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Il profumo del rosmarino
L'erba alta, il muretto di cinta franato in più punti, i muri scrostati contribuivano a rendere ancora più arduo l'impatto con quel rudere che lo aveva attratto al punto da rivolgersi all'agenzia. La ragazza incaricata non nascondeva il disagio, venderlo sarebbe stata un'impresa.
La chiave sembrava non volerne sapere di girare, poi finalmente la porta cedette, l'entrata era buia, il primo tentativo di aprire la finestra non aveva avuto successo, il secondo andò meglio. L'interno era accettabile, polvere e calcinacci dappertutto, muri e infissi però erano in buone condizioni. La cucina e la stanza da letto erano alquanto anguste, il bagno al contrario fin troppo ampio. C'era una specie di terrazzino che dava sulla pineta, la vegetazione arrivava quasi alla ringhiera. Una vista incantevole. Un lembo di terra trascurato, in una zona troppo distante dal mare per un investimento turistico, troppo isolato per una speculazione edilizia, oltre al fatto che a pochi chilometri c'erano interi villaggi sfitti e invenduti. Non c'era motivo per acquistare quel fabbricato, ma l'uomo sembrava attratto da qualcosa che nemmeno lui sembrava comprendere. Non amava il mare, non era mai andato a pesca in vita sua, non aveva mai dedicato molto tempo alla natura, non c'erano spiegazioni logiche, ma la logica non era mai stata il suo forte. Girando intorno all'immobile scoprirono una specie di cantina che occupava poco spazio in uno scantinato di dimensioni impensabili. Ad affascinarlo però era la torretta a tre piani, un locale ogni piano, che terminava con una specie di terrazza con tanto di merlatura. Merli ghibellini per essere precisi, e considerando che tutto si poteva pensare ma non che potesse risalire al Medioevo, era abbastanza curioso. Da quando era tornato, non sembrava provare interesse per nulla, sentirsi così attratto da qualcosa lo faceva sentire quasi euforico. Il giorno dopo incontrò il proprietario in agenzia e concluse l'affare. La ragazza che lo aveva accompagnato non stava più nella pelle.
Si fece indicare qualcuno in grado di eseguire i lavori necessari, avrebbe voluto fare tutto da solo, ma non aveva esperienza e la costruzione richiedeva un intervento professionale. L'idea era di ricostruire il muretto perimetrale, sistemare gli infissi, intonacare, lavori che richiedevano una competenza che non possedeva; per le migliorie ci sarebbe stato tempo, aveva già un'idea di massima, ma prima voleva viverla, assorbirne gli odori, i rumori. Voleva prendere confidenza con l'ambiente. Salendo sulla torretta aveva potuto ammirare flora e fauna: giunchi, cannuccia palustre, orchidee, leccio, asparago selvatico, fagiani, merli, ghiandaie. Una bellezza inviolata, intatta. Incompresa.
L'impresa cui aveva affidato i lavori si era dimostrata all'altezza, soluzioni semplici che avevano risolto quasi tutti i problemi senza grandi cambiamenti, il timore di ritrovarsi qualcosa di irriconoscibile, diverso da ciò che lo aveva attratto risultò infondato. Anche i rovi di rosmarino selvatico erano rimasti al loro posto, i fiori azzurri che si arrampicavano sui fusti e il forte aroma, aggiungevano un po' di quella magia che cogli, ma non sapresti mai spiegare. Anche agli interni era stato riservato lo stesso trattamento, solo interventi di ripristino, spazi immutati, pareti bianche in tutti i locali. Quel luogo sembrava togliergli l'ansia che lo accompagnava da sempre. Non aveva deciso come utilizzarlo, ma l'importante era l'effetto che gli procurava.
Questa è la solitudine che amo, la riconosco al tatto, ne assaporo l'essenza. È raro potersi godere momenti come questo. La solitudine difficilmente si concede, difficilmente la incontri da sola, si fa quasi sempre accompagnare: tristezza, malinconia, rimpianti. La solitudine non è quasi mai una scelta, il difficile, però è scoprirlo.
L'estate, la prima dopo il suo ritorno, era trascorsa senza episodi particolari, una routine abbastanza noiosa. In città si doveva occupare dello Studio, qui l'unico impegno era seguire i suoi investimenti che peraltro aveva affidato a professionisti competenti.
