racconti » Racconti amore » NUMERI
NUMERI
Carizzi r’amuri (Agricantus)
1. IL PRIMO APPUNTAMENTO
La sera sudava umidità, tanto era caldo quell'agosto 1937.
Eppure la signorina Garoppi gelava, nonostante fosse avvolta in panni morbidi e caldi, lana ed ermellino sulle spalle (neanche fosse una principessa! In effetti il titolo di cui si fregiava, la nostra Edda Garoppi, era quello di duchessa Delbrique).
Stava rannicchiata accanto ad una vecchia stufa di ghisa, la signorina Garoppi, tremando di freddo e di paura: freddo perché sentiva freddo (banale ma coerente) e paura perché si rendeva conto che non era ammissibile avere i brividi con 36 gradi di temperatura nell'ambiente, l'estate più calda a memoria d'uomo, la stufa accesa e tutti quei vestiti addosso!
Cosa stava succedendo, alla signorina? Covava qualche malanno? Eppure non era ammalata, la tosse non le torturava i polmoni come aveva fatto per tutto l'inverno e neanche il più piccolo starnuto turbava l'immobilità della stanza, né provocato da raffreddamento tantomeno di natura allergica. Neanche poteva temere insidie d'altro genere, nella tranquillità della sua casa, ove si sentiva sicura e protetta dagli spessi muri; nulla poteva spaventarla nel luogo che la ospitava ormai da settantadue anni nella pace più assoluta. Cosa le stava succedendo, dunque?
Cercò allora di mettere a frutto quelle poche nozioni scientifiche che ancora le restavano nel cervello, provando a razionalizzare la situazione: temperatura regolare + assenza totale di patologie o timori più o meno fondati + sensazione fisica di gelo ingiustificabile = ... con uno sforzo d'intuizione che quasi le costò l'ispessimento istantaneo delle arterie, improvvisamente capì. Comprese in quel momento che un unico motivo poteva farla rabbrividire in pieno agosto: erano quelli i sintomi tipici dell'ansia da innamoramento senile. Infatti, quella sera era atteso a Casa Garoppi l'uomo che ella bramava, che le aveva sconvolto l'esistenza al punto di farle indossare, sotto i pesanti abiti che curiosamente la proteggevano dallo sferzante gelo interiore, lingerie di pizzo profumata al gelsomino. Attendeva l'uomo che le aveva ridato la gioia del turbamento dei sensi: il signor Gaminella!
Il signor Gaminella era quasi pronto. Era una sera speciale per lui, che non aveva quasi toccato cibo a cena, tanta era l'emozione, e voleva essere perfetto.
Davanti allo specchio ammirava la riga, dritta e sicura come un ufficiale a cavallo, che, partendo sei dita sopra l'orecchio, divideva in due parti la sua folta capigliatura corvina, tre quarti a destra e un quarto a sinistra, emulando la chioma del condottiero di Braunau che dava certezze in tempi di precarietà. Il signor Gaminella, in un eccesso di patriottismo, una volta aveva provato a modellare la sua pettinatura cercando di somigliare al Supremo Palafreniere di casa nostra (l'Italia non è uno stivale, è un cavallo domato...), ma aveva troppi capelli per riuscire nell'intento. Così aveva ripiegato sul suo eroe tedesco, facendo di necessità virtù. E quale virtù si annidava in quella zazzera scolpita dalla lozione d’acqua e zucchero perché non un solo capello fosse fuori posto! Terminata la cura dei capelli passò all'abito!
Dio, come scendeva bene la giacchetta di velluto sulle brache corte di tela leggera!
Aggiustò con cura i fiocchi dei calzettoni e lucidò per la quarta volta i sandali, nell'estasi maniacale che ormai l'aveva fatto suo.
Un'ultima controllata, signori. Sì, era tutto a posto! Ora poteva presentarsi senza alcun timore agli occhi dell'amata. Scese in cucina per salutare la madre:
«Mamma, io vado!»
«Ma cosa hai messo, Genuflesso, il vestito della festa? E se lo sporchi cosa metterai domenica?»
«Non preoccuparti, mammina: starò attento...»
La madre si tranquillizzò: il signor Gaminella era molto giudizioso, nonostante avesse solo dieci anni!
L'incontro fu splendido!
Due poli che si calamitavano! Attrazione intellettuale ed affinità epidermica!
Dopo quel primo appuntamento ne venne un altro, e poi altri ancora...
I due cominciarono a considerarsi vicendevolmente indispensabili, scoprendo con dolcezza di non potere più fare a meno del piacere di stare insieme.
