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L'uomo sulla botte
L’uomo sulla botte
Su di una paffuta botte, vi era appollaiato un vecchio saggio. Pareva che l’uomo la covasse, come un enorme uovo.
La botte era immensa, tanto che, l’uomo su di essa si vedeva a malapena.
“Un vecchio pazzo cocciuto” diceva la gente, ma i bimbi naresi ne erano affascinati.
I ragazzini accerchiavano la vecchia botte e, tirando la lunghissima barba bianca del saggio chiedevano delle storie, come in un jukebox che, a quei tempi, non era nemmeno nell’immaginario dei pazzi.
Il vecchio cocciuto era propriamente questo: un jukebox vivente e narrante.
Alla chiamata dei bimbi si affacciava da lassù e chiedeva con voce tuonante e con le mani ai fianchi “Che volete?” e i bambini rispondevano “Zziù, nu cunti un cuntu?”
ed egli rideva come credo Zeus abbia fatto quando incatenò Pròmeteo “.. e cosa mi darete in cambio?!” e presi da euforia i bimbi “U vinu!”.
Il vecchio pazzo ma saggio, lanciava una corda dove i frugoletti assetati di storie avrebbero attaccato la bottiglia di vino e dopo averne sorseggiato un po’, cominciava le sue odissee.
Il vino era il vero amore di tutti gli uomini, se fosse
venuto a mancare i naresi avrebbero persino rinunciato alla propria moglie per un bicchiere miserabile. Ma per fortuna il vino abbondava e le donne erano tutte ai loro posti.
L’uomo che stava sulla botte veniva chiamato “vutticedda” proprio perché la gente lo definiva il figlio della botte data la sua statura. Secondo qualcuno era realmente suo figlio, infatti non esisteva nessuno che avesse mai visto sua madre o suo padre: Vutticedda era spuntato dal nulla, senza nemmeno un nome.
Era stata quella botte a farlo arricchire: era stata la sua prima botte di vino che, morta sua moglie e cresciuti i suoi figli, era diventata la sua compagna porta fortuna.
I soldi arrivavano a palate, ma Vutticedda non beveva mai dalla “sua” botte.
All’inizio era solo un atto di scaramanzia, ma adesso era divenuto un vero e proprio morbo, e appena i suoi nipoti vi si avvicinavano scimmiottando lui diceva “ Adasciu a la vutti”.
Era un uomo con dei principi, con una saggezza quasi divina, ma era un uomo e come tutti gli uomini aveva anche dei difetti, il suo era uno solo: la sua botte.
Peppuccio era il nipote più giovane, il figlio di Nunzia. Quasi sedici anni e già lavorava in campagna con i fratelli. Suo nonno, il “Vutticedda” , lo adorava: era il suo clone perfetto con la stessa saggezza e astuzia.
Faceva esattamente quello che gli diceva il nonno “Ama il vigneto come una donna e rispettalo come nonno!” e lo rispettava sì.
Che caparbio quel ragazzo! Dirigeva gli operai senza tener conto del parere dei fratelli.
In una cosa era diverso dal nonno: non amava la botte e una cosa che non desiderava proprio fare era chiamarla “nonna”.
“Qualsiasi cosa Peppù, ma non perdere l’orgoglio!” e metteva il broncio suo nonno. E Peppuccio si chiedeva il perché di tale frase. Perché considerava una stupida botte una persona?
Ma non si accorse mai di essere uguale a suo nonno, infatti la sua botte era il suo fucile. Lo adorava più di quanto adorasse sua madre.
“Peppù, chiama a Filippo che è pronto a tavola! E non portare quella porcheria di fucile!”
Gridò dalla vetta della botte Vutticedda mentre guardava suo nipote che tanto gli somigliava mentre correva via dai campi verso la casa.
Ma Peppuccio era sempre l’ultimo a lasciare il lavoro: era questo che piaceva di lui al nonno. Amava lavorare, ma era pur sempre un ragazzino con le sue stupide manie di cacciatore.
“Butta il fucile e dimenticalo per sempre. Le armi hanno sempre portato sofferenza.
