiano!
No, ti prego, lui no, per favore!
Fa che almeno lui fosse davvero sincero con me!
Non riuscì più a controllare il pianto, questa volta con singhiozzi e lacrime come quelle di una bambina, un pianto liberatorio, inarrestabile.
Pensarono che fosse di gioia.
E forse un po' lo era.
Quegli anni non erano stati tutti perduti, non avevo invano dato me stessa e non avevo invano amato.
Anche se ero stata ingannata da una parte, dall'altra quei due uomini avevano salvato la vita e me e alla mia famiglia.
E questo contava più di ogni altra cosa al mondo!
Come è strano il destino che nel percorso della vita, in un attimo, fa diventare la peggiore delle ortiche il miglior fiore del suo giardino!!!
Dopo qualche tempo dal mio arrivo, una sera papà mi informò che avremmo avuto un ospite a cena, un loro caro amico che io non conoscevo.
La cosa mi incuriosì, visto che avevo conosciuto tutte le anime di quel piccolo paese e chiesi se fosse un forestiero, facendo andare di nuovo il mio pensiero al Partigiano e facendomi scoppiare il cuore per l'emozione.
No non era un forestiero abitava in paese, ma non faceva vita sociale.
Era un tipo riservato e di poche parole, che altre volte avevano avuto il piacere di avere a cena con loro.
Era lui, sicuramente.
Da una parte ero triste, perché anche lui aveva fatto parte della recita, dall'altra non stavo più nella pelle, come quando lo avevo incontrato le altre volte.
Mi ero ritrovata spesso a riflettere su come quei tre riuscissero a dividere la mia personalità, come se con ognuno di loro fossi una persona diversa e non sempre io.
L'Insegnante mi faceva sentire serena, leggera, spensierata, allegra...
L'Ufficiale riusciva a tirare fuori la parte peggiore di me... in tutti i sensi...
Il Partigiano mi emozionava, mi esaltava, mi agitava...
Volai di sopra, feci un bagno veloce e misi un vestito semplice di cotone bianco.
Non mi interessava di apparire in nessun modo agli occhi dell'ospite, non questa volta, ma al contrario volevo essere naturale e pratica per aiutare dopo tanto tempo la mamma in cucina.
Del resto mi importava ben poco.
Raccolsi i capelli e misi il rossetto rosso, l'unico accessorio con cui ero sempre e comunque me stessa.
A prescindere.
Scesi, e sentì in veranda una voce di uomo sconosciuta.
Non era la sua voce, assolutamente, l'avrei riconosciuta fra mille.
Non era lui.
Pian piano mi affacciai, facendo attenzione a non essere vista.
Un uomo sui trent'anni era in piedi davanti a papà e insieme stavano bevendo e scherzando.
Senza pensarci troppo, impulsiva come mio solito negli ultimi anni, uscì e mi presentai.
Ricevetti un gradito sguardo di sorpresa dallo sconosciuto e fui travolta da quello
stupito di mio padre, che disapprovava assolutamente che una donna si infilasse nei discorsi fra due uomini.
Ma come ma la maggior parte delle mie azioni, ormai l'avevo fatto.
Per recuperare chiesi se volevano del ghiaccio, ma un brusco no mi fece capire che dovevo defilarmi.
Lo sconosciuto mi sorrise.
Ero piacevolmente delusa di non aver trovato Il Partigiano per due motivi:
-Lui si era salvato, era stato sincero con me... almeno fino a prova contraria che al momento non c'era.
-Lo sconosciuto era interessante.
Si interessante, qualità che negli uomini fino a quel momento non prendevo neanche in considerazione.
Andai in cucina, dove era già tutto ad un buon punto di cottura.
Mia madre mi guardò e approvò come mi ero sistemata.
Un uomo deve vederti in tutti i modi, anche acqua e sapone come appena sveglia al mattino... diceva sempre.