Non amava l'estate, per la verità non amava particolarmente nessuna stagione, riusciva sempre a far affiorare il peggio, il troppo freddo, il troppo caldo, il troppo buio, la troppa luce. Un'inquietudine cui non faceva più caso, un'insoddisfazione che si era trasformata in isolamento. C'era stato un tempo, dove aveva cercato di opporsi a tutto questo, aveva cercato di piacere agli altri in tutti modi, sempre disponibile, sempre in prima fila quando c'era da organizzare, da aiutare, purtroppo qualsiasi cosa facesse non bastava mai, anzi sembrava che tutti i suoi sforzi lo rendessero minuscolo, la sua generosità era percepita come una debolezza che tutti erano pronti a sfruttare.
Quando solitudine e angoscia diventano sinonimi ti trovi a un bivio, o reagisci o ti lasci inghiottire dal buco nero.
Da quando aveva scelto di tornare in questi luoghi, gli capitava spesso di ripensare al passato, a ciò che avrebbe potuto essere. Episodi lontani, che avrebbe voluto cancellare, il pensiero tornava a quella sera... una sera come tante: solita discoteca, solita storia, solita tribù, stava parlando con una ragazza quando si avvicinò uno sconosciuto che con fare arrogante cominciò a importunarli, lui tentò di reagire ma non c'era partita, arrivarono altri e cominciarono a provocarlo, a strattonarlo. La ragazza scoppiò a piangere e si allontanò. Il bullo gli versò il contenuto di un bicchiere sul vestito, molti ridevano, altri assistevano in silenzio, qualcuno aveva addirittura smesso di ballare per godersi la scena. Nessuno intervenne, nemmeno gli amici, quelli cui aveva dato un passaggio per raggiungere il locale.
Non fece una piega, si alzò in silenzio, raggiunse la ragazza che aveva assistito alla scena preoccupata, si scusò e uscì. Quella sera la sua vita prese un'altra direzione. Cambiò città, cambiò più volte lavoro, si laureò senza che nessuno se ne accorgesse. Qualche anno dopo attese quel bullo che non aveva mai perso di vista, temporeggiò finché non fu sceso dall'auto lo urtò in retromarcia, un urto non violento, solo per farlo cadere, per disorientarlo, scese e senza dire una parola cominciò a picchiarlo selvaggiamente con una mazza da baseball, gli spezzò le gambe. Era buio, il malcapitato non riusciva nemmeno a gridare. Per un attimo pensò di finirlo ma il pensiero di quanto avrebbe sofferto lo frenò. Se ne andò senza voltarsi. Rientrò a notte fonda, aveva guidato senza fretta, senza ansia, non avrebbe saputo descrivere il suo stato d'animo, si sforzava di non pensarci.
Ho fatto ciò che dovevo. Capitolo chiuso.
Aveva compreso presto che per vivere la vita che aveva scelto senza sprofondare, servivano risorse. Scartò subito l'idea di vivere nell'illegalità, non era un problema di coscienza ma aggiungere ansia alla solitudine gli sembrava una pessima idea. Dopo essersi laureato, era riuscito a farsi assumere nello studio dove aveva fatto il tirocinio da praticante, il lavoro non lo spaventava, anzi era il solo vero interesse, dopo quattro anni rilevò l'attività. Non cambiò nulla, stessi arredi, stessi lavoranti. Una segretaria preziosa, efficiente quanto scialba.
Non ho più bisogno degli altri.
La grande città garantiva l'anonimato, guadagnava abbastanza da potersi permettere quasi tutto, per la verità non aveva grandi ambizioni, non amava le auto, la mondanità lo infastidiva. Abbigliamento elegante, una libreria ricchissima, una buona cantina. Una vecchia BMW che non usciva mai dal garage. Aveva investito molti dei suoi guadagni acquistando appartamenti, una minuscola villetta sul lago che aveva tenuto per sé e molti terreni fuori città, distanti dal centro ma non ancora periferia. Una fissazione del nonno che ripeteva sempre "se avessi i soldi... alla fine dovranno costruire e il guadagno sarebbe enorme". Il nonno aveva ragione, ma anche i lauti guadagni non lo avevano cambiato, qualche interesse iniziale poi aveva affidato tutto a un'agenzia che lo coinvolgeva solamente in caso di necessità. Spesso scordava perfino di controllare i bilanci di quelle attività. Non erano i soldi a interessarlo, quei terreni erano una sorta di rivalsa, una sensazione di benessere che non aveva bisogno di spiegazioni.
