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Ossa spolpate
Le ruote del trolley divorano le piastrelle. Il rumore echeggia nel corridoio vuoto.
Mi brucia l'esofago. Soffoco un rutto che sa di wurstel stantio. Cinque anni di andirivieni non mi hanno insegnato a preferire cibi leggeri.
Un fischio mi risuona nel cranio. Il soffitto vibra: lo sferragliamento del treno sovrasta il rumore del trolley.
Torna il silenzio. La stazione di Zanori non è mai stata così tranquilla di sabato sera. Una volta ci hanno ammazzo uno, sparandogli in testa, o al petto. Mia madre è sempre molto vaga quando parla del suo lavoro.
L'ugola mi sfiora la lingua: deglutisco. Normale avere un po' di nausea dopo dieci ore di viaggio, domani mattina starò bene.
Il telefono vibra dentro la tasca dei pantaloni. Lo prendo con la mano libera: sullo schermo c'è un messaggio di mio padre. "Sto per partire." Anche se prendesse la via che passa davanti alla scuola, ci vorranno almeno dieci minuti prima che arrivi.
Imbocco la rampa. In alto la bocca del sotterraneo si spalanca sul cielo nero.
Salgo e tiro il bagaglio sul gradino lercio.
Il vento ulula attraverso l'apertura. L'aria mi raffredda il naso, le guance, il palato. La gola si stappa. Che sollievo!
Emergo dal sottopassaggio. Tiro sul marciapiede la scatola con le rotelle e sospiro, rilasciando una nuvoletta di vapore. Per fortuna ho messo i pantaloni e la giacca di pile prima di scendere.
In fondo alla piazza buia, le finestre gialle di una palazzina illuminano i contorni del marciapiede, della fontana e della statua della Vecchia Sdentata con il naso di ferro che esce adunco dalla silhouette scura.
Mi si increspa la pelle della nuca. Spenti i lampioni, potevano almeno rimuovere questa befana: al buio mette i brividi.
Il telefono vibra. Infilo la mano nella tasca calda. Deve essere mio padre.
Sullo schermo c'è un messaggio di SpizzichidiBontà: La ringraziamo di aver lavorato con noi e le auguriamo un buon viaggio. Quanta premura! Se mi aveste pagato gli straordinari, avrei continuato a lavarvi i piatti e a prendermi gli insulti dai clienti per le schifezze del vostro cuoco.
Scorro il pollice sullo schermo, rivelando il messaggio della Mondadori: "le faremo sapere". Sicuramente. Non avrei dovuto perdere tutto quel tempo a scrivere il CV e a condirlo per bene. Neanche lo avranno letto.
Lo schermo del telefono brilla così tanto da farmi pizzicare gli occhi. Il buio inghiotte il corpo ingobbito della Vecchia Sdentata. Qualcuno del palazzo qui di fronte deve aver spento la luce.
Dietro la finestra al secondo piano si stagliano una testa e un paio di spalle. C'è un'altra ombra nella finestra accanto e un'altra in quella vicina e un'altra ancora più in là. Ci sono ombre di persone dietro tutte le finestre del secondo piano. Devono aver sentito il fischio del treno e si saranno affacciati per controllare che nessuno sia stato freddato o accoltellato.
Un alito di carne bruciata mi chiude la faringe. Puah! Qualcuno deve aver dimenticato l'arrosto nel forno.
Mi vibra il pugno. Sullo schermo brilla un WhatsApp della PadronadiCasa. "Bene, Luca, la caparra dovrebbe coprire le bollette che arriveranno d'ora in poi. Se così non fosse, ti scrivo." Con la fortuna che ho, tra un paio di settimane mi ritroverò a pagare qualche centinaio di gas e corrente.
Un cigolio echeggia nel piazzale. Al secondo piano della palazzina, una testa sporge tra le imposte spalancate. Le altre teste mi guardano attraverso i vetri.
Meglio spostarsi dietro la fontana.
Tiro il trolley e cammino intorno al monumento finché il piattone di marmo al centro della vasca non nasconde tutte le finestre del secondo piano.
Rimbomba un colpo, e un altro e un altro. Mi sporgo: i battenti del terzo piano sono spalancati. Due paia di mani ciondolano su ciascun davanzale.