Parlavano, parlavano, si confidavano, si confidavano, e si consolavano, e si consolavano... e il freddo, che ogni volta assaliva la signorina nell'attesa dell'amante, lasciava il posto ad un estatico tepore. Il signor Gaminella, da parte sua, era sempre più affascinato dai modi e dalle forme della sua donna. Non confidò mai nulla agli amici, temendo di rompere l'incanto.
Mammina invece sapeva, lui ne aveva parlato, ma faceva fatica a concentrarsi sulla faccenda.
Fintanto che il ragazzo studia, che si distragga come preferisce...
2. SIMILITUDINI
La signorina Garoppi, anziana romantica sovrappeso, cosa poteva avere in comune con il giovane, pragmatico ed efebico signor Gaminella?
A lei piaceva leggere Rabelais, a lui gli albi a fumetti; lei ascoltava Puccini al grammofono, lui qualsiasi cosa passasse alla radio a tre valvole di mammina. Non c'era la minima relazione in tutto ciò! Certo, Rabelais, per essere uomo di lettere del XVI secolo, era abbastanza visionario, spiritoso e licenzioso da poter essere considerato (con molta buona volontà) progenitore dei fumetti. Ma tra la Tosca osannata nei teatri e Cosa farai di me di Belleli (un ebreo... mammina assicurava che non sarebbe durato altri dodici mesi) trasmessa dall'EIAR... qual era il nesso?
La signorina Garoppi si portava addosso qualche chilo in più rispetto allo standard estetico dell'epoca. Era piacevolmente morbida e rotonda... forse un po' troppo rotonda, ma se fosse stata secca e ossuta avrebbe certamente dimostrato un’età più avanzata. Invece era prorompente nella sua sana abbondanza. E, in un certo senso, anche sensuale... come può essere sensuale un vaso arrotondato e un po' sbreccato se paragonato ad una brutta riproduzione di qualche statua votiva etrusca, di quelle filiformi e dalla figura eterea.
Di certo il signor Gaminella la trovava piacevole, anche se non avrebbe saputo spiegarsi quale strana forza lo attirasse verso l'anziana signorina.
«Cosa mai ci legherà? Affetto? É possibile che essere affezionati significhi invischiarsi in questa paraffina sentimentale?» si domandava il signor Gaminella. Provò allora a soddisfare la propria curiosità prendendo in esame i cinque sensi:
«Vista... udito... tatto... gusto... olfatto... Sì, il nostro odore è molto simile!». A differenza della signorina Garoppi, quando Gaminella razionalizzava andava ben oltre l’aritmetica...
Effettivamente entrambi avevano addosso una fragranza animale molto piacevole e assolutamente naturale, ché il signor Gaminella non usava effluvi, irritanti per la sua cute, e la pelle dell'amata conosceva al più qualche aroma dozzinale, quasi sempre di gelsomino. Non c'era bisogno di profumarsi quando il loro odore li rendeva così interessanti!
Avevano, i nostri, in comune anche il sapore. Qualche effusione furtiva l'avevano pure scambiata, anche se entrambi non ne decifravano con precisione la natura, e si erano accorti che il loro sapore naturale, identico, aveva un che di liquirizia, ma più dolce, molto piacevole e conturbante. Naturalmente l'alito della signorina presentava ogni tanto punte di rancido, mentre quello del signore era più fresco, in ragione dell'età e del consumo costante di foglie di menta.
Ma in sostanza è bene ribadire che i due sapori erano pressoché identici, al pari degli umori.
Poteva dunque bastare così poco perché i due sentissero un’attrazione così forte? Potevano stimoli e sensazioni così primordiali accomunare due esseri in realtà così distanti l'una dall'altro?
Sicuramente tutto ciò era bastato perché i due scordassero che un'avventura così impegnativa li avrebbe probabilmente schiantati, in primo luogo perché era, è, e sarà un legame considerato sconveniente agli occhi di tutti (un po' anche ai loro), e poi perché tanti e tali impegni tenevano normalmente occupate le loro menti che trovare il tempo per stare insieme sarebbe stato arduo. Il signor Gaminella doveva studiare, almeno sei ore al giorno, italiano, latino, matematica, storia, geografia, scienze naturali e pianoforte. Inoltre c'era la partita di volano, la domenica dopo la messa, con i compagni di scuola. E non poteva per questo trascurare gli amici. Infine c'era il catechismo...
