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Partenze d'infanzia
Sento ancora l'ansia che trasmetteva mia madre ogni qualvolta si dovesse partire. Si giungeva in stazione con un'ora di anticipo perché lei diceva: il treno non aspetta, e quando in lontananza tra sbuffi, fumo e vapore cominciava a prendere forma la sagoma nera e imponente della locomotiva, il cuore iniziava a battere forte con lo stesso ritmo del campanello che ne annunciava l'arrivo. Di li a poco sarebbe iniziato l'assalto, i più lesti salivano sui vagoni ancora in movimento, e dopo avere occupato i posti per tutta la famiglia si affacciavano immediatamente dal finestrino per farsi passare i bagagli. Accadeva spesso che quando il treno si fermava già tutti i posti erano occupati e bisognava così rassegnarsi a rimanere in piedi per tutto il viaggio o al massimo usare come seduta un pacco o una valigia, ostacolando il defluire degli altri passeggeri costretti il più delle volte a incredibili evoluzioni. Si partiva così tra lacrime e abbracci e la promessa di scrivere una lettera appena giunti a destinazione, destinazione che però spesso era ignota a molti di loro che per la prima volta si recavano al nord o all'estero in cerca di lavoro, e ignoto, quasi sempre voleva dire sacrifici, sofferenze, mortificazioni. Oggi diremmo che fra quei passeggeri non c'era privacy perché fatti pochi chilometri ognuno sapeva tutto degli altri, dopo di che i discorsi cadevano inesorabilmente sulla politica e sui politicanti, e non si aveva timore di iniziare il dialogo parlando male del governo perché l'interlocutore, di sicuro, era dello stesso parere e chi la pensava diversamente viaggiava nelle carrozze di prima classe dove i sedili semivuoti avevano i poggiatesta di panno bianco e le valige non erano di cartone e dove chi aveva il viso bruciato dal freddo e dal sole era allontanato prima che potesse esibire il biglietto. Io, i discorsi dei grandi non li capivo e ne mi interessavano, l'entusiasmo iniziale con cui intraprendevo ogni viaggio pian piano cedeva il posto alla stanchezza ed alla noia, così che puntualmente mi ritrovavo a contare i pali posti ai lati della ferrovia che collegati fra loro da un altalenante groviglio di fili sfrecciavano dal finestrino con la cadenza ritmata quasi di un orologio, e così palo dopo palo calava la notte, e le notti su un treno affollato sono interminabili, specialmente se non hai dove poggiare la testa che diventa sempre più pesante con il passare delle ore. In quel dormiveglia generale scosso ogni tanto dal sibilante fischietto di un capostazione solitario, o dallo scampanellio di un venditore di caffè, solo la locomotiva sembrava non voler accusare la stanchezza, gli stantuffi come due poderose braccia più che dal vapore sembravano spinti dalla volontà che quelle centinaia di anime avevano di giungere a destinazione. In mattinata il treno iniziava man mano a svuotarsi, chi era arrivato salutava chi continuava il viaggio con una calorosa stretta di mano così come si saluta chi ha vissuto assieme un'avventura. Io li seguivo sempre con lo sguardo mentre trascinandosi dietro un peso sproporzionato di bagagli, sparivano al loro destino fagocitati dalla folla, e ogni volta mi veniva il magone per essermi reso partecipe di una storia della quale non avrei mai conosciuto la fine. Non so se all'epoca io a la mia famiglia dovessimo considerarci degli emigranti o dei nomadi visto che la nostra residenza non durava mai più di un anno nello stesso posto, è certo però che per quel continuo girovagare, io su quei treni saturi di fumo di sigarette e di puzzo di piedi ci ho passato molto tempo. Detto così potrebbe sembrare che quei viaggi siano stati solo sofferenza. In parte è vero, ma è vero anche che dai finestrini di quei vagoni ho visto per la prima volta un mondo che non era quello solito di "via Duca della Vittoria": montagne innevate, pianure sterminate, buoi arare campi, pastori e greggi scendere al mare. Da quei finestrini ho vissuto la quiete delle piazze semibuie e deserte, ho palpato il calore di un camino fumante nella notte gelida, da quei finestrini per la prima volta mi sono sentito importante alla vista di tanti automezzi che fermi al di la delle sbarre aspettavano il nostro passaggio. Da quei finestrini per la prima volta ho visto l'alba.
Se non ne avessi vissuto tutta una metamorfosi, oggi stenterei a credere di essere su di un treno mentre con un pronostico di appena due ore e cinquanta minuti percorro la tratta Roma-Milano. I classici sobbalzi che si avvertivano al contatto delle ruote con le giunzioni dei binari sono solo un ricordo, e quel frastuono simile ad un'esplosione, provocato dalla miriade di scambi che all'ingresso di ogni stazione svegliava di soprassalto il passeggero che si era appena appisolato, ora si percepisce solo come un leggero e ovattato fruscio per nulla fastidioso. Un display in fondo al corridoio informa che si sta viaggiando a 300 km orari. Vorrei scambiare qualche parola, non tanto per necessità, quanto per l'inconscio desiderio di perpetrare un rituale, così come avrebbe fatto anche mio padre, ma dopo aver data una ennesima rapida occhiata agli altri viaggiatori mi rendo conto che non ci sono le condizioni per un minimo dialogo dal momento che chi non è alle prese con un computer, pensa bene di isolarsi dal mondo circostante infilandosi nelle orecchie un paio di auricolari. Ogni volta mettendo piede su di un treno, provo la stessa emozione che da bambino, ma se qualcuno di quei passeggeri posasse per un attimo il suo sguardo amorfo sul mio, noterebbe un'espressione forse a lui incomprensibile. È nostalgia. Nostalgia di quei discorsi fatti di mille dialetti, di quei volti, si abbrutiti dalle fatiche, ma addolciti dalla speranza o dall'ansia di tornare a casa, volti sui quali le profonde rughe scolpite dalle sofferenze in un attimo sapevano fare da cornice ad un affettuoso sorriso. Nostalgia di quando si scendeva dal treno con le mani ed il viso anneriti dalla fuliggine ma con dentro un grande carico di umanità. Così dopo quasi 60 anni mi ritrovo ancora ad osservare oltre il vetro del finestrino un mondo che come il treno corre sempre più veloce, così come più veloce corre pure il mio tempo .
Angelo D'Agostino
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