Fui contenta della sua approvazione e cominciai ad apparecchiare la tavola non potendo fare a meno di ricordare le tavole diverse fra loro, eppure uguali, dove avevo preso posto.
Una volta che tutto fu, a mio parere, perfetto invitai tutti a sedersi.
Io avrei pensato a servire.
Appena sentì di nuovo il sapore del cibo preparato dalla mamma, la nostalgia cominciò a lavorare nella mia testa come un tarlo, ma come un buon insetticida la scacciai.
Mai più avrei sofferto, ne per il passato, ne per il presente.
Questo era il mio nuovo motto!
L'ospite era di fronte a me e non mi aveva degnato di uno sguardo... completamente indifferente alla mia presenza.
Si ogni tanto mi guardava e mi sorrideva, ma niente di più.
Si rivolgeva invece a mamma e a papà come fossero genitori suoi e parlava praticamente solo di situazioni passate con loro che io ovviamente non conoscevo.
Ero irritata da tale sfrontatezza e come se fossi un soldato a cui hanno dato la medaglia al valore, ad un tratto nel bel mezzo della cena gli chiesi bruscamente se lui era mai partito per la guerra e se aveva combattuto.
Il silenzio calò come un pesante sipario.
Mio padre e mia madre abbassarono entrambi lo sguardo e io capì che l'avevo combinata grossa.
Il sorriso andò via dalla faccia del forestiero ma in modo molto cortese mi rispose che si, era andato in guerra, ma non per combattere, ma per salvare vite umane: quell'uomo era un medico.
Era tornato a casa perché ferito gravemente nel tentativo di portare in salvo alcune persone da un ospedale di fortuna che veniva bombardato.
Mi sentivo una larva!
Potevo tornare qualche minuto indietro e rifare tutto? No.
Gli chiesi allora come si fosse sentito e se era da molto che ciò era successo, e riuscì piano piano a rompere quella cortina di ghiaccio che si era creata.
Avrei dovuto imparare a contare fino a dieci prima di parlare, specialmente con le persone di cui non sapevo niente.
Dopo la cena papà e Il Medico tornarono in veranda e io, aiutando la mamma, mi accorsi diverse volte che si fermava sorridendo a guardarmi e quando mi voltavo faceva finta di niente.
Avevo trovato chi mi teneva testa, sicuramente pensava, anche se lei che mi aveva messo al mondo era la persona meno informata su di me.
E, per fortuna, non aveva la minima idea su che calibro erano le persone a cui io avevo tenuto testa...
Raggiungemmo gli altri fuori.
Era una bellissima serata, c'era vento caldo e il cielo aveva così tante stelle che sembrava fatto di luce.
Il mare era una macchia nera e calma come un gigante addormentato.
Ogni tanto mi soffermavo a guardare Il Medico come leggermente ipnotizzata da lui.
Non da come parlava, né dai suoi modi né dal suo aspetto.
Era lui, inteso come uomo, come persona, che mi prendeva, completamente.
Non era bello, né ricco a quanto avevo capito.
Ma c'era qualcosa che sentivo di impalpabile che non mi faceva pensare, mi mandava in estasi.
Dopo un po' che eravamo lì mi accorsi che mentre papà e il Medico parlavano, la mamma si era assopita.
L'accompagnai di sopra, nella sua camera, e tornando di sotto non potei fare a meno di guardarmi allo specchio per sistemarmi e darmi di nuovo il rossetto.
Una vecchia abitudine...
Avevo notato che papà parlava molto con lui, molto di più di quanto non avesse mai fatto con me e pensai che ne fosse attratto come da qualcosa che si desidera e che non si riesce ad avere.
Il Medico sapeva rimanere simpatico a pelle, era sempre sorridente, aveva gli occhi furbi, aguzzi come due spilli ma buoni e quando ti guardava aveva un che di rassicurante come se, in sua presenza, nulla di brutto potesse accadere.
