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La vita placida
D'estate, il deserto di sabbia rossa circondava lo stabilimento. Una larga strada asfaltata, che partiva da Tripoli e correva verso l'interno del paese, distava poche centinaia di metri da esso. Ai lati di quella strada, qualche casa bianca e bassa, qualche fattoria con recinti per i cavalli, una sobria moschea bianca e il suo alto minareto, delle botteghe artigianali. Ogni dì a mezzogiorno mi incamminavo lestamente verso una di quelle botteghe per comprare del pane fresco. Lo trovavo dentro grandi ceste posate disordinatamente sulla sabbia appena fuori dalle botteghe. Accadeva che il pane non fosse ancora pronto: allora attendevo che direttamente dal forno, fosse gettato nelle ceste, da dove lo prendevo caldissimo e croccante. Tornando verso lo stabilimento ne sbocconcellavo un pezzo. Dei spaghetti al pomodoro con abbondante peperoncino, o qualche altro tipo di pasta allo stesso modo condita, era già in tavola quando rientravo con il pane. Cucinava quasi sempre il mio socio, diceva che ne sapeva più di me. Non avevo nulla da obiettare su ciò, così io facevo altri lavoretti domestici. Seguiva, in genere, una bistecca con patate. Poi il caffè. Si trattava del nostro pranzo, che consumavamo in fretta per poter riposare un'oretta prima di ritornare al lavoro. Mohamed mangiava sempre da solo nella angusta sua stanzetta, attigua alla cucina - poco più di una branda ci stava - che a me sembrava e chiamavo "tana": il tappetino della preghiere, appena, trovava posto a fianco della branda, i pochi oggetti posseduti, il corano e qualche capo di vestiario, giacevano in una borsa addossata al muro poco più in là. E noi si udiva, Mohamed, quando pregava, sommessamente certo, ma spesso, più spesso di quanto non prevedesse la norma islamica. Ci avevamo fatto l'abitudine a quello smagrito sudanese nero senza più di mezza gamba destra. Sì, il religiosissimo Mohamed era stato soldato. Aveva partecipato alla guerra dei sei giorni dalla parte del "Rais" egiziano Nasser: ne era venuto fuori senza quella mezza gamba. Gliene avevano regalato una di legno però, e, in quanto reduce, anche un posto di "pesatore" allo stabilimento. E lì lo abbiamo conosciuto quando siamo arrivati. Quel giorno il moncherino gli faceva male e irato inveiva duramente contro gli ebrei, autori di quello scempio, e d'altri scempi ancora e di peggiori, secondo lui. Ma era simpatico, e pure lui ci aveva preso in simpatia. In quei primi giorni di permanenza nello stabilimento ci aveva insegnato come si dovesse vivere in quel posto, e noi, per ricambiargli la premura, e avendo a disposizione un'auto, ogni tanto lo portavamo a Tripoli dove aveva spesso misteriosi impegni. In fondo, nascosto dallo stabilimento e dalla grande mole dei silos arancioni, ai confini della proprietà, si trovavano gli alloggi degli operai. Un fabbricato in mattoni bianco e disadorno, costruito alla meglio, fatiscente ormai, anche se non vecchio. Poi c'era il deserto, e a seconda della luce, appariva rosso, o giallo scuro, o marrone, e si estendeva a perdita d'occhio, in una languida visiva monotonia, fino all'orizzonte. Null'altro si vedeva da quella parte, e mi veniva da pensare, fosse senza fine quella desolata sabbiosa distesa. Dall'altra parte, verso Tripoli, verso il mare, un po' alla volta si moltiplicavano gli alberi, prima radi, e formavano una rigogliosa