Il cuore mi tamburella sulle costole. Dietro la statua della Vecchia Sdentata sarò più riparato.
Corro dietro la gonna di ferro della donna. La luce delle finestre ne illumina il volto grinzoso e il ghigno perfido. Un dente appuntito esce dalla parte destra del labbro inferiore; un altro pende come una stalattite dalla parte sinistra del labbro superiore. Papà, sbrigati!
"Dietro alla statua!" grida la voce di un uomo anziano.
Mi allontano dalle falde della vecchia. In fondo, da una finestra del primo piano un uomo calvo mi indica.
Un clacson mi fa fischiare i timpani. Due fanali percorrono la piazza come due occhi gialli arrabbiati. Sul muso dell'auto risplende il marchio della Ford Fiesta. Mio padre è arrivato, finalmente.
Esco dal mio nascondiglio e tiro il trolley fino alla parte posteriore della macchina. Le finestre della palazzina splendono gialle e vuote. Dove sono le ombre?
Il finestrino del guidatore si abbassa cigolando. "Brr, sbrigati, Lu!"
Spalanco il portello del vano e carico il bagaglio. Raggiungo la parte anteriore della Ford ed entro nell'abitacolo. La ventola frulla all'interno delle bocche sul cruscotto, sparando aria calda sul palmo di mio padre. "Tutto bene, Lu?"
Ansimo. "C'erano dei tipi che mi fissavano?"
Aggrotta la fronte. "Chi?"
Indico il palazzo con le finestre luminose.
"Ah, sì! Lo fanno sempre quando sentono un treno che passa." Abbassa il freno a mano. "Succedono cose brutte qui."
Lo credo, ma stasera non c'era nessuno. Bah! Si saranno abituati a spiare la gente.
Il motore ruggisce e l'auto esce dalla piazza della Vecchia Sdentata. Oltre il finestrino, la palazzina rimpicciolisce fino a scomparire dietro una curva.
Ho un groppo in gola, tossisco. Devo guardare avanti.
Mio padre sghignazza. "Cerca di non vomitare, Lu." Poggia la mano sul cambio. "Ho pulito l'abitacolo stamattina."
Annuso. L'odore di vaniglia è così forte da farmi venire un altro conato. Premo il pulsante sullo sportello per abbassare il finestrino.
"No!" Mio padre mi afferra la spalla.
"Prendo solo un po' d'aria."
Il fioco bagliore arancione del quadro fa sprofondare nell'oscurità due terzi del faccione di mio padre. "Fa troppo freddo." Preme un pulsante sul suo sportello e blocca il finestrino.
"Da quando sei diventato freddoloso?" Lo scorso inverno si rifiutava di accendere i riscaldamenti a dicembre inoltrato e costringeva la mamma a indossare guanti e zuccotto di lana.
Scoppia in una risata di gola. "Beh, il nome di questo posto la dice lunga."
"Il nome?"
"Zanoli non significa denti che battono?" Sterza.
La forza centrifuga mi spinge verso il lato guidatore: allontano il braccio dal viso e mi aggrappo alla maniglia sopra la portiera. L'odore di vaniglia mi divora i dotti nasali e la trachea. "Cof! Significa bocca sdentata."
"Sei tu il linguista laureato." Raddrizza il volante.
Porto la manica sotto il naso per smorzare l'odore. Funziona. "Secondo il mito, nell'antichità, i vecchi di questo posto si bruciavano i denti per scaldarsi."
Mormora con le labbra serrate. "In effetti, anche bocca sdentata calza a pennello." Il tono è serio.
"In che senso?"
Indica l'insegna spenta dello Young, a bordo strada, che torreggia sulle vetrine scure che rispecchiano il cartello blu del parcheggio e il sottostante simbolo dei motorini. Dove sono i sedicenni che assediavano il parcheggio con i cinquantini?
Mio padre sospira. "Ha chiuso dopo che sei tornato l'ultima volta." Fa stridere i freni. "Se volevi un po' di movida, dovevi restare dov'eri."
Non gli fa piacere che io sia tornato? "Non trovavo lavoro e l'affitto costa."