Da parte sua la signorina Garoppi aveva l'onere di accudire circa settanta gatti ed era membro del circolo letterario cittadino (fondato dalla buon'anima di suo padre, Dio l'abbia in gloria... tutti i giovedì dalle 20. 30 in poi...). C'era poi la cerimonia del tè delle 17 (irrinunciabile!), per la quale si riunivano in casa sua una dozzina di coetanee.
Insomma... s'è capito! Non era stata la solitudine a far scattare la molla fatale dell'idillio.
A questo pensavano i due amanti, mentre, a modo loro, consumavano felici e turbati uno dei loro appuntamenti, sullo scomodo canapè nel salone della signorina, filosofeggiando sull'amore perfetto e valutando l'esibizione dell'ultimo soprano che aveva azzardato l'Un bel dì vedremo al Carlo Felice (ne parlavano tutti: si era presentata in scena avvolta nella bandiera del Sol Levante!).
I due amanti s’incontrarono, con una certa frequenza e sempre minore prudenza, per tutta l'estate. Ovviamente avevano buon gioco a fingersi nonna e nipote, quando venivano sorpresi da estranei. Quando il loro rapporto fu sulla bocca di tutti e decisero di fare a meno di vedersi in segreto, la loro storia divenne ancora più intensa e commovente. Così decisero di darsi del tu. Quei rendez-vous, sempre meno furtivi, erano i momenti più dolci e sinceri delle loro giornate.
Tra i due esisteva un’invidiabile parità.
La violenza era, per forza di cose, sconosciuta.
«Ti amerò per sempre, Edda...»
«Per sempre lascialo dire a me, mio adorato!»
3. UN FIGLIO
La signorina Garoppi, pur essendo stata oltraggiata dalla menopausa da oltre quindici anni, non conosceva senescenza nella libido. Certo, in quegli ultimi tre lustri aveva, con infinita tristezza, accettato che qualcosa in lei cambiasse irrimediabilmente: quella fastidiosa riduzione della peluria pelvica, che invece di incanutire come quella del capo semplicemente scompariva; il ciclo mestruale che, dopo averla fatta penare per tanti anni, non arrivava più (dopo tutto quel tempo una si affeziona, diamine!) e le ghiandole di tutto il corpo che secernevano liquido con estrema parsimonia. Tutti segni della vecchiaia, ahimè! Per qualche anno era stata assolutamente neutra dal punto di vista olfattivo, con le ascelle secche ed il sudore che diventava un ricordo perso nel tempo; poi, quasi miracolosamente, aveva riacquistato quel suo odore naturale che tanto affascinava il signor Gaminella, ben distinguendosi dalle sue coetanee, che potevano al più vantarsi di puzzare di cipria ammuffita.
Insieme all'odore la signorina aveva ritrovato anche quel soave stato dell'anima proprio degli innamorati, nella forma della forte passione che le scatenava il pensiero del signor Gaminella: una passione simile, era certa, non l'aveva mai conosciuta prima, pur avendo avuto altri amanti, in gioventù, sentimentalmente instabile com'era.
A 18 anni, nel 1881, conobbe Lodovico Mombello, di nobile stirpe e proprietario della terra che dalle colline scendeva fino al fiume. Lodovico era ben visto in casa Garoppi, ed i preparativi per il matrimonio già fervevano quando il mascalzone pensò bene di eclissarsi, seguendo le lusinghe di una nave destinata a sbarcare in America. Non essendo egli un eroe dotato di grande spirito d'avventura partì dopo avere venduto tutte le sue proprietà e depositato i genitori dalla sorella (ben accasata a Torino), carico di denaro come un nababbo. In America il Mombello fece fruttare bene il già ingente capitale procurandosi un'agiatezza che la sua ex-fidanzata non poteva certo immaginare. Le proprietà vendute dallo sciagurato giovanotto furono rilevate da un certo Manlio Pozzengo, nel 1886. Era costui un allevatore che aveva fatto fortuna commerciando disinvoltamente con prussiani ed austriaci, procurandosi un po' di rancore da parte dei concorrenti e una quantità spropositata di denaro dai clienti teutonici. La signorina non ci mise molto tempo a far innamorare di se il Pozzengo, forte com'era della purezza del suo sangue (l'allevatore bramava il blasone, che avrebbe santificato la sua inarrestabile ascesa sociale) e fortissima degli attributi fisici: a 23 anni la signorina Garoppi non era certo più una bimba, ma i suoi occhi azzurrissimi, la sua corporatura snella e due seni golosi avrebbero incantato chiunque. Ma la sventurata storia con il Mombello girava velenosa per il borgo, perciò il buon Pozzengo, che voleva sì una moglie nobile e bella ma la voleva anche vergine, si ritirò in buon ordine, pagando una penale alla famiglia Garoppi e sposandosi, in vecchiaia, con la signora Paola Avola-Mazza, vedova Boiron, che venne dalla capitale per conoscere il futuro consorte e presentarlo ai suoi due figli. Allora il Pozzengo aveva 57 anni e non faceva più storie (in compenso era una “potenza” economica).