Fuori dall'ambiente di lavoro era invisibile, poche frequentazioni, nessun amico. Il rapporto con le donne era la sintesi della sua vita, nessuna era mai entrata in casa, poche erano andate oltre un paio di week end. Frequentava alcuni circoli esclusivi, aspiranti modelle, prostitute di alto bordo, bagno turco, massaggi. Incontri quasi casuali.
Nulla è per sempre.
Un giorno arrivò nel suo studio una ragazza, un problema legato all'acquisizione di un immobile. "Una bega tra clienti" disse sorridendo. Niente di complicato, mentre firmava il mandato, "Sono una escort", disse mantenendo lo stesso tono, "probabilmente salterà fuori e voglio essere chiara da subito". "Sono un avvocato", sorrise lui, che solo in quel momento aveva compreso il significato della battuta sulla bega tra clienti. Giulia si lasciò andare a una risata spontanea, ringraziandolo con lo sguardo. La osservò con più interesse, solitamente non prestava molta attenzione alle persone, ma c'è sempre l'eccezione. Snella ma non magra, altezza media, mora, viso da liceale, uno sguardo diretto, difficile da ignorare. Nessun indizio che lasciasse trasparire la sua professione. Sembrava più giovane dei ventinove anni che il documento attestava.
La questione si risolse in pochi mesi, e prima che se ne accorgesse, aveva accettato il suo invito a cena. La trattoria parlava milanese, i versi di Carlo Porta sulle pareti, un'interpretazione originale della cucina tradizionale. Lei smentì subito i suoi cattivi pensieri: "Non ci sono mai stata, ma ne ho sentito parlare molto bene". Conversazione spontanea, cinema, arte, politica, sapeva ascoltare ma aveva idee precise e sapeva documentarle in modo fermo. Una serata quasi perfetta.
Uscirono per ultimi dal locale, stava per chiamare un taxi ma lei lo dissuase, "Abito a poche centinaia di metri, lo chiamiamo da lì".
Passeggiarono a lungo, la notte era piacevole, una leggera brezza accompagnava i loro passi. Lo invitò a salire, "Abito al settimo piano, ma c'è l'ascensore", lui rifiutò con tutto il tatto possibile ma l'espressione di Giulia era carico di delusione. Sfiorò con una carezza quel viso che il broncio rendeva ancora più affascinante e prima di incamminarsi le propose di rivedersi per sdebitarsi. Ripensandoci non riusciva a dare una spiegazione al suo gesto. Perché non aveva accettato l'invito?
Qualche cena, qualche serata a teatro, lunghe camminate, non l'aveva più invitato a salire, quando la accompagnava, si salutavano sulla porta di casa. Era irrequieto, quella situazione rompeva i suoi schemi, le sue certezze. Per lui la solitudine era un universo che comprendeva tutto ciò di cui aveva bisogno. Non aveva nessuna intenzione di cambiare a cinquant'anni. Non era abituato a gestire rapporti come questo che oltretutto non sapeva come definire. Evitare di andare a letto con Giulia era un tormento, era chiaro che anche lei era attratta e questo non semplificava le cose.
È una puttana, la vuoi, sai come fare.
Certo sarebbe stato tutto più facile ma sapeva che non sarebbe andata così. S'impose di chiudere in fretta, andare oltre significava rischiare di perdere il controllo. Si sorprese a pensare come l'avrebbe presa, sorrise. Quando mai si era preoccupato delle conseguenze di un suo gesto?
L'occasione si presentò presto, un impegno di lavoro che lo avrebbe tenuto lontano per almeno dieci giorni. Un periodo abbastanza lungo da ripristinare l'equilibrio di cui aveva bisogno. Giulia per la verità non mancava mai di dargli il buongiorno, la buonanotte. Messaggi poco impegnativi, ma sempre puntualissimi. Lui non rispondeva quasi mai, gli mancava, ma sapeva che non avrebbe funzionato, l'idea di vivere con un'altra persona, di darsi delle regole lo faceva star male.
"Quando rientri?" Aveva risposto al messaggio.