Non sparare una pallottola a una lepre, ma porta un fiore ad una donna!” Vutticedda glielo aveva ribadito mille volte, ma il giovane non capiva proprio perché era come lui. Mille volte gli avevano detto “Scendi dalla botte stupido!” e lui era rimasto là senza neanche arrabbiarsi ma ribadendo “La botte mi ha dato persino un nome: se scendessi non sarei più Vutticedda!” e rimaneva ancora là con la sua barba incolta che si sbiadiva con il tempo.
“Maledette armi! Come fa un uomo a uccidere un proprio simile?!” si chiedeva spesso Vutticedda. Nascondeva qualcosa sul suo passato: molta gente diceva che i suoi genitori erano morti, travolti in una lite nel loro paese di origine.
C’era la sua botte a tenergli compagnia durante questi ragionamenti: lei c’era sempre stata fin dall’ arrivo della sua fortuna.
“ La pace è come il vino caldo: lo accetti volentieri ma in fondo, senza accorgertene, lo disprezzi.” era vero. Tutti noi vorremmo la pace, ma con essa non riusciremmo a vivere. Perché? Siamo uomini. Ma Vutticedda per molti era quasi un Dio.
Nessuno si accorse però, che era più vicino ad un Dio greco che a uno cristiano.
Un giorno sulla stradina vicino i terreni di Vutticedda, camminava un uomo con una pipa in bocca e con un ombrello nella mano sinistra.
I suoi movimenti erano armoniosi: tirava una boccata dalla pipa e mandava avanti l’ombrello come un bastone.
Dalla cima della botte, Vutticedda, lo aveva riconosciuto “Buongiorno Barone!”
“Buongiorno a lei!”
L’uomo lo invidiava moltissimo “Se potessi essere come lui: saggio e pacifico…” pensava guardando Vutticedda “… quell’uomo ha ancora degli ideali da difendere. Forse è l’unica persona al mondo che ne ha. Chi sono io? Che cosa devo difendere ancora?”.
E il barone continuava a camminare.
Forse anche l’ altra gente che passava di là faceva lo stesso ragionamento. Forse.
Quando Peppuccio ebbe compiuto diciannove anni, il vigneto cadde in malora.
Non era colpa sua, certo. Era l’acqua che era venuta a mancare.
Adesso somigliava tantissimo al nonno, avendo coltivato la propria barba oltre che la propria terra.
Si disperava, ma non faceva mai trasparire le sue emozioni “Peppù, ricordati dell’orgoglio” avrebbe tradito gli insegnamenti del nonno.
Si dava da fare ancora, con quel poco di orto buono che era rimasto: era sempre lui Peppuccio, con il suo fucile in spalla e la sua voglia di continuare a vivere.
“Se c’è una cosa che l’uomo non può fermare, questi è il tempo. Il tempo è inarrestabile proprio come sua sorella vita!” diceva Vutticedda consolando il nipote.
L’acqua sarebbe arrivata prima o poi. L’unica cosa da fare era aspettare. Aspettare con calma e andare avanti.
“Il miracolo della natura arriverà di nuovo. E tu credi nei miracoli, vero Peppù!?”
E Peppuccio annuiva.
Ora più di prima gli voleva bene.
Nessuno si stancava mai di lodare la sua saggezza che pian piano entrava nel cuore di suo nipote.
“Io il miracolo della natura lo vedo in te, Peppuccio. Sei mio nipote!”
Vutticedda non era cambiato per niente, aveva solamente un paio di centimetri in più di barba. Era sempre l’uomo sulla sua cara botte.
Chissà se amava di più la botte o il contenuto?
Un bimbo era seduto per terra. Un carro trainato da cavalli imbizzarriti.
Due frasi per descrivere una possibile tragedia.
Il bambino era ignaro di tutto, all’oscuro della sua imminente sorte.
Peppuccio passava di là e aveva visto sia il carro che si avvicinava, sia il frugoletto.
“Piccolo, spostati!” provò a gridare “Stai attento!” ma il rumore del carro che si avvicinava era diventato assordante. Corse come mai in vita sua verso il bimbo, e proprio all’ultimo momento lo salvò da morte certa.
Peppuccio si diede dei colpi sui pantaloni per cacciar via un po’ di polvere “Stai attento la prossima volta! Lo dirò a tuo padre!” lo rimproverò tirandogli le orecchie.