Dopo qualche minuto anche mio padre si congedò.
Ero stupita da tale comportamento, ma il Medico mi disse che, quando io non c'ero, spesso lo invitavano a cena per avere un po' di compagnia e quando si erano coricati si tratteneva in veranda a fumare un sigaro e bere qualcosa.
Poi andava a casa.
La frase " quando non c'eri" era uscita spesso anche a tavola, da parte un po' di tutti e tre, e a me suonava come una forma di rimprovero, portandomi a dubitare se veramente credevano alla mia versione o se invece non si fossero accorti che avevo mentito.
Gli chiesi, apparentemente senza interesse, se viveva da solo...
Si era da solo...
Mai stato sposato...
Niente figli.
Mi sentì stranamente felice per quello che avevo appena saputo.
Passò qualche minuto di riflessivo silenzio, non avevamo molti argomenti ed io non volevo che se ne andasse.
Mi alzai come per creare il motivo per cui lui doveva rimanere, ma non sapevo cosa inventarmi.
Iniziai a camminare verso il sentiero che scendeva alla spiaggetta, sperando che mi seguisse.
Mi segui.
Arrivati, tolsi le scarpe e alla sensazioni dei piedi nudi sulla sabbia mi sentì prendere da una leggera eccitazione.
Camminava accanto a me, ora, e vedevo i suoi lineamenti illuminati solo dalla notte.
Era magico.
Si quell'uomo mi infondeva qualcosa di magico.
Tirai leggermente su il mio vestito e immergendo le gambe nell'acqua buia e calda, notai che Il Medico era molto interessato ai miei polpacci.
Mi disse, scusandosi per la sua sfacciataggine, che sembravano scolpiti nel marmo.
Ne fui lusingata, per niente offesa.
Anche lui aveva tolto le scarpe e tirato i pantaloni fino al ginocchio, la bianca camicia sbottonata completamente.
Era bello fuori e dentro.
Di una bellezza che va oltre l'estetica, una bellezza morale, onesta.
Una bellezza più unica che rara.
Camminavamo piano lungo la spiaggetta quando, mentre io credevo e speravo si facesse avanti, lui con noncuranza mi chiese dove ero stata prigioniera.
Iniziarono a fischiarmi le orecchie e mi senti avvampare il viso.
Non ero mai stata prigioniera, cosa gli potevo inventare ad un medico che era stato per anni in prima linea a salvare gente e che sicuramente conosceva i nomi dei campi di prigionia più del suo nome di battesimo!?
Dissi un nome a caso, il primo che mi venne in mente e di cui avevo sentito parlare più volte, vergognandomi di non ricordare nemmeno dove ne avessi sentito parlare.
Mi scrutò e annuì.
Il vento si era fatto un po' più fresco e bagnarsi le gambe non era più così piacevole, perciò decidemmo di rientrare.
Sulla veranda mi dette la mano e mi ringraziò della bella serata, sorridendomi.
Il suo sorriso aveva un tepore speciale su di me e mi dava allegria.
Lo guardai mentre si allontanava a piedi, accendendosi un altro sigaro.
Non mi aveva neppure sfiorato nonostante l'occasione non fosse di certo mancata.
Forse non ero il suo tipo o forse aveva troppo rispetto per i miei genitori.
Fatto sta che era la prima volta che restavo da sola con un uomo e questo neanche ci aveva provato.
Rimasi in veranda a guardare verso di lui fino a quando non scomparve nel buio.
Il mattino dopo, mi alzai presto ed andai in paese con la scusa di acquistare delle cose, ma con l'unico scopo di vedere se riuscivo a trovarlo.
Non era da me comportarmi così.
Io non mi alzavo presto per andare a cercarli ma erano loro che si facevano vivi con un regalo o un mazzo di fiori che usavano come scusa per rivedermi.
Non io.
Perché con lui ero diversa?