Tornando alla nostra povera signorina Garoppi, ormai, con due quasi-matrimoni alle spalle, era impensabile per lei sposarsi, avendo oltretutto varcato l'età che la decenza considerava accettabile per maritarsi. Nel 1889 conobbe un tapino qualsiasi, tal Osvaldo Morsingo, stalliere. Bel tipo, giovane, robusto, infaticabile amante, molto passionale. Fu lui ad insegnare alla signorina che alcuni piaceri passano attraverso vie secondarie e bussano alla porta di servizio. Furono amanti per circa quattro anni, vedendosi nei fienili di casa Garoppi o possedendosi lungo il fiume, le cui anse riparavano gli sfrontati da sguardi indiscreti. Poi tutto scemò, agonizzando per qualche mese tra frequenti scenate in vernacolo e rari coiti stanchi, e i due presero a vedersi più raramente, finché le ruote di un carro senza controllo non stroncarono le smanie amorose del giovane. Il fatto suscitò una certa impressione: all’epoca gli incidenti mortali sulla strada non erano così frequenti. Si moriva del Brutto Male, di tisi, di parto, in guerra, a volte d’inedia; raramente di morte naturale o, appunto, a causa di un incidente stradale...
Passarono molti anni prima che la signorina potesse godere ancora delle gioie della carne, finché 1901 fece la conoscenza di Agonay Samim Kantuntzury, un suddito asiatico dello Zar che faceva il commesso viaggiatore, che ronzò attorno (e tra) le sottane della signorina per un paio di volte. Anche quel signore olivastro e educato, come già il giovane stalliere, fece fremere (ed appagò) i sensi della signorina senza che l'amore, inteso come batticuore piuttosto che come amplesso, facesse capolino nell'avventura. La signorina Garoppi credette allora di essere sentimentalmente diversa da tutti gli altri suoi conoscenti, e fu per lei una conferma la forte passione che la infiammò - siamo ora nel 1909, quarantasei anni d’età - per la bella Margherita Zenevreto, figlia adolescente dello scambista di una vicina stazione ferroviaria. Margherita, che la signorina chiamava leziosamente Daisy, era gentile e disponibile con la sua nuova amica, la benefattrice che le insegnava tante cose e le comperava scarpe e scialli. Edda Garoppi, che fraintese gentilezza e gratitudine, credette proprio di essersi innamorata! A questo punto la signorina doveva osare, doveva prendersi delle confidenze che confermassero le sue brame amorose. Portò con se una volta la ragazza a spasso in città, su richiesta di quest'ultima. Il cuore in tumulto, la signorina non osava sperare che i suoi sentimenti, ritenuti quantomeno stravaganti dai più, fossero condivisi dall'oggetto del suo amore. Infatti, ad un bel momento, si presentarono alle donne due tizi corpulenti: il primo poteva avere vent'anni e il secondo una cinquantina. La nostra disgraziata signorina seppe allora che si trattava del fidanzato segreto di Margherita e del di lui padre, vedovo, che avrebbe volentieri conosciuto l'amica della morosa del figlio. Per i successivi tre mesi non seppe più nulla di questi personaggi. In seguito qualcuno, maliziosamente, le fece sapere che i due giovani si erano sposati. Finì così il periodo di presunta omosessualità della nostra sventurata eroina. Che, come si è potuto costatare, non era certo indifferente al richiamo dei sensi, e nemmeno all'attrazione per la gioventù.
Poi, da quel triste 1909, non ebbe più altre relazioni, e con immensa fatica ne stette volontariamente lontana... fino all’estate 1937, fino al signor Gaminella.
I due stavano deliziosamente fondendo anima, corpo e intelletto in uno dei loro furtivi e intensi incontri, quando dalle labbra della signorina Garoppi sgorgarono spontanee le parole fatali: «Genuflesso, voglio un figlio». Utopia da vecchia zitella.
Gaminella restò interdetto, come è ovvio che sia. Non aveva la più pallida idea di come si facessero i figli - se escludiamo qualche leggenda che s’insinuava fra i banchi di scuola - e anche se lo avesse saputo