Per giungere al settimo piano, dove si trova il reparto di geriatria dell'ospedale, ci sono da salire 154 scalini... che io salgo ogni volta che vengo in questo luogo di tribolazione. Evito semplicemente di prendere l'ascensore cercando ogni volta di convincermi che non può farmi che bene questo relativo sforzo fisico (ma c'è chi dice che in realtà temo l'ascensore). Salendo con calma mi chiedo per quale ragione - e non dubito che vi sia - i vecchi siano stati collocati al settimo e ultimo piano, e penso istintivamente che forse è perché sono quelli più prossimi al cielo. Giungo su col fiato corto, è vero, ma sodisfatto della mia performance (non sono giovane neppure io), e mi avvio frettolosamente per il lungo corridoio la cui fine coincide con la piccola camera dove in un letto tecnologicamente all'altezza, è disteso il mio vecchio e malato genitore. Ho da assisterlo nella improvvisa - ma non imprevista, considerati i suoi quasi 93 anni - malattia che lo ha colpito. Cerco di darmi coraggio per assolvere al meglio a quel compito, perché coraggio non ne ho molto. Nulla so di assistenza a malati o infermi, pochissimo ho frequentato reparti ospedalieri o simili, così ho consultato un piccolo manuale per saper almeno svolgere le mansioni più semplici. Ma non ne ho eccessivo bisogno, il mio compito infatti è più quello di osservatore che altro: guardo questo anziano uomo che fatica a respirare e cerco di accudirlo nelle piccole ma indispensabili necessità che la malattia comporta. Non mi era mai capitato prima di rimboccare lenzuola, né aiutare qualcuno soltanto a bere un po' d'acqua da un bicchiere. Siedo per ore accanto al suo letto (soprattutto di notte) e lo guardo e guardo anche gli altri pazienti lì vicino. Sono tutti vecchi, nell'ultimo del tempo loro. Nelle penombre delle notti sento il loro respiro affannoso e rauco. Ripenso allora alla telefonata da casa (dei miei genitori) che mi riferiva dell'improvviso malore di mio padre e di un'ambulanza che già correva verso l'ospedale. Da tempo attendevo quella telefonata. Sussultavo nervoso quando nel display del mio telefonino appariva la parola "casa" e mi chiedevo: "Cosa è accaduto?" aspettandomi una notizia simile a quella che mi era infine giunta. E adesso sono qui accanto a lui, osservandolo mentre in una specie di dormiveglia agitato tende in avanti le braccia, e le mani cercano di afferrare nell'aria qualcosa che solo lui vede. Allora con delicatezza gli prendo le mani e piano lo induco a calmarsi riponendole sul suo petto. È da quando ero bambino che non stringevo le mani mio padre. Poi la prima luce del giorno filtra dalle finestre. Rischiara appena la camera e i letti metallici grigi, e gli armadietti beige, e i lenzuoli bianchi che somigliano e forse sono già dei sudari... e i volti dei vecchi, che ancora dormono, appaiono lividi e affilati e so che sono il nostro specchio.