Rivolge uno sguardo serio davanti a sé.
La strada sfocia in una rotonda. Prenderemo la terza uscita: dovrò aggrapparmi di nuovo allo sportello e respirare quella roba nauseabonda.
Ma mio padre piega il volante verso destra per schivare il muretto in mezzo all'asfalto, tira dritto verso la seconda uscita e supera il cartello "Nucleo Industriale". "Non accorciavamo passando davanti alla scuola?"
Il motore romba, sovrastando il ronzio della ventola dell'aria. La punta del naso di mio padre guarda il parabrezza. "Potevi trovarti un posto in qualche museo."
Non mi sta ignorando: si sta preoccupando del mio futuro.
"Oppure fare il concorso in Polizia." Ridacchia. "Avrei avuto due guardie in casa."
E io avrei buttato cinque anni di università.
"O qualche casa editrice." Abbassa una leva per attivare l'indicatore di direzione. "Cercano sempre dei traduttori."
"Ho mandato una email alla Mondadori."
Ferma la Ford davanti a uno Stop. "Fantastico!" Ruota la testa da un lato all'altro. "Che ti hanno detto?"
Troppo entusiasmo: non avrei dovuto dirglielo. "Se non hai una raccomandazione non vai da nessuna parte."
Accelera e superiamo il cartello rosso. "Come sei diventato pessimista, Lu." Tira su col naso. "Tutto quello che serve è cominciare."
La fa troppo facile. Eppure lui è la dimostrazione vivente della veridicità della mia teoria: con la terza media, senza brevetti, ha lavorato in tutte le fabbriche del nucleo industriale. Ha cominciato come meccanico, poi è passato a riparare bici usate, ha perso qualche unghia facendo il falegname ed è tornato in officina l'anno scorso, stavolta a saldare pezzi di ferro. Tutto questo perché conosce le persone giuste.
"E se te ne resti qui, non comincerai mai."
Quest'estate non vedeva l'ora che tornassi. Che gli prende? "Darò ripetizioni di inglese."
Grugnisce. "A chi?"
"Appenderò qualche annuncio a scuola."
Sbuffa. "Non c'è più."
"Cosa?!"
Mio padre scuote il capo. "Ha chiuso per carenza di iscritti."
E non dovrei essere pessimista, eh? Dicevano che la laurea mi avrebbe aperto così tante porte che l'unica difficoltà che avrei incontrato sarebbe stata scegliere quale di queste varcare; invece, mi sembra di trovare solo porte chiuse.
"Dovevi restare dov'eri."
Non ho idea di dove dovrei stare. Spero che qualunque cosa abbia gli passi subito, altrimenti renderà questo periodo della mia vita più difficile di quanto lo sia già.
I fanali illuminano una salita costeggiata da tronchi e rami sporgenti. Strano: tutti gli anni in questo periodo mio padre disbosca mezza collina, accatasta la legna nell'intercapedine e la brucia quando decide che è arrivato il momento di riscaldare casa. "Quest'anno hai freddo, eppure non hai ancora cominciato la potatura."
"Come?" Stringe il volante con i pugni. "Oh sì, abbiamo tutta la legna che ci serve."
I rovi graffiano i fianchi dell'auto.
"Hai deciso di comprarla, stavolta."
Stacca una mano dallo sterzo per massaggiarsi il collo. "Ehm... sì, diciamo di sì."
La Ford si inclina da farmi premere la nuca contro il poggiatesta, e supera una curva.
Un enorme lanterna sopra al portone allontana il buio dalla facciata della casa. La fessura dell'intercapedine risucchia l'oscurità.
Mio padre tira il freno a mano.
Apro lo sportello. Finalmente posso respirare aria fresca.
Scendo e inspiro. Un odore di carne bruciata mi fa tossire. Questa puzza mi perseguita.
Infilo il naso nell'incavo del gomito, raggiungo il posteriore della Ford e tiro fuori la valigia.
L'auto si muove. Mio padre corre verso la porta. "Freddo! Brr!" Che importanza ha, quando gli abitanti di Zanori hanno dimenticato come si cucina un semplice arrosto? Puah!