Il bimbo piangeva. Prima di permettere a qualche emozione di uscire, se ne andò come se nulla fosse successo. L’aveva salvato, questo importava.
“L’acqua non arriva!” diceva camminando Peppuccio “Non arrivano mai i miracoli!” e mentre lo diceva cadde a terra inciampando in un sasso.
Il fucile sparò un colpo. Il proiettile viaggiò verso la botte del nonno che, con uno scoppio assordante, si bucò lasciando fuoriuscire una cascata di vino.
Ed ecco che accadde il miracolo.
Il vino uscito fuori serpeggiò fino al vigneto, come per irrigarlo e, come per incanto, tutto il terreno che bagnava diventava subito fertile, caricando le vigne di un’ uva dai grappoli enormi.
Peppuccio corse a vedere mentre tutto davanti a sé diventava magicamente verde.
Alberi di ogni tipo davano i propri frutti all’arrivo del vino, e il vigneto poi era tornato così bello.
“Così era questo che tenevi nella tua botte, eh nonno?” disse sorridendo.
Ma al suo arrivo il sorriso non fu ricambiato da Vutticedda.
“La mia botte! Mia madre!” piangeva Vutticedda “ Maledetto! Chi è stato!”
Pareva che fosse diventato ceco. Guardava solo il vino fluire e non la terra che dava i suoi frutti come in una favola.
“Chi è stato?! Che si faccia avanti!” ringhiò. Chi lo avrebbe guardato negli occhi in quel momento, non avrebbe distinto le sue pupille. Gli occhi erano tutti neri, come in un cane rabbioso.
Peppuccio vide per la prima volta suo nonno ai piedi della botte e non sopra.
“Guarda nonno, il miracolo!” disse felice Peppuccio, ma il nonno non parve riconoscerlo “Chi sei?! Maledetto sei stato tu a uccidere la mia botte!”
“Nonno sono io, Peppuccio!” disse il giovane portandosi le mani al petto.
“Non conosco nessun Peppuccio e non sono tuo nonno!” e quest’ uomo che di certo non era Vutticedda, o per lo meno non più, afferro il diciannovenne per il collo e lo buttò a terra.
Peppuccio morì battendo violentemente la testa in un sasso, guardando negli occhi quell’uomo che molto tempo prima aveva avuto una folta barba, che ora si accorciava sempre più.
Il vecchio estraneo non mollava la presa dal collo del ragazzo, anche se ormai non respirava più.
Il sangue che uscì dal cranio del povero ragazzo sostituì il vino andato nel terreno, facendo seccare tutte le meraviglie che erano cresciute.
Quel terreno è tuttora inutilizzabile.
Quel mostro che era nato dal vecchio Vutticedda, aveva perso sia il nipote che la botte.
Era impazzito: adesso piangeva per la botte, ora per il nipote ucciso.
Un pezzo del suo vecchio io, prevalse un attimo e disse “La pace non è come il vino caldo, lo è invece la vendetta: ti ubriaca ma non ti sazia mai.”
S’infilò il fucile tra i denti e premette il grilletto.
Dove era il suo orgoglio adesso?
Dove era la sua saggezza adesso?
E dove era finito il suo amore fraterno?
Molto tempo dopo il Barone passò nuovamente da quella stradina e si soffermò a guardare la terra incolta e quel che era rimasto della botte.
“Non voglio più essere come te. Io sarò migliore!”
Un contadino in groppa al suo mulo che passava di lì aveva udito quelle parole “Tutti accussì dicinu!” e un ghigno demoniaco arrivò al barone.
In quella terra si erano incontrati il bene ed il male, e quest’ultimo aveva vinto.
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0 recensioni:
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- davvero coinvolgente e ben scritto!
- Splendido... l'ho letto tutto d'un "sorso"!!! Molto scorrevole e ben scritto. Sembrava di sentire davvero una vecchia leggenda di paese! complimenti. Un sorriso. Sophie
- S. M. M. M.! Echi di realismo magico in una novella dal sapore siculo/sud-americano... Certo si sentono influenze di Verega ma noto anche voci di Sepulveda, Vargas Llosa, Gabriel García Márquez...
Stile maturo ed estremamente immaginifico!
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