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Un contenitore
Utilizzo metà del mio stipendio per andare dallo psichiatra.
Mio padre mi ci aveva portato dopo un terribile incidente. Già a dieci anni ogni pochi giorni facevo visita alla dottoressa Wilson. Lei era una bella donna e fin da quando ero piccolo prima di me, da lei ci entrava mio padre. Mi lasciava fuori nella sala d’attesa. Io avevo una tale rabbia dentro di me che non esplodeva. Ero diventato un contenitore chiuso con il lucchetto. Un contenitore dove si accumulava la mia rabbia; mio padre se ne era accorto e così mi portava dalla dottoressa. Mio padre pensava che tutto si potesse risolvere con la psicoanalisi. Io quando andavo dalla signorina Wilson raccontavo e rispondevo alle sue domande ma la cosa non mi aiutava a scaricare la mia rabbia. Forse pensando a chi le aveva sbottonato un attimo prima la camicetta, altra rabbia entrava nel mio contenitore. Il mio contenitore avevo imparato a serrarlo. Avevo fatto troppo male in vita mia già a dieci anni e non era il caso di continuare. Sapevo perfettamente fin da piccolo che il contenitore dentro di me era davvero ingombrante e non mi avrebbe permesso di vivere normalmente. Pensavo che il contenitore fosse un mio handicap e guardando i diversamente abili in giro per le strade riuscivo ancora a sentirmi fortunato. Sapevo perfettamente però che prima o poi questo contenitore di rabbia non avrebbe più retto. E da quel momento in poi ipotizzavo che la mia vita non sarebbe stata più normale.
A sedici anni ho cominciato a prendere i miei primi psicofarmaci. Pensavo che mi avrebbero dato una mano e infatti così fu. Permisero che la mia vita proseguisse. Il mio contenitore però si riempiva per non svuotarsi.
Ora sono cresciuto e all’età di trenta anni ho ancora il mio contenitore di rabbia che trova dimora nella mia mente. Poche cose sono cambiate da quando ero più giovane.
Ero al bar a chiacchierare con un tizio conosciuto sul momento, la discussione aveva per argomento la vita.
“ Senta ma secondo lei perché ogni volta che c’è qualcosa che è andato storto, nessuno dice ‘sono stato io, scusatemi sono uno stronzo’? ”, mi fa il tale con cui stavo parlando.
“ Io alle volte ho detto di aver sbagliato, ma dopo pochi secondi me ne sono pentito. Sa, ero piccolo, avevo appena dieci anni, stavo giocando con un mio amichetto con la palla da baseball e la mazza. Un mio tiro è finito sui vetri della finestra di casa e ha preso mia madre dritta in fronte”, risposi alternando parole a sorsate di caffè.
“ Cosa è successo? ”.
“ È morta. Teneva la testa chinata all’ingiù per guardare il pesce che stava pulendo nel lavandino della cucina”, continuai il mio racconto.
“ Cazzo, che scena, mi fa morire dal ridere”, cominciò a ridere e non capivo se lo facesse sul serio oppure pensava che il mio racconto era tutta una balla. Il problema è che il racconto era vero. Io ero un assassino e lui ci scherzava sopra.
“ Cioè lei, con la mazza ha colpito una pallina che ha preso sua madre in testa? ”, domandò ridacchiando, quasi per conferma di aver capito una barzelletta, quando invece si trattava del mio passato.
“ Si è proprio così, la fa ridere? ”.
“ A crepapelle”.
La sua risata fragorosa mi dava sui nervi e provocava una nausea incredibile.
Mi guardava aspettando che dicessi qualche cosa, poi scoppiava a ridere sempre guardandomi in faccia. Io ero serissimo e sempre più arrabbiato, ma lui non aveva capito.
Non era ubriaco e la cosa lo rendeva ancora di più, pazzo oppure tonto ed incapace di intendere e di volere. Mi accorsi di essere ubriaco. Solo quando ero ubriaco avevo la capacità di raccontare l’episodio della mia infanzia.
Dopo gli domandai come facesse a ridere di una disgrazia altrui a quella maniera. Egli mi rispose che lo faceva ridere la scena. Pensava al mio amichetto che mi lanciava la palla, io che caricavo la mazza dietro la schiena e sferravo un gran colpo che sfondò prima il vetro e poi la fronte di mia madre. Riusciva a ridere ancora, era incredibile, ma cercavo di mantenere la calma. Certo, dovevo trovare il modo di alzarmi e uscirmene gentilmente da quel bar.
Mi alzai, tornai a casa mia e mi gettai dalla finestra. All’impatto con il pianeta terra pagai il mio prezzo con il dolore. Quello che rimase di me fu un contenitore di rabbia.
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