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Naro e San Calogero
Su di un soleggiato colle, s’innalza Naro, città barocca dalle origini turche.
È giugno e quindi periodo di San Calò. Penserete che sia una delle solite feste del patrono, ma credetemi, per la gente di Naro e circondario è molto di più.
La città si anima accogliendo migliaia di fedeli che, ogni anno, chiedono la “grazia” al santo nero.
Nelle stradine du “castieddu”, di “lazzarettu” e di “Sant’Austinu” la gente sta dalla mattina fino a notte inoltrata davanti la porta di casa propria, a veder passare i muli con i rispettivi padroni in groppa.
Per esempio, u Zzì Caliddu di Lazzarettu, si mette di vedetta la mattina alle cinque per salutare tutti i contadini che vanno a lavorare, per poi rientrare la sera alle otto per augurargli la buona cena.
Un viddanu che gli sta molto a cuore è u Zzì Paulu che è solito caricare di attrezzi il povero mulo, anzi mula perché, come dice lui “Chissa bestia è fimmina e picchissu mi rispetta”.
Ogni mattina appena canta il gallo du Zzì Caliddu, passa u Zzì Paulu il quale, da trenta anni, deve ascoltare ogni mattina la stessa canzone “Carricatu quantu sia, povera bestia cuomu carria!” dallo Zzì Caliddu.
“Sabbenedica Zzì Calì” finge un sorriso u Zzì Paulu in groppa alla mula.
“Benidiciemmu a vossia” risponde ridendo. Si dicono le stesse cose da trenta anni.
Come tanti u Zzì Calì trascorre così le giornate, a guardare il sole che sorge e a vederlo scomparire laggiù verso il mare.
La distesa di cemento, ufficialmente chiamata “Piazza Roma” ma intesa da tutti come “San Calò”, brulica di persone proprio davanti la chiesa del patrono.
Pinu fungia torta è alle prese con fedeli sudaticci e terribilmente vogliosi di una granita. Pino dice che ce n’è per tutti, ma la gente continua a litigare in fila per ricevere per prima i servigi divini di Pinu che li avrebbe rinfrescati con una granita.
Il miglior gelataio del paese è proprio lui: la gente in estate ritiene le sue granite un vero e proprio elisir contro il caldo. E hanno ragione.
Immaginiamo di essere uno stormo di uccelli e sorvoliamo Naro. Girandoci intorno si nota subito che il paese sorge da un solo lato della collina, dall’altro è possibile vedere con chiarezza la diga, circondata da vigneti dove decine di persone, compresi ragazzini, sono affaccendati a “spampinari”.
Saliamo fino au Castieddu. Riusciamo a vedere i figli di “Vapuredda” che raccolgono lo sterco dei muli e se lo tirano addosso: un gioco tutto narese.
Scendiamo verso Sant’Austinu per evitare di essere colpiti dallo sterco e vediamo finalmente un evento da mettere nella classifica del folklore: una lotta tra bambini di quartieri diversi.
I lazzarettani e i Santaustinari se le danno di santa ragione, tra pugni, calci e raffiche di sassi. Ma dura sempre poco, perché appena quelli du castieddu sentono odore di “sciarra” arrivano in massa e le danno a tutti.
Continuiamo a scendere: guardate laggiù verso Sant’ Erasmo, un bimbo con l’ultimo fumetto di Nembo Kid. Comunque ritorniamo a San Calò e dirigiamoci verso la strada che collega Naro e Camastra.
Delle vecchie devote salgono scalze verso Naro. È la tradizione: chiedi la grazia ma in cambio vai scalzo e senza parlare con chi è con te (impossibile) a San Calò, si dice “ci fa u viaggiu”.
Un gruppo di quattro donne sale da Camastra con abiti neri e con le scarpe in mano: non hanno nemmeno le calze! Eppure l’asfalto deve essere rovente.
Forse è vero che quando sei assorto nella chiacchiera dimentichi perfino il dolore.
Quelle donne sono le più pettegole in tutta la provincia, e dimenticano spesso di essere paesane e non cittadine. Credono di essere più in alto nella gerarchia sociale perché i loro figli sono al nord con tanti soldi in mano. Ma è vero?
Solo una delle quattro ha i figli tutti in Sicilia, donna Lina che si limita solamente ad ascoltare i pettegolezzi, ma tutti la ritengono come le altre tre.
Le tre settantenni sono donna Carmè, donna Mariù e donna Pippinedda.
E continuano a salire con la bocca piena di veleno.
“Mariù, to figliu ‘Ntoniu unni è?” dice donna Carmè con voce stridula.
“A Niuiorchi. Abìta vicinu lu ponti di brucculinu. Avi tanti sordi ca ni li piatta ci fannu nna mangiata e po li iettanu. Dici ca avi u bellu machinuni!” risponde con fierezza donna Mariù che e scatena molto stupore nel viso di Pippinedda.
“Ma figliu Geru mmidemma ce l’avi la machina a Milanu, è patruni di una putia grossa! E dintra nniddu avi la televisioni!” lo dice per non farsi superare da Mariù, non sa se suo figlio ha veramente la macchina!
Stanno uno pari.
Donna Lina ascolta con poco interesse.
“Pippì, to figliu Ciciu ancora cu i vigni cummatti?” donna Carmè attacca anche Pippinedda.
“No! Ma figliu si nni i a Gimmania ni la fabbrica! Di machini ci n’avi du, no una!” stende le due e continua “Poveru Ciciu miu! Mi ricuordu ca unn’avia mancu sei anni ca travagliava cu a bonarmuzza di so pà! Ma figliu la vitti veru la fami, comu la vittimu nuatri! Si lu merita di stari beni!”.
Le aveva stese.
Donna Lina continua a far silenzio ma donna Carmè non si dà per vinta e decide di guadagnare punti sottomettendola. Sa benissimo che i suoi figli sono pigri e vivono alla giornata, insomma “sunnu lagnusi!”.
“Linù, Luviciuzzu chi fa?” si riesce a vedere la lingua biforcuta che esce dalla sua bocca.
Lina non pare per niente intimidita.
“Ma figliu? Mio figlio il Siciliano fa!”
(S. M. M. Militello)
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