Entro. La stufa a legna lungo la parete sbuffa. "L'hai accesa a inizio ottobre?" Ho caldo, tiro giù la chiusura della giacca.
Mio padre si frega le grosse mani. Scrolla le spalle.
Mi arriva una zaffata di fesa di tacchino affumicata. "Non la senti questa puzza?"
Scuote il capo.
"Beh io si, è insopportabile." Lo supero e mi dirigo verso le scale che portano al soggiorno.
"Aspetta, Luca, è meglio che lei non ti veda."
Perché mia madre non dovrebbe vedermi? Vuole farle una sorpresa forse, ma non riesco a resistere qui sotto con questo tanfo.
Salgo l'ultimo gradino e appoggio il trolley sul pianerottolo. Sbuffo. Che fatica.
"Luca, non..." la voce di mio padre echeggia nella tromba delle scale.
Apro la porta sul soggiorno. Un profumo di panni lavati mi invade i polmoni.
Mia madre stringe intorno ai fianchi i lembi di una pelliccia bionda. "Ah, i capelli nordeuropei sono i più eleganti."
Una donna con una crocchia antracite sul capo annuisce e si arrotola un metro da sarta intorno a due dita sottili.
Mia madre mi sorride. "Ah, tesoro, bentornato." Si avvicina e mi abbraccia facendomi affondare il naso tra i peli del soprabito. Profumano di Shampoo fruttato.
Si allontana.
"È proprio come me l'hai descritto, Carla." Gli occhietti grinzosi della sarta mi studiano i piedi, le gambe, il tronco, il viso. "Dì un po', che pensi di fare adesso che hai finito l'università?" Sorride stendendo le labbra solo da un lato.
Perché mi guarda come se fossi una bistecca? "Ehm... sto ancora cercando la mia strada."
La megera ghigna come la statua della Vecchia Sdentata. "Bene!" Ammicca a mia madre. "I giovincelli incerti sul futuro hanno le ossa migliori." Sfila le dita dal nastro arrotolato che infila sotto i lembi di un maglione nero.
Chi è questa tizia inquietante che gioisce delle mie disgrazie?
La porta dietro di me si chiude con uno scatto. "Lei è ancora qui" tuona mio padre.
La strega accarezza la pelliccia di mia madre. "C'era bisogno di qualche rammendo in più."
Mia madre annuisce. "E deve ancora prendere le misure per il tuo soprabito, caro."
Da quando gli è venuta la passione per le pellicce? Mio padre le ha sempre considerate una cosa da donne o da comunisti bolscevichi e mia madre una spesa inutile finché c'erano i maglioni, i guanti e gli zuccotti di lana.
Mio padre grugnisce. "Lu, va a sistemare le tue cose." Mi tocca la spalla con la mano arrossata.
Mia madre grida. "Oh, guarda! Ti sono venuti i geloni."
La vecchia mi fissa con i suoi occhietti neri, come le ombre dietro le finestre della palazzina in stazione.
Un brivido mi attraversa il petto.
Mio padre mi dà una pacca. "Va a sistemare le tue cose."
Qualunque cosa pur di allontanarmi dalla vostra ospite.
Afferro il manico e trascino il trolley verso la porta dall'altra parte della stanza. Da quando i miei sono diventati così sensibili al freddo? Dev'essere qualche malattia. Spero che non diventino molesti quanto la rammendatrice di pellicce.
Il telefono vibra: lo prendo dalla tasca dei pantaloni. È una email della Mondadori: "Gentilissimo, le chiediamo di inviarci la traduzione di un romanzo non ancora pubblicato in lingua italiana. Il suo lavoro sarà valutato da una commissione di esperti..."
Dovrei tradurre un romanzo? Quale romanzo anglosassone non è ancora stato tradotto in italiano? Bah! Mi sembra una grossa perdita di tempo. Tanto senza una raccomandazione non vai da nessuna parte.
I giovincelli incerti sul futuro hanno le ossa migliori, l'ha detto come se volesse spolparmi i femori.
Schiaccio il pulsantino sul bordo e ripongo il telefono in tasca.
Entro in camera mia. C'è odore di chiuso: trattengo il respiro e spalanco le imposte. L'aria fredda mi rinfresca la pelle. Inspiro: sa di fettina di vitello carbonizzata. Tiro fuori la lingua. Basta con questa puzza terribile!
