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Come Archimede
Ho scoperto la masturbazione relativamente tardi. Ero in gita. Straordinario come una cosa sconosciuta fino a pochi attimi prima, all'improvviso si rivelasse così familiare, come fosse sempre stata parte della mia vita. Come fosse la cosa più normale del mondo. Un prolungamento del braccio. Come insegnare a un pesce come nuotare, insomma. Ricordo come ne parlavamo tra ragazzi, l'Argomento per eccellenza. I dettagli! Quanto erano importanti i dettagli... e le esagerazioni e la curiosità, scoprire e imparare e sentirsi meno soli. Si parlava di cinque al giorno, tre di fila, ma secondo voi le ragazze...? Si aspettava che qualcuno raccontasse di quella volta, sapete, sono stato beccato, così da poter finalmente condividere la propria storia... era il nostro frutto proibito, il primissimo, il più bello. Sigarette, alcol e le altre sostanze (e non esclusivamente sostanze, i brividi...) erano ancora lontanissime, un orizzonte ben nascosto dalle nostre siepi. Per la prima volta nella nostra vita non eravamo più solamente figli di qualcuno. Per la prima volta nella nostra vita entravamo finalmente a contatto con la nostra intimità, iniziando così (involontariamente) un percorso che avrebbe potuto portarci con un po' di fortuna a conoscerci, una meta che più in là negli anni sarebbe diventata il nostro Santo Graal: un'identità personale, l'individualità. In un mondo che conosce il figlio di, la moglie di, lo zio di, l'amico di... un mondo che sempre giudica ma mai perdona. Un mondo che riconosce l'errore, giudica il peccatore, ignora lo sforzo atto a porvi rimedio. Magari sopravvaluto l'esperienza, magari è solo il primo peccato di una carriera da peccatore... o, peggio, neanche quello. Gli altri e io. Perché gli altri, gli adulti, parlavano di brutti vizi, cecità, acne, e tantissime altre cose che giustamente uno decideva di non sentire e ignorare, figurati ascoltare e seguire - se non per accentuarne gli effetti positivi prima, negativi poi. Come a proteggerci da chissà quale minaccia. Quell'imbarazzo negli occhi... l'imprinting. Superata, logora, lontana, incomprensibile... superstizione e paura hanno forgiato questa società, dando regole, forme di condotta, che ancora oggi condizionano le nostre educazioni, le nostre vite. Tutti uguali al di là delle differenze, un esercito di sìsignoresignorsì: guai a mettere in dubbio, guai a porsi domande, guai a uscire fuori dagli schemi. Motivo per il quale il primo abbraccio e i successivi, per molti anni, non hanno fatto altro che sembrarmi come rubare in fretta un piacere furtivo, e relative conseguenze emotive.
La doccia è per chi ha fretta, il bagno è per chi ha voglia di sognare. A mo' di mantra. Sono solito fare bagni lunghissimi. L'acqua deve essere calda. Caldissima. Porto i pensieri con me. Mi distendo, chiudo gli occhi e li passo in rassegna tutti, dal più innocuo al più grave, dal più inutile al più importante. Il vapore mi deconcentra, mi sento mancare le forze. Non sono stanco. Sempre più svogliato continuo fino a che spulciando fino al più remoto angolo del mio archivio, non trovo più nulla: lo Zero. Libero! Non sto pensando più... o meglio, sto pensando di pensare. E lì mi addormento. O svengo. Non mi è mai stato veramente chiaro. Molti minuti dopo, ma potrebbero essere effettivamente solo pochi secondi - un sussulto. Occhi sbarrati, occhi che non guardano. Sensazione meravigliosa. Come quando li chiudi per poi strofinarli con vigore e quando smetti e finalmente li riapri hai linee e palline e segni (come seguissero un tema di qualche stravagante design) che danzano spensierati davanti gli occhi. Li segui. Veloce e piano, su e giù, a destra e a sinistra, e di nuovo veloce, poi... sempre concentrato cerchi di capire dove ti vogliano portare, cosa vogliano dirti. Ti sembra un messaggio. Non sai decifrarlo ma questo ti rende felice e appagato... ma di nuovo lucido. Sono in bagno. La vasca. L'acqua è calda. Il cuore batte ancora forte ma il respiro sembra sincopato. Stringo gli occhi, poi mi faccio forza e mi metto a sedere, con l'aria fresca della stanza che batte contro il petto. Riempio i polmoni per poi liberarli. Enema della mente. In quel momento sono libero, sono finalmente Io, posso concedere alla mia mente di dire, fare, pensare, sognare, immaginare... tutto ciò che vuole. Posso lasciarla masturbare.
