Non li sentivamo mai, i tre fratelli del piano di sopra. Tre vite unite in una casa di cinquanta metri quadrati.
Enrichetto, esile come una spiga di grano, non usciva quasi mai da quella piccola casa, dedito alla sua gestione millimetrata come la carta dei disegni delle medie, rosso su campo bianco. Ti chiamava con la sua voce flebile quando si affacciava di tanto in tanto per tirare di sotto dalla finestra del piccolo bagno i resti della verdura incartati in buste di carta, da dare alle galline.
Il suo regno era la casa.
Carlino era il più moderno, aveva una lambretta color celestino chiaro, tenuta nel piccolo garage abusivo realizzato sul retro della casa, con la quale arrivava fino al paese e alla città per lavorare, il sostentamento nell'accordo che si era creato trai due fratelli. Le giovanini lentiggini avevano lasciato ormai il posto alle macchie che il tempo aveva allargato. Il suo posto preferito era una sedia a sdraio verde sul piccolo terrazzo prospicente la cucina.
Ai due si aggiunse Enzo, un terzo fratello dei cinque che erano, quando rimase vedovo. Era una cupa ciminiera che si aggirava per il selciato antistante la casa sotto il lampione. Enrichetto non voleva che si fumasse in casa e così, d'inverno, Enzo era là, avvolto costantemente dalla nebbia che produceva. La sua nuvola di smog era una scia acre e fredda che si trascinava per le due rampe di scale. Non rideva mai.
Tre vite unite dalla genetica; ognuno nella sua nuvola, nel loro mondo a parte sul viale del Tirreno.