La voce grave di mio padre fa vibrare le pareti. "Non dovevi farla rimanere."
Mia madre borbotta qualcosa. "... bruciano meglio... ancora disoccupato."
Lui allarga le braccia. "Ma è nostro figlio!"
Lei si avvolge la pelliccia intorno alla vita e mi sorride. "Eccoti, vuoi mangiare qualcosa?"
Mi arriva una zaffata di cotolette incenerite. "Che cos'è questa puzza?"
Mia madre si copre le labbra con la mano. "Oh! Ho bruciato l'arrosto oggi."
La supero, tossisco e mi dirigo in cucina. Apro il forno: è vuoto e freddo. Non proviene da qui. Un momento... Il tanfo era molto forte quando sono entrato nella stanza della caldaia. Quando ho aperto la finestra della camera, l'odore veniva dall'esterno. "E li hai gettati nella stufa per appestare tutta Zanori."
Supero la sagoma impellicciata di mia madre, scendo le scale e apro la porta della stanza. Accostata alla parete di fronte, la stufa sbuffa. L'odore di carne bruciata è talmente forte da farmi lacrimare. Mi copro il naso con una mano. Con l'altra faccio cigolare lo sportello. Carboni ardenti brillano all'interno, la cenere si accumula lungo i bordi. Non c'è traccia di carcasse bruciacchiate.
La fiamma divora un grosso nodo scuro all'estremità di un tizzone, scivola lungo la parte centrale sottile e lambisce un nodo bianco avorio all'altra estremità. Che forma particolare ha questo legno, e che colori insoliti! Forse è la legna che odora così: ma sì ha senso, spiegherebbe perché questo tanfo si sente anche in centro. Dovrebbero essere accatastate nel tunnel.
Apro il portone ed esco. Una ventata di gelo mi morde le guance e il collo. Faccio scorrere la chiusura della giacca verso il mento, e mi avvicino alla bocca spalancata dell'intercapedine.
Con la torcia del telefono allontano le ombre dallo stretto corridoio. In fondo, una catasta di legna sfiora il soffitto.
Metto un piede all'interno. L'umidità mi inzuppa il viso.
I ceppi mandano bagliori bianchi. Quello lì in alto è giallo, come quello lì all'angolino in basso. Devono avere qualche fungo che emana un odore sgradevole quando viene bruciato.
In cima alla catasta ci sono quattro sfere bianche. Tronchi nodosi?
Punto la torcia contro gli oggetti misteriosi. La luce getta sul soffitto l'ombra di teschi dalle orbite vuote. Mi tremano le gambe. Ossa. I tronchi sono ossa, femori, tibie, omeri ammonticchiati lì dentro.
Rabbrividisco. I miei stanno bruciando ossa umane.
Mi volto e corro via.
Davanti all'uscita del tunnel, un enorme pipistrello spalanca le ali nere, e ride con la voce stridula della vecchia sarta.
La lanterna illumina una metà del suo volto grinzoso. L'occhio nero mi fissa. "Che cosa vuole da me?"
La megera sghignazza. "Non mi sono rimasti molti denti, sai." Si stringe uno scialle intorno al collo esile. "E ho molto freddo."
Nell'antichità i vecchi di questo posto si bruciavano i denti per scaldarsi.
Si avvicina facendo scricchiolare le gambe sottili. Per quanto raccapricciante sia, è pur sempre una vecchietta disarmata.
Il portone si apre. "È qui dietro?" È mia madre.
La tizia ruota il capo verso di lei. "Tuo marito?"
"Sistemato."
Che cosa ha fatto a mio padre?
"Bene, Carla, ora pensiamo a lui." Mi indica.
Che cosa vogliono farmi?
Ma i muscoli delle gambe sono così rigidi da rimanere piantati a terra.
La sagoma snella di mia madre compare accanto alla sarta. Allunga un braccio verso di me: ha una pistola.
Le devo dire di fermarsi, le devo chiedere di non farlo. "M-m-mamma."
Un boato, il proiettile mi buca il cranio e intorno a me cala l'oscurità.
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