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Un imprevisto increscioso
"Se sei triste quando sei da solo, probabilmente sei in cattiva compagnia." Jean-Paul Sartre
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Il lungomare a quell'ora era quasi deserto, la notte non aveva fretta, una leggera brezza lisciava gli scogli che sembravano gradire. Il mare affascinato da quelle carezze gongolava ad ogni alito di vento osservando la luna che un po' annoiata si divertiva a blandire con i suoi riflessi argentati onde quasi impercettibili.
Ottobre è il mese delle magie, l'estate ancora non si decide a lasciare il campo, ma quasi non se ne avverte la presenza, l'autunno ha più facce, questa è la più indolente, rimane in disparte. Ritmi rallentati, colori riservati, in ottobre la solitudine ha il sapore delle cose buone. In questi luoghi vendemmiaio e brumaio sono ancora più palpabili perché segnano il ritorno alla normalità, tutti sembrano voler smaltire le fatiche di una stagione lunga e impegnativa. Solamente il porticciolo continua con i suoi riti: le barche da pesca rientrate da poco si lasciano cullare dalla corrente, le cassette di pesce azzurro in bella mostra richiamano i passanti, le reti stese dopo una notte di lavoro si godono il meritato riposo.
Io non ho fatiche da smaltire, solo domande a cui rispondere. Non sono fuggito, mi sono allontanato per capire cosa cercare.
Un giorno aprendo la finestra si era accorto che il mondo, il suo mondo, non andava oltre quello sguardo, non importa se Milano, Londra o New York, oltre non riesci a vedere. Se guardi la città dal ventesimo piano non puoi non rimanerne affascinato, ti sembra di possederla, di poterla racchiudere in un abbraccio, un po' come le panoramiche a tutto schermo che precedono l'azione nei film, un effetto straordinario, luci scintillanti che svaniscono in pochi centesimi di secondo lasciando il posto a bagliori più discreti che permettono alle ombre di entrare in scena. Ed era proprio dal ventesimo piano che si era buttato, un imprevisto increscioso l'aveva definito uno dei soci. Un uomo di quarant'anni, un padre di famiglia si toglie la vita per aver perso il lavoro, vittima di una delle tante ristrutturazioni che avrebbe aumentato produttività e profitto. Un imprevisto...
Quanti imprevisti abbiamo provocato in tutti questi anni? Cosa c'è di diverso questa volta? Perché tutte queste domande? Perché questo peso insopportabile?
Non riusciva a togliersi dalla testa l'immagine della moglie abbracciata alla figlia, mentre il prete con voce poco convinta parla di misericordia divina, di vita eterna, invoca il perdono del Signore. Non conosceva quell'uomo, un ingegnere che lavorava lì da una decina d'anni, uno dei tanti, un ruolo quasi invisibile come la maggior parte dei dipendenti. Non conosceva praticamente nessuno, le sedi erano tante e lui aveva a che fare solamente con pochissimi dirigenti. Aveva indagato, la causa non sembrava essere economica, era una famiglia più che agiata, appartamento a Porta Ludovica, la figlia iscritta al San Raffaele, una scuola privata tra le migliori. Erano proprietari di alcuni immobili in città e la sua famiglia possedeva un'azienda agricola dalle parti di Magenta. Perché quel gesto estremo? Un momento di debolezza? L'umiliazione?
Un imprevisto increscioso.
Era sempre stato consapevole che la sua scelta non lasciava spazi all'emotività, non si era mai fatto problemi, né aveva mai sentito il bisogno di andare oltre quegli spazi che il lavoro gli concedeva. La libertà che adesso sentiva come un bisogno, l'aveva sempre considerata una perdita di tempo. La consapevolezza di avere sempre meno futuro l'obbligava a fare i conti con una realtà che aveva sempre evitato. La tragedia aveva acuito quel bisogno, una sensazione forte che sapeva di non poter più ignorare. Non era pentito, era stanco. Si era costruito una posizione invidiabile, la ricchezza non era mai stata il fine, era la conseguenza del suo successo, lui voleva vincere, voleva scrollarsi di dosso le sue incertezze, i timori che lo avevano sempre accompagnato. Più sali però e più il margine diventa angusto, ti è permesso quasi tutto, ma se non vuoi rispettare quelle regole, l'unica possibilità che ti resta è la fuga.