Era stata una serata come tante, avevano cenato in una trattoria di Viale Gorizia, rispettosi delle regole che si erano dati, lei si fermò a pagare il conto, uscirono ridacchiando per l'espressione della cassiera. "Adesso però mi racconti tutto della tua fuga a Roma". Percorsero il viale fino a raggiungere la sponda del Naviglio Grande. Ogni tanto commentavano la bellezza di quelle case, attraversarono un ponte tutto di ferro, i riflessi delle luci nell'acqua del canale sembravano acquerelli in movimento. La pioggia cominciò a cadere all'improvviso ma non ci fecero caso, continuarono a camminare fin sotto casa di Giulia, "Se sali ad asciugarti ti prometto che non ci provo", accompagnò la battuta con una delle sue risate. Aveva indossato una tuta informale, capelli ancora bagnati, era bellissima. "Ti dovrai accontentare del mio accappatoio", aggiungendo che gli sarebbe piaciuto vederlo indossare il pigiama con i coniglietti, "staresti benissimo".
Si alzò per raggiungere il bagno, prima però girò intorno al divano e la baciò quasi con violenza, un bacio lunghissimo. Si svegliò all'alba, si vestì facendo attenzione a non svegliarla. Lasciò un biglietto sul cuscino e prima di uscire la guardò a lungo. Si sentiva svuotato, una sofferenza nuova. Aveva la sensazione che tutto stesse franando. Ripensava alla frase di Giulia dopo ore di sesso "quanto ho atteso questo momento".
L'addio era stato sbrigativo, lei aveva ascoltato in silenzio, non sembrava sorpresa, lo abbracciò, "Grazie, per un po' mi hai fatto scordare di essere una prostituta". Avrebbe voluto abbracciarla, rimase immobile, non disse nulla, non aveva mai considerato quell'aspetto. Certo a pensarci era naturale che lei considerasse che a dividerli fosse il suo lavoro, la realtà era diversa ma non avrebbe saputo come spiegarlo e lasciandoglielo credere l'avrebbe aiutata a dimenticare.
Erigere muri è la cosa che mi riesce meglio.
Bellagio aveva ormai chiuso i battenti, pochi turisti nonostante un autunno caldo come non si ricordava da anni. Non aveva nemmeno tolto il cellofan ai divani. Intere giornate a fissare il lago. Immagini frenate, assenza totale di rumori, i colori della natura che si divertivano a giocare con le sfumature. Difficile perfino cogliere lo scorrere del tempo. Il telefono non aveva più squillato.
Il ritorno in città non aveva modificato quel quadro, il grigio aveva sostituito i colori, le prime nebbie non servivano a proteggerlo dai suoi nemici invisibili.
Aveva ripreso il lavoro, ma si era subito accorto che niente sarebbe più stato come prima. Quelle mura non lo isolavano da quel mondo da cui non riusciva più a escludersi. Fece il numero di Giulia ma il telefono era spento. Passò tutte le sue pratiche ai suoi collaboratori e decise di prolungare il periodo di distacco.
Usciva di casa solamente la sera, lunghe camminate senza meta, angoli sconosciuti di una città che a pochi metri dalle luci scintillanti custodiva le sue miserie, barboni puzzolenti che non smettevano mai di tossire, prostitute dai corpi sfatti, spacciatori, drogati. Forme in movimento che aveva imparato a ignorare. Un mondo che aveva sempre disprezzato, reietti che non avevano reagito, si erano fatti assorbire dal lerciume. Alle prime luci dell'alba tornava sfinito, avvolto in quella miseria che non riusciva più a ignorare.
Quella mattina, nel freddo pungente di un'alba d'ottobre, si sentiva come uno che ha tagliato i ponti con tutto, uno che, alle soglie dei cinquanta, non è più legato a niente, né a una famiglia, né a una professione, né a un paese, e neppure, tutto sommato, a un domicilio: a nient'altro, insomma, che a una sconosciuta addormentata nella camera di un albergo più o meno equivoco. *1
Georges scrivendo quelle pagine indimenticabili forse non aveva considerato che, toccato il fondo, si può sempre cominciare a scavare.
Si era svegliato di soprassalto, grondante di sudore, l'incubo era stato terribile, una mazza da baseball, lui che picchiava come un ossesso, al posto del bullo c'era Giulia che lo guardava sorridendo. Voleva smettere ma non ci riusciva, più sorrideva, più sentiva il bisogno di essere violento. Aveva rimosso o quasi quell'episodio, non si era mai nemmeno interessato alle conseguenze di quel gesto. Perché ora? Che cazzo c'entra? Guardò l'orologio, le 7. 23, aveva dormito quattro ore. Il lungo sorso d'acqua gelata gli procurò un po' di sollievo, sentì il bisogno di tornare ai riti abituali, qualche esercizio, una doccia lunghissima, scelse l'abbigliamento con cura e camminò fino allo studio invece di fermarsi continuò a camminare. Il portiere gli disse che la signorina del settimo piano era partita da un paio di settimane, non aveva lasciato recapiti, aveva incaricato un'agenzia di vendere l'appartamento.