Che mi stava succedendo?
Una volta in paese, non fu per niente difficile trovare il suo studio visto che era l'unico e nella piazza principale.
Ingannai me stessa per tutta la mattinata comprando cose che non mi servivano e andando in negozi che non mi interessavano, fino a che, alla fine mi decisi.
Entrai.
Nessuna segretaria.
Qualche poltroncina e alcuni giornali per far attendere i pazienti.
Lo sentivo parlare nell'altra stanza, così mi sedetti e aspettai.
Dopo qualche minuto uscì accompagnando una anziana signora e rassicurandola che la sua pressione sanguigna era in perfetta armonia con la sua età.
La signora mi guardò come se avessi dovuto passare un esame, poi voltandosi a lui lo salutò con un sorriso esagerato e lo ringraziò di essere sempre così cortese.
Uscita, lui si voltò verso di me.
Ero a disagio, ma non mi chiese perché ero lì , mi chiese invece se, vista l'ora tarda e visto che non c'era più nessuno, potevamo pranzare insieme.
Per me andava più che bene ma, dovevo avvertire i miei.
Nessun problema passavamo da casa.
Prendemmo la sua auto, una bellissima cabriolet bianca con sedili in pelle rossa e andammo verso casa mia.
Andava molto piano ed io ebbi di nuovo quella sensazione di sicurezza che mi aveva dato da subito.
La radio trasmetteva musica jazz.
Andammo in un ristorantino sulla scogliera, mangiammo pesce e bevemmo vino e alla fine mi offrì un sigaro.
Quando ci alzammo avevo un po' di nausea a causa della mia prima volta che ne fumavo uno, così decidemmo di camminare un po'.
Nessuno dei due aveva impegni nel pomeriggio e lui quando aveva avvisato i miei, visto che mi aveva detto di aspettare tranquillamente in macchina, li aveva avvertiti che potevamo fare tardi.
Come erano cambiate le cose nella mia famiglia!
Mai, una volta, avrebbero accettato che un estraneo alla famiglia avesse parlato al posto mio!
Arrivammo fino in riva al mare dove c'era una bellissima insenatura nella roccia deserta e all'ombra.
C'era odore di salmastro e c'erano i gabbiani.
Parlavamo, parlavamo, parlavamo, come vecchi amici rimanendo tutti e due al proprio posto senza assolutamente toccarci o sfiorarci.
Ad un certo punto, completamente fuori argomento, mi domandò se sapevo della morte del comandante del campo dove ero stata prigioniera, chiamandolo per nome. Era stato impiccato.
Io assolutamente impreparata a questo repentino cambiamento del discorso, dissi che non lo sapevo, ma che ne ero contenta, vista la sua esemplare crudeltà verso di noi.
Si voltò di scatto verso di me e vidi i suoi occhi diventare opachi e delusi.
Non c'era nessun comandante in quel campo che si chiamasse così.
Anzi non c'era proprio nessuno con quel nome.
Lui lo sapeva, era stato prigioniero lì.
Dopo essere stato ferito nel bombardamento dell'ospedale, l'avevano preso.
Aveva omesso qualche particolare, come avevo fatto io con lui, mi disse.
Quindi aveva capito già dal nostro incontro a casa mia, giù alla spiaggia, che stavo mentendo e nonostante questo aveva accettato di rivedermi per darmi un'altra possibilità che io avevo puntualmente sprecato!
Lui non avevo motivo di ingannarlo!
Non c'erano azioni da fare, né persone da salvare!
Né informazioni da ottenere!
Perché ero falsa e bugiarda anche con lui?
Perché non avevo detto la verità?
Eravamo da soli e non avevo niente da temere, potevo confidarmi.
Che fosse diventata una cosa cronica che non mi avrebbe più permesso di essere di nuovo me stessa?
Una forma di protezione involontaria?
Si alzò e io dietro a lui.