Tutto ebbe inizio quella sera. Era la volta dei 30. C'era stata quella dei 20, quella del "è deciso per sabato sera, lo scorso è andato l'altro gruppo, stavolta tocca a noi", quella del "perché no?", quella che "mai saprò esserci stata" e quella che "lo scoprirai soltanto dopo, perché...", ovviamente quella dei 25, quella del "da quanto tempo dall'ultimo da quanto tempo!", e quella del "saputo chi è morto? Troppo breve la vita, vediamoci per una pizza... come ai bei tempi!". Non ho mai realmente capito questo bisogno di ritrovarsi... come se essere stati compagni di scuola, colleghi di lavoro... rappresentasse un legame così vincolante da imporsi una rimpatriata con cadenza annuale e poi addio al prossimo dobbiamo farlo più spesso. Più di quanto si possa effettivamente legare coi compagni di viaggio in ascensore. Basta non scoreggi, per il resto... Tanta autostima, un ego così ubriaco di Io sono stato, sono e sarò da credere di essere stato importante per gli altri, fondamentale per la crescita altrui. Magari è semplicemente desiderio di riaccendere una fiammella in via di spegnimento, se non addirittura già spenta. Magari è semplice convenzione sociale. Se invece fosse l'ennesima gara, contest, sfida? Non è sempre così, dopotutto? Dai primi di anni di vita: in famiglia, con i vicini, a scuola, nei ritrovi nelle piazze dei paesi, tra i cubicoli claustrofobici degli uffici, sui treni e sugli aerei e sui pullman: il giocattolo più bello, la maglietta più stretta, il cd più figo, il voto più alto (o quello più basso), il contratto più vantaggioso, la casa più bella, il conto in banca più grasso, la diagnosi peggiore... e se invece fossi soltanto tu che vedi tutto nero, adesso non è neanche più permesso ritrovarsi perché ci si vuol bene? Probabilmente hai ragione tu, Coscienza di Manuel. Sarà effettivamente così. In ogni caso. Mi trovo lì, in mezzo a tutti quei sorrisi impossibili da decifrare se sinceri o meno, acconciature e bei vestiti. Sono sempre io, ma in qualche modo meno brutto. Riempio i pantaloni e la maglietta, e per la prima volta in vita mia le scarpe sono perfette per il look e per la situazione. Sono sicuro di me stesso e tutti sono gentili. Vuoi vedere che mi ero veramente sbagliato? E poi arriva lei... lei è quella che... è lei. Ognuno di noi ha una lei, o un lui. Quella lei, e quel lui. Che poi succeda qualcosa o, più probabilmente lo Zero Assoluto, lei è lei. E lui lui. Attratti. "Ciao!" mi dice, "Ciao..." le rispondo. "Come stai?" mi chiede, "Io bene, tu?" ribatto, "Benissimo direi!" e silenzio. "Studi?" lei, "Neanche quando avrei dovuto!" io. "Lavori?" insiste, "... più o meno" improvviso. "Sarebbe?" perplessa, "Beh, sto scrivendo un libro..." incredulo. "Ma dai!" sorpresa, "Eh, così pare..." pentito. "E di cosa parla?" indaga, "Beh... pensavo... perché non scrivere un libro in cui spiegare i motivi per i quali non valga più la pena scrivere... libri?" incredulo. "Ah... io invece lavoro in banca!" game, "Beh, bello no?" set, "Certo! Tu, invece, un lavoro vero?" match. E riapro gli occhi, l'acqua è un po' meno calda e il mio stesso inconscio mi prende per il culo. Autocritica!, come no. Però, bella idea quella di scrivere davvero qualcosa, non fosse che penso sia stato davvero detto/scritto/pensato tutto, e non basti più farlo bene, devi aggiungere tanto altro. E chi ne ha voglia? Sarebbe divertente, comprate questo libro, vi spiego perché non avrei dovuto scriverlo! Devo pensare a un titolo...
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