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L'angelo della morte
La città di Genova, nel secolo scorso, in un giorno qualsiasi, pulsava di vita. Lunghe colonne di viandanti
si susseguivano nelle vie, in un lento viavai di scuri mantelli. Sul ciottolato riecheggiava il rumore dei
passi mischiato a stralci di discorsi, alle grida dei mercanti o a quelle dei marinai giù al molo, all'abbaiare
dei cani, al nitrire dei cavalli, ai colpi secchi delle mannaie dei macellai, alle risa nelle locande, ai lamenti
dei mendicanti, agli strepiti dei bordelli.
Le strade serpeggianti e il dedalo di vicoli si districavano tra la massa di edifici ammucchiati uno sopra
l'altro senza una logica, costruzioni di pietra, legno e terra che a malapena si potevano definire tali, lì nel
porto.
L'odore di marciume e di sudicio era aspro, pungeva le narici con crudeltà, ma era un'abitudine cui ben
presto tutti avevano dovuto farci il callo e a cui nessuno, ormai, faceva più caso. La gente continuava a
camminare, ignorando tutto quello che la circondava come se non esistesse neppure.
In mezzo a tutte quelle persone, camminava una ragazza. Passi lenti e incerti la guidavano tra cavalieri
robusti e puzzolenti di sudore, anziani esili come giunchi, nobili e mendicanti. Nessuno di questi si
soffermava a guardarla, nessuno pareva accorgersi della sua presenza, come se non esistesse, come
se non fosse lì. Nessuno la notava, nonostante fosse splendida, con i suoi occhi verdi e brillanti come
smeraldi, i lineamenti aggraziati del suo volto e i capelli biondo cenere che le ricadevano sulle spalle
come una cascata d'oro e argento.
Lei era triste. La città le infondeva una grande malinconia, quel luogo era solamente l'inconsistente
ombra di quello che era un tempo. Quella città era vuota, così come vuote erano le persone che
l'abitavano. La ragazza avvertiva che nessun ideale smuoveva la gente che le camminava a fianco, che
nessuna memoria del passato era ricordata con sufficiente forza da impedire il decadimento che stava
soffocando le loro menti. Ognuno pensava per sé, ogni uomo era un universo isolato e chiuso.
Il miagolio acuto di un gattino la distrasse, una vocina che si distinse stoicamente in tutto il chiasso che
c'era. Il lamento di quel micetto era pervaso da una tale forza, un tale impeto che la ragazza sentì
affiorare qualcosa dentro di sé. Quello era il grido di una creatura che ribadiva la sua volontà di vivere,
una piccola anima che inneggiava alla vita in quel mondo di gusci vuoti che erano gli uomini. Ed era un
grido che lei non avrebbe ignorato.
Si voltò verso sinistra, in direzione del miagolio. Seduto al bordo della via, appoggiato alla parete di un
edificio, un bambino alzò la testa verso di lei e le sorrise, incerto. Lei sentì una fitta allo stomaco,
vedendolo. Si mosse verso di lui, mossa da una pietà infinita. Il bambino la osservò mentre si avvicinava
facendosi strada tra le altre persone, tra tutti quelli che li stavano ignorando entrambi.
"Ciao" le disse.
Lei gli sorrise, incerta. Quel bambino non aveva più di sei anni, doveva essere uno dei tanti orfanelli che
mendicavano nel labirinto di strade polverose di quella città. La sorte con lui era stata assai crudele,
quello che avrebbe dovuto essere un viso delicato e spensierato era invece una maschera solcata da
sfregi e graffi. L'occhio destro era coperto da una benda sudicia e insanguinata, le labbra tagliate dal
freddo, la pelle screpolata, i capelli unti e sporchi. Il suo braccio destro era un fagotto di stracci avvolti
alla bell'e meglio in cui s'intravedevano sinistre macchie scure. Si era coperto con un trasandato
mantello di lana, che non sarebbe stato sufficiente a proteggerlo dal freddo invernale. Era magro e
debole. E solo.
Il bambino allungò la mano verso di lei, aprendola nel vuoto. "Per favore, dammi qualche monetina. Il
mio gattino ha fame, morirà se non potrò comprargli un po' di latte".
In quel momento, da un risvolto del mantello apparve un batuffolo nero con due grandi occhi azzurri che
la fissavano. Il gattino miagolò, mostrando la lingua rosea e i dentini bianchi.
La ragazza trasalì, portandosi una mano sulla bocca. Quel bambino, incurante delle sue condizioni
disperate, stava mendicando per il suo gattino, non per sé. Preferiva continuare a digiunare piuttosto che
veder soffrire il suo piccolo compagno.
Lei rimase a fissare quelle due povere anime, dimenticate dal resto del mondo ma che brillavano con più
forza di tutto il resto della città. D'istinto, si portò una mano alla spilla che teneva il suo mantello, posta
sopra il suo cuore.
Solo a quel punto il bambino sembrò accorgersi del monile che sfavillava ora nella sua mano. Il suo
unico occhio si spalancò: era stata riconosciuta.
"Sei davvero bella, i tuo occhi... chi sei?"
Lei continuò a sorridere, ma non rispose.
"Sei L'Angelo?" chiese lui, esitando.
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