La decisione di tornare nei luoghi della sua giovinezza lo colse quasi di sorpresa, non aveva legami, nessuna nostalgia. Era curioso di scoprire l'effetto che gli avrebbe fatto rivedere quei posti. Cercò sul cellulare il numero dell'agenzia cui aveva affidato la cura della sua vecchia casa e gli comunicò la data del suo arrivo.
"El mangià e bev in santa libertaa / in mezz ai galantomen, ai amis, / in temp d'invern al cold, al fresch d'estaa, / diga chi voeur, l'è on gust cont i barbis".
Prima di partire fece in modo che tutti i giovedì fosse pubblicata questa frase sul quotidiano che aveva visto a casa di Giulia, i versi di Carlo Porta che facevano bella vista sul muro della trattoria dove avevano cenato la prima volta.
L'attesa non lo spaventava, non aveva mai avuto nessuno da attendere, adesso gli sembrava bello coltivare un rimpianto. Gli capitava sempre spesso di pensare agli anni trascorsi a Milano, alle sue giornate solitarie. Non che adesso fosse cambiato molto, ma sentiva una smania di cambiamento che lo faceva sentire diverso, sensazioni nuove mai provate.
Il rudere in questi cinque anni era diventata un'oasi di rara bellezza, non si allontanava quasi mai se non per fare provviste, ritirare la posta, qualche commissione. Apriva il giornale, sfogliava lentamente le pagine fino a quella degli annunci, rileggeva quei versi a voce alta, ogni giovedì, dalla prima all'ultima riga. Si chiedeva spesso se tutto questo avesse un senso, a ogni tentativo di risposta, però i pensieri si facevano contorti, ambigui, sembravano temere di rientrare in quello spazio angusto dove li aveva esiliati per anni. Avrebbe voluto rassicurarli, ma gli sfuggivano sempre qualche attimo prima. Nulla di grave, alla fine si sarebbero convinti da soli.
Spesso si assopiva seduto sul canapè in giardino, a svegliarlo era un soffio di vento, l'abbaiare lontano di un cane, la puntura di un insetto. Prima ancora di aprire gli occhi, a rassicurarlo era il profumo del rosmarino. Non aveva mai creduto alle leggende che accompagnavano quei rametti pelosi, non aveva mai creduto agli incantesimi, ma anche se lo negava perfino a se stesso, annusandolo pensava a Giulia.
Giulia... chissà cosa penserebbe nel vederlo in quell'eremo, come spiegarle che aveva scelto la grande città per stare solo e quel luogo appartato per riabituarsi alla vita. Sorrideva ancora prendendo il telefono per controllare il messaggio: l'ennesima offerta del gestore telefonico confermò il suo scetticismo sulle qualità magiche del rosmarino. Pensò a tutto quello cui aveva rinunciato, respinse subito quel pensiero, riprese a leggere. La vita non lo avrebbe sorpreso un'altra volta.
*1 dal romanzo di Georges Simenon, Tre camere a Manhattan.
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1 recensioni:
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- Il richiamo ancestrale, quello che sa muovere ogni cosa ed ogni foglia fa sostare al giusto posto, sospinge l'incauto personaggio ad abitare quella costruzione, insomma tutto sembra sospeso tra cielo e mare, Ma il rosmarino, il suo odore balsamico sembra soffiare sul protagonista come un balsamo salutare che serve a cancellare i cattivi pensieri.
- Più che l'egoismo, la rassegnazione, la rinuncia... poi c'è sempre qualcosa che rompe gli equilibri, soprattutto quando si reggono sul filo. Ovviamente si "gioca" sul paradosso.
- Il personaggio che hai creato é tanto strano quanto engmatico ed è per questo, io credo, che il racconto risulta interessante. Si tratta forse della figura di "antieroe" che cerca la solitudine romantica per nascondere a se stesso il proprio sostanziale egoismo? Non saprei ma il racconto è ottimo... saluti
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