cornice al paesaggio tipicamente africano, man mano che ci si avvicinava alla costa. A volte, la brezza proveniente dal mare, portava con sé, odori marini anche intensi. La vita sembrava scorrere placidamente in questi luoghi tanto belli. Oh certo, si lavorava, tutti i giorni salvo il venerdì, che era il giorno di Allah il compassionevole. E quel giorno era silenzioso particolarmente: gli impianti dello stabilimento erano spenti, e si poteva udire il fruscio dell'erba alta e dei cespugli (d'inverno) accarezzati dal vento. Così il venerdì, noi si andava a Tripoli. Ci si andava con una Peugeot 504 bianca, che Nasser* ci aveva assegnato, ci si andava allegri per il giorno di festa, e, come già detto, a volte con Mohamed, che giunti in città subito ci abbandonava, e noi parcheggiata l'auto si gironzolava nel centro storico, quello edificato dagli italiani fin dai primi anni del secolo scorso, e poi nella grandiosa piazza verde voluta dal colonello a rivaleggiare con quella rossa sovietica, e poi nel lungomare con le altissime palme che fiancheggiavano i viali paralleli al mare, e, anche d'inverno l'aria era tiepida e a volte salmastra, e altre volte profumata di aromi orientali proveniente da grandi alberi (non so di che specie fossero, ma sempre, in estate e inverno, emanavano un profumo molto intenso) e dalla città stessa, che appariva ben viva e spesso chiassosa, multietnica, levantina ma pure intaccata dall'occidentalismo, dove si potevano incontrare ragazze sbarazzine dal volto scoperto e castigate donne coperte interamente da una specie di burka, insomma una città che era qualcosa di più di una città africana. Si andava in un'edicola dove si potevano acquistare quotidiani italiani vecchi di giorni e qualche altra rivista. Era vicina a una chiesa trasformata in moschea e al consolato italiano. Poi si cercava qualche grande magazzino, sempre da quelle parti, per comprare generi alimentari, perlopiù provenienti dall'Italia, e altre cose per la casa. E sigarette - quanto si fumava a quei tempi - Malbhoro, ma non sempre si trovavano, o Wiston o Rotmans, o altre marche non italiane, e si compravano a stecche di 20 pacchetti, e ce ne andavamo sodisfatti con almeno 4 o 5 stecche. E quando cominciava a fare buio si tornava allo stabilimento - era a una ventina di km da Tripoli - cercando di fare presto, perché sapevamo che verso le 22. 00 gran parte delle strade più grandi erano presidiate da posti di blocco. Il sabato, che era come il lunedì in Occidente, si iniziava una nuova settimana di lavoro e il tempo passava monotonamente sotto un cielo sempre azzurro e un sole implacabilmente caldo (quando il sole splende, anche in inverno, è sempre caldo, mentre la notte può essere molto fredda). Il ritmo della vita in un paese mussulmano può essere giudicato lento in genere, si tratta di un tempo tutto islamico. È scandito per intero dalla religione, in ogni sua singola parte. Non esiste il laicismo, in nessuna forma, non è neppure immaginabile per i mussulmani, anche per quelli meno devoti o devoti per niente. Per questo si ha l'impressione che l'islamismo non sia solo propriamente una religione, o per meglio dire, sia certo una religione, ma vada ben oltre. L'islamismo è, allo stesso modo, religione e ideologia, e sembra predisposto innanzitutto per governare i popoli, e, la sua storia, soprattutto delle origini, sembra confermare questa sua predisposizione.
E le sere, specialmente d'estate, erano calde e lunghe. A volte, in quelle sere estive, prima che il sole declinasse al tramonto, salivo sulla sommità degli enormi silos arancioni che dominavano tutt'intorno quel paesaggio magnifico, e da lassù osservavo attento l'inesorabile svanire del sole, che, non di rado, lasciava il cielo incendiato di rosso, di giallo, poi di blu cupo e viola, fino al progressivo arrivo delle tenebre. E il lettore che mi ha seguito sin qui, spero segua anche la breve e strana storia che prosegue questa premessa, indispensabile comunque a farle da cornice. Fu, infatti, in una di quelle sere estive che da lassù vidi il serpente. Lungo, verde, di dimensioni superiori alla media (almeno per quei luoghi), strisciava lento e orribile sulla sabbia rossa e i radi cespugli, appena fuori dalla recinzione dello stabilimento. Sicuro, nel suo elemento, che sono la fine sabbia e le pietre sparse e le rocce corrose sotto le quali trova il suo rifugio. Lo vidi e lo osservai bene in quel tramonto che nette, già, proiettava le sue ombre lunghe. Subito dopo vidi 4 o 5 cenciosi ragazzi, di non più di 14 o 15 anni, abbrustoliti dal sole, forse figli dei pastori e pastori loro stessi, che lì intorno al mangimificio spesso si aggiravano e a volte pure pernottavano in provvisorie ampie tende, ed essi impugnavano dei bastoni di cui si servivano per radunare le greggi di pecore e capre, e chiacchierando forte, sparsi, avanzavano sulla strada. Anch'essi all'improvviso videro la bestia che strisciava sulla sabbia poco lontano da loro e subito si misero a gridare, non spaventati ma anzi eccitati, e strepitavano tanto, selvaggiamente percuotendo la sabbia con i bastoni, che spaventato era il rettile, che ora disperatamente cercava una via di fuga, un nascondiglio. Ma i ragazzi intendevano ucciderlo e stando a debita distanza lo circondavano urlando, e appena ne avevano l'occasione calavano violentemente su di lui i loro bastoni cercando di colpirlo alla testa. Provò il serpente a ribellarsi alzandosi minacciosamente ritto e mostrando gli aguzzi e ricurvi denti, ma i ragazzi con i bastoni fittamente ormai lo tempestavano di colpi. Fu sopraffatto infine e loro lo osservavano esultando con le braccia alzate, immobile sulla sabbia, la testa schiacciata. Con qualche altra bastonata ancora sulla testa infierirono - per essere ben sicuri fosse morto - prima di sollevarne il cadavere con un bastone per esibirlo come trofeo. Mi videro allora, lassù, in cima ai silos che lì osservavo mentre gli ultimi bagliori rossi del sole che tramontava incendiava il deserto circostante e rendeva già precaria la visibilità; ma loro mi salutavano con gesti e grida mostrandomi il serpente morto. Ancora sbalordito da quella rozza violenza e allo stesso tempo ammirato da tanta risolutezza e temerarietà risposi al saluto con un cenno della mano. E mentre li guardavo allontanarsi con il loro trofeo, il muezzin, dal minareto bianco della vicina moschea, intonò il richiamo alla preghiera:
Allahu Akbar (Iddio è sommo); Ash'hadu anla ilaha illallah (attesto che non v'è Iddio se non Iddio); Ash'hadu anla Muhammadan rasulullaaah (attesto che Muhammad è l'inviato di Dio); Havva 'alal falah (orsù alla salvezza); Allahu Akbar (Iddio è sommo); Laa ilaha illallah (non v'è Dio se non Iddio);
Per l'ennesima volta fui meravigliato dalla potenza suggestiva di quella chiamata alla preghiera. Quella nitida voce che modulava una specie di cantilena dalla cadenza spiegabile solo udendola, si espandeva, quasi liquidamente, tutt'intorno nel territorio ormai muto e tenebroso. La presenza del divino si rendeva percepibile: allora, e scendendo con calma dalla sommità dei silos, pensai che l'ineffabile tramonto, la scena del serpente, l'intervento del muezzin, rappresentassero perfettamente quella percezione.
Di solito dopo cenato, io e il mio socio, si faceva una partita a ramino, una sola, ogni sera. Poi, d'estate, si oziava all'esterno dei nostri alloggi, si ascoltava la radio, io camminavo allo scopo di fare un po' di movimento e restare in forma, e spesso, leggevo dei gialli, me ne ero portato da casa una bella scorta. E andavo, a volte, a far visita agli operai, nel brutto fabbricato loro assegnato, e chiacchieravo con loro in italiano e in arabo, che un po' avevo imparato - erano quasi tutti tunisini e marocchini, e conoscevano bene la nostra lingua, e in gran parte sognavano di espatriare in Occidente, e poi c'erano gli egiziani, pochi, e pochi anche i neri sudanesi, e questi però stavano in disparte da tutti gli altri, ed era più complicato comunicare con loro - e poi tornavo a passeggiare rasente al lungo capannone deposito di granaglie e di altre materie prime per fare il mangime, dove ancora qualche lampione funzionava dei molti che c'erano, rischiarando di luce gialla per qualche metro, sabbia ed erbacce incolte; o me ne stavo vicino agli uffici e ai nostri alloggi, a contemplare un cielo perennemente stellato e a fantasticare di quando sarei tornato in Italia; o mi attardavo a parlare di lavoro, sport e politica col mio socio, e le sere e le notti erano calde, lunghe e rilassate fino alla monotonia, e mi pareva di venir cullato, senza alcun timore, dall'ineluttabile scorrere della vita.
Così anche quella sera più o meno, ma a una cert'ora, e non era tardissimo, non vidi più il mio socio che solitamente se ne stava seduto su una panca vicino all'entrata della nostra cucina. E'già andato a letto pensai, e pure Mohamed non c'era, ma di lui sapevo che quella notte avrebbe dormito a Tripoli ospite di suoi amici e connazionali. "Beh, camminerò ancora un po' prima di andare a coricarmi anch'io" decisi. Così mi avviai verso il cancello d'entrata dello stabilimento. Sapevo che dei nuovi venuti sudanesi erano stati assunti e mentre scendevo dai silos, avevo visto mentre si preparavano alla preghiera proprio in quei paraggi. Il cancello era già stato chiuso per la notte e un po' discosto da esso bivaccavano tre neri sudanesi rischiarati da un focherello su cui bolliva del the su un pentolino. Mi avvicinai salutandoli: "As sa lamu ali kom (che la pace sia con voi). Loro si alzarono in piedi e con un rapido gesto toccandosi il petto la bocca e la fronte risposero: "W ali kom as salam (che la pace sia anche con te). Mi invitarono a sedere insieme a loro e mi offrirono il the. Sedetti sulla sabbia a gambe incrociate e assaggiai lentamente il the sapendo bene che era bollente, forte e buono. Apparivano eccitati dalla mia presenza (mi percepivano come uno dei loro capi) ed io mi sentivo a mio agio ed ero calmo e stavo benissimo in quella calda notte africana. Parlottavano brevemente fra loro in arabo e poi mi guardavano aspettandosi forse che dicessi qualcosa. Così, mischiando un po' di italiano - che loro ancora non capivano - qualche parola di arabo, e aiutandomi coi gesti, chiesi se, poco prima, avessero visto passare un gruppetto di ragazzi, pastori probabilmente. Quando capirono e dopo essersi un attimo guardati fra loro risposero di non aver visto nessuno. Raccontai che quei ragazzi avevano temerariamente ucciso con dei bastoni un serpente di dimensioni notevoli - impressionante a vedersi - a qualche decina di metri dal cancello. Mi fissarono seri senza capire. Allora disegnai sulla sabbia un serpente e con le mani lo imitai nell'azione di strisciare. Compresero e apparivano stupiti. Chiesero i dettagli e io cercai di accontentarli meglio che potevo. Allora mi sembrarono un po' colpiti e si guardavano l'un l'altro quasi a chiedersi se potesse corrispondere a realtà quanto avevo raccontato. Poi ridendo di un divertimento imbarazzato, mi fecero capire di credermi ma iniziarono a parlare d'altro. Intanto qualcuno portò della frutta e dei dolci e insieme mangiammo frutta e dolci, e insieme bevemmo ancora del the, e continuammo a parlare a lungo, di serpenti e di altre creature mostruose del deserto (gli scorpioni) che loro conoscevano assai meglio di me. Infine, insieme lodammo la grandezza e la misericordia di Allah, e le nostre voci parevano perdersi nel silenzio e nell'oscurità di quella notte che lentamente andava consumandosi.
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