Andammo verso l'auto e mi accompagnò a casa, in silenzio.
Ero delusa anch'io di me stessa.
Come avevo potuto credere di farla franca con uno che, da subito, mi ero accorta non essere come gli altri!!!
Lui era vero, onesto e sincero e non voleva nulla da me, nulla che anch'io non volessi.
E allora perché lo trattavo in uguale modo, visto che anche per me era diverso?
Arrivati a casa, venne ad aprirmi la portiera e fu come se, la sua vicinanza, mi parlasse, dicendomi che, in qualche modo, dovevo uscire allo scoperto con lui e dire tutta la verità.
Avrebbe capito e perdonato.
Ma come facevo?
Passarono i giorni e Il Medico non venne mai a salutare i miei che, ovviamente non sapevano spiegarsi tanta assenza e la giustificavano col fatto che aveva molto lavoro, essendo l'unico in tutto il paese che esercitasse quella professione.
Io non osavo andare da lui.
Per la prima volta in vita mia avevo veramente timore di un uomo.
Non di un eventuale atto di violenza verso di me, cosa di cui non lo credevo capace, non nei miei confronti ma in quelli di un qualsiasi essere vivente, visto il giuramento che aveva fatto, ma di quello che avrebbe potuto dirmi, delle parole taglienti che avrebbe potuto usare con il solo scopo di farmi male.
Un paio di volte però andò papà a trovarlo, nel suo studio, e io vivevo nell'angoscia che gli avesse parlato della mia menzogna e che al suo ritorno mi avesse fatto una scenata.
Ma questo non successe.
Quando tornava diceva che era come pensavano: lavoro, lavoro, lavoro.
Eravamo vicini a Ferragosto e in paese c'era festa in piazza, per tutta la notte.
Quel fine settimana per la precisione e quella sarebbe stata la mia unica occasione.
Tutti andavano alla festa, nessuno poteva mancare ed io avevo una penitenza da fare.
Mi ero comprata un bel vestito blu scuro a pois bianchi che mi scopriva le spalle e una borsetta blu.
Rossetto rosso, ovviamente, e avevo lasciato andare giù i capelli.
Semplice e raffinata allo stesso modo.
Anche lui era semplice ma qualsiasi cosa indossasse assumeva un tocco di una eleganza e di una raffinatezza senza eguali.
La piazza era affollata oltremodo, c'era musica alta e luci e un tavolo a ferro di cavallo pieno di roba da mangiare.
Erano stati montati festoni colorati e alcuni ragazzi avevano acceso delle fiaccole.
I bambini correvano e giocavano, gli anziani erano seduti a guardare le giovani coppie che ballavano già di prima serata.
Molte persone ci vennero incontro quando ci videro e si misero subito a parlare con noi, indicandoci dove erano i nostri posti assegnati per cenare.
Alcuni dei miei vecchi corteggiatori tornarono all'attacco ma io del tutto indifferente, in mezzo a tutta quell'allegra confusione lo cercavo con gli occhi, e lo trovai.
Era lì, fra la gente come suo solito, che stava parlando con un signore e che veniva continuamente bloccato da qualcuno ogni volta che provava a camminare. Anche lui mi aveva visto, ma mostrava indifferenza come suo solito.
Sperai che si comportasse così perchè aspettava da me la prima mossa, in cerca del suo perdono per ciò che gli avevo fatto.
Così lasciando i miei in balia di una signora che spiegava loro minuziosamente la ricetta delle sue torte, mi avvicinai a lui, lo guardai intensamente negli occhi, e chiedendo scusa alla giovane mamma che chiedeva consiglio per la febbre alta del suo terzogenito, lo presi sottobraccio e lo portai in mezzo ai ballerini.
Con mia grande sorpresa mi assecondò e, una volta in pista, mi accorsi che era un ballerino eccezionale.
Ballammo due, tre, quattro motivi diversi, poi stanchi ci avvicinammo al tavolo e ci riempimmo i piatti e i bicchieri.
Non mi curavo affatto di chi mi stava guardando né dei miei genitori che erano lì da qualche parte.
Ero in un mondo mio, sotto una enorme campana di vetro che mi isolava da tutto e da tutti.
Ridevo felice e libera.
E lui era la sotto insieme a me.
Mentre eravamo seduti alcuni amici si fermarono a parlare un po' con lui, un po' con me e ci guardavano in modo interrogativo, come se non capissero cosa stava succedendo.
Non ce ne curammo.
Mi prese per mano.
Uscimmo dalla piazza, e corremmo giù, alla spiaggia, quella stessa spiaggia e quello stesso mare che era stato testimone del nostro primo incontro.
C'era la luna piena, e le stelle...
Tutto era perfetto per poter dire la verità e scusarmi.
Ma lui era lì di fronte a me che mi guardava , con quegli occhi e quel suo sorriso
e aveva ancora la mano nella mia.
Ed io avevo la lingua attaccata al palato e non riuscivo a dire una parola.
Finalmente le sue mani mi presero, tirandomi verso di lui e le sue labbra si avvicinarono alle mie.
Finalmente stava succedendo...
Mai avevo pensato " finalmente" quando le mani di qualcuno mi avevano toccato, anche se era stato qualcosa che volevo.
Mai pur volendolo era stato in quel modo, non così
Mai.
Era una sensazione unica quella che provavo, niente a che fare con niente, nessun paragone con niente.
Niente di niente.
Credevo di volare, come se qualcosa mi sollevasse da terra e mi lasciasse sospesa a fluttuare in aria in estasi totale.
Avevo caldo e freddo allo stesso tempo, e allegria e tristezza e voglia di piangere e di ridere.
Un vulcano di emozioni ingestibili dove tutta la mia sicurezza acquisita negli anni non serviva più a niente.
Ma dove la mia personalità era unita e compatta in tutta me stessa.
Stesi sulla sabbia umida della notte, come esseri superiori e alieni, incuranti del mondo.
Finalmente sentì tutti i colori del mondo entrare nella mia vita!
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L'ARCOBALENO
Non penso a quel periodo della mia esistenza come al passato, ma come a un altra vita che ho vissuto.
L'Insegnante, L'Ufficiale, Il Partigiano...
Fanno parte di qualcosa che è esistito certo, ma qualsiasi cosa fosse è definitivamente chiuso a doppia mandata.
Sono grata al mio passato, perché mi ha insegnato a valorizzare gli anni che ancora avrò da vivere e a ponermi in un certo modo con il mondo che mi circonda.
E perchè mi ha aperto un presente pieno!!!
Pieno di tutto!!!
Pieno di sensazioni, di colori, di suoni, di odori.
Ora il mio presente è con chi insieme a me lo condivide, che mi ha insegnato a volermi bene, ad essere padrona di me stessa e a ribellarmi a ciò che non mi va a genio.
È con l'unica persona che conosce tutti i miei abissi più scuri, con il mio maestro, con il mio comandante, e con il mio rivoluzionario.
Lui è il mio vento forte con l'azzurro del cielo, le mie emozioni brillanti con il giallo dei brividi, le mie passioni calde con il rosso dell'amore e quando sarà il momento sarà il buio nero del mio riposo.
Accanto a me ora ho L'ARCOBALENO!!!
P. S: Nella villetta dei miei genitori, c'era anche un piccolo studio dove i miei tenevano le loro carte.
Nello studio trovai la libreria della mia gioventù ancora piena dei miei libri!
Il libro dell'Insegnante, ormai sgualcito, trovò il suo posto in mezzo a loro e nello stesso istante fu come se una molla scattasse nella mia testa, una serratura.
Si era chiuso definitivamente un altro periodo della mia vita e per l'ennesima volta ero rinata!!!
Grazie!
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