Senza certezze mi manca l'aria.
Era abituato a prendere decisioni, questa avrebbe sorpreso molti, anzi, quasi tutti sarebbero arrivati a dubitare della sua salute mentale. Immaginava la sorpresa, i commenti, riusciva perfino a vedere le espressioni dei suoi collaboratori. Il vetro gli restituì un sorriso soddisfatto. Preparò tutto con cura, disposizioni, ruoli, programmi. Non era la prima volta che si allontanava per lunghi periodi, non c'era nulla di diverso, se non i suoi pensieri. Si era fatto prenotare la solita stanza all'Egerton House e un aereo per Londra che avrebbe volato senza di lui. Non voleva sparire, sarebbe stato impossibile, ma solamente avere tempo per riflettere, e per farlo doveva allontanarsi, gli serviva un luogo neutro, dove i pensieri ti appartengono, dove riuscire a distinguere le domande dalle risposte.
Non voglio scoprire cosa mi riserva il futuro, voglio deciderlo.
Guidava da ore, osservava la campagna: frutteti ormai spogli, lunghe distese di terra pronte per la semina, più macinava chilometri più quelle immagini diventavano familiari. Si sentiva rilassato, curioso di scoprire fin dove si sarebbe spinto, ogni tanto gli veniva spontaneo controllare lo smartphone, l'indice dei mercati azionari, gli appuntamenti, il programma della giornata. Avrebbe potuto spegnerlo ma sarebbe stata una debolezza, doveva imparare a ignorarlo.
Un cartello che segnalava una località marittima sconosciuta era apparso nel momento stesso in cui si era reso conto di avere fame, abbandonò l'autostrada e seguì le indicazioni. L'idea di gustarsi qualche crostaceo guardando il mare gli procurava un entusiasmo esagerato, al limite dell'infantile. La locanda sembrava costruita per l'occasione, una sala ristorante con pochissimi tavoli, un ampio pergolato per l'estate, ora deserto, quattro stanze e due bungalow che si intravedevano appena, immersi nella folta vegetazione del boschetto adiacente. Non era più ripartito.
Lunghe passeggiate in pineta, la scoperta di luoghi intatti, un libro, la panchina sotto il salice. I primi giorni evitava perfino di comprare i giornali, nei suoi quasi sessant'anni non aveva mai camminato tanto, era consapevole di non poter continuare a vivere in quel modo ma non si preoccupava, aveva tutto il tempo e non voleva rinunciare a quelle sensazioni. Era abituato a gestire circostanze delicatissime ma lontano dalla sua nicchia, tutto diventava più problematico. Non aveva nemmeno disfatto i bagagli e reagì male accorgendosi di non avere più calzini puliti. Per un attimo gli sembrò di sentire la voce di sua madre che lo rimproverava. Sorrise.
"La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà". Forse De André ha ragione ma devo farne ancora di strada per esserne certo.
Molti sono convinti che per arrivare al successo servano qualità particolari, acume, intelligenza, cultura, in realtà la dote essenziale è la disponibilità: disponibilità al sacrificio, ad allontanarsi dai luoghi e dalle persone a cui tieni, disponibilità ad obbedire, almeno finché non saranno gli altri a doverlo fare. Disponibilità che spesso richiedono dosi di cinismo che non sapevi di possedere, ma vuoi farcela, lo vuoi al punto da arrivare a pensare che è l'unica cosa che conta. La posta in palio non è determinante, ciò che conta è imporsi. Vincere diventa un'ossessione. Col tempo fatichi a riconoscerti, ma sei troppo preso dalla competizione per fermarti a riflettere, capita che un pensiero ogni tanto sfugga al tuo controllo, ma lo ignori e continui a correre.
L'invito mi aveva quasi fatto uscire di testa, il figlio del notaio, il ragazzo più ammirato della scuola mi aveva invitato alla festa per il suo compleanno. Basta un pensiero per rivivere quelle emozioni, la felicità, l'ansia. I particolari si materializzano, il portone in ferro massiccio, il muretto nascosto da rampicanti verdi curatissimi, l'impatto con quella bellezza: alberi secolari, aiuole disposte in modo da esaltare gli spazi, il piccolo laghetto seminascosto dalla vegetazione. Non avevo mai visto tanti colori, tanto splendore. Mentre scorrono le immagini mi sembra di percepire quel profumo di buono, di cose belle. Mi osservo mentre cammino un po' intimorito cercando di orientarmi, procedo senza far rumore, sento delle voci, mi avvicino, sono in tre nascosti a fumare, non mi vedono, non mi sentono, stanno sghignazzando, riesco a cogliere solo qualche frase, una mi arriva nitida, feroce, terribile: "è figlio di poveracci arrivati qui da poco, mia madre ha insistito per invitare tutta la classe". Figlio di poveracci, non un poveraccio. Ho capito la differenza solamente molti anni dopo.
In realtà non era mai stato povero, suo padre era amministratore in una cooperativa, una vita agiata, tranquilla, ma le parole di quel tredicenne tracciavano un confine invalicabile, che lui aveva finito per accettare.
Sfracellarsi precipitando da settanta metri di altezza era stata la soluzione per non farsi divorare dalla vergogna, non aveva retto il peso del fallimento. Non c'entrava la condizione economica, la certezza di essere sempre stato corretto, l'unica cosa che contava era la sconfitta, una sconfitta che avrebbe letto negli occhi della moglie, della figlia, dei suoi amici, che avrebbe rivisto ogni volta si fosse guardato allo specchio.
Non poteva esserne sicuro, ma era convinto di aver compreso le ragioni di quel gestro estremo, la certezza gli veniva dall'aver ragionato così da sempre. Non avrebbe saputo spiegare ciò che provava, non aveva scoperto niente che già non sapesse, a cambiare era la prospettiva.
"C'è una classe che domina e un'altra che subisce, che tenta di reagire, che lotta, i pochi risultati servono a mantenere un equilibrio incomprensibile quanto ingiusto". La frase di suo padre gli era sempre sembrata ingenua, stavolta però il sorriso che accompagna quel ricordo è un po' meno convinto.
Stava rincorrendo questi pensieri quando lei si avvicinò al tavolo "Hai da accendere?" Alzò appena gli occhi per dirle che non fumava. Sembrò ignorare la risposta, lo fissò per un attimo e se ne andò aggiustandosi un ricciolo ribelle. Quarant'anni, forse meno, non molto alta, capelli neri, espressione accigliata, distratta, un po' impertinente. Un'espressione che non riusciva a nascondere la tristezza. Per un attimo fu tentato di richiamarla ma rinunciò, meglio evitare complicazioni. Il suo rapporto con le donne era sempre stato poca cosa, legami fugaci, conoscenze occasionali, qualche club esclusivo che offre atmosfere accattivanti, luci soffuse, liquori pregiati, massima discrezione e ovviamente la compagnia di donne eleganti e disponibili. La carta di credito, chiude serata e storia. Non era mancata nemmeno la classica relazione con la moglie di un suo collaboratore ma le complicazioni lo avevano consigliato di non ripetere l'esperienza.
Si alzò dirigendosi verso il bungalow, quando con la coda dell'occhio la rivide sul vialetto. Si infilò il giubbotto e prese la stessa direzione. Una camminata lenta, la paura di essere visto era forte; si ripeteva, mentendo spudoratamente a sé stesso, che non la stava pedinando. Ricordava di averla sentita discutere al cellulare in modo concitato, si muoveva nervosamente davanti all'ingresso del ristorante, i loro sguardi si erano incrociati, un istante quasi impercettibile, abbastanza però per farlo sentire in imbarazzo. Ormai non si meravigliava più delle sue reazioni irrazionali, sapeva che sarebbe stato difficile incastrare tutte le tesserine al posto giusto.
La donna si era fermata un paio d volte, qualche battuta con persone incrociate casualmente, si era fermata davanti a una panchina poco distante da un chiosco ancora aperto, sembrava indecisa, ma aveva continuato a camminare fino agli scogli, ne aveva scelto uno e si era seduta. Lo sguardo rivolto verso l'orizzonte dove mare e cielo si distinguevano a malapena.
Scelse uno scoglio a sua volta, non sapeva se si fosse accorta di essere seguita, a dir il vero non gli interessava, aveva abbandonato ogni cautela, era curioso di sapere cosa sarebbe successo, era una situazione assurda, ma non voleva o forse non poteva sottrarsi. Il tempo trascorreva lento, non c'erano segni di vita oltre al loro immobilismo. Difficile descrivere la bellezza di quella scena, avrebbe voluto indovinare i suoi pensieri, una donna che non avrebbe saputo descrivere se non sommariamente, una sconosciuta con cui non aveva avuto nessun rapporto, sembrava essere diventata un punto di equilibrio essenziale. Più il tempo passava e più cresceva la consapevolezza di non poterne fare a meno, non in quel momento, non quella notte. Era talmente preso dai suoi pensieri che non si accorse che si era alzata riprendendo la strada del ritorno, la guardava camminare ma allo stesso tempo la vedeva ancora seduta sullo scoglio. Non rispose subito al suo cenno, la fissava incapace di qualsiasi movimento, era difficile coglierne l'espressione, lei rimase ferma finché non la raggiunse. Camminarono vicini, ad ogni passo si sfioravano ma entrambi evitarono qualsiasi gesto. Non una parola. Entrando nel bungalow gli chiese di non accendere la luce. Dalla finestra entrava una bagliore impercettibile, i loro movimenti si potevano solamente intuire, qualche attimo di incertezza e si stese sul letto, lui la imitò. La donna si rannicchiò aderendo al suo corpo, entrambi vestiti. Respirava adagio, sembrava tesa, impaurita. I capelli emanavano un forte profumo di salsedine, le labbra non riuscivano a frenare un leggero tremolio, avrebbe voluto accarezzarla ma temeva di incrinare quell'equilibrio, si addormentò quasi subito, lui cercò di raccapezzarsi, incapace di trovare risposte logiche. Era calmo, sentiva quel corpo aderire al suo, il corpo di un'estranea che lo faceva sentire al sicuro. Forse era questa la chiave di tutto, la tesserina mancante, sentirsi al sicuro.
Competere era il modo per controllare la paura? Era questo il pensiero che cancellavo prima ancora che potesse prendere forma?
Non voleva addormentarsi per timore di non trovarla al risveglio, a quel pensiero sentiva crescere l'angoscia, coglieva l'assurdità della circostanza, quel corpo era solo un riparo occasionale, ma non voleva ritrovarsi ancora una volta solo davanti a quella finestra.
Si svegliò che il sole era già alto, non si decideva ad aprire gli occhi, le sensazioni della notte erano intatte, ascoltò senza percepire alcun rumore, si accorse di essere ancora vestito, si alzò senza far rumore. Era seduta con i gomiti appoggiati al tavolo, stava sorseggiando un caffè, c'era qualcosa nel suo sguardo che gli sfuggiva, timidezza e sfrontatezza insieme, accompagnate da quella sofferenza che sembrava seguirla sempre. Si alzò mostrandogli un gattino spaurito che teneva sulle gambe, "Ti dà fastidio se lo teniamo qui finché non trovo una sistemazione?". Lui sorrise facendo un lieve cenno di assenso.
Era arrivato il momento di decidere, camminò fino al parcheggio dove aveva lasciato la Maserati, non l'aveva più usata dal suo arrivo, mise in moto, il rombo del motore non riuscì a coprire il rumore dei suoi pensieri. Non aveva trovato risposte, col passare dei giorni aveva smesso di farsi domande, si era lasciato coinvolgere dalla pigrizia di quei luoghi, dai ritmi di quelle persone, che vivono una realtà che lui aveva dimenticato. Parcheggiò nello spiazzo proprio mentre la donna e il gattino stavano uscendo, rimase sorpresa, quasi paralizzata, parlottarono qualche minuto, poi lei sparì per ricomparire pochi minuti dopo con un borsone che sistemò nel bagagliaio. Durante il viaggio avrebbe pensato a cosa fare, adesso non era più solo, aveva un gattino da crescere.
"Come ti chiami?" Chiese mentre armeggiava con la radio per cercare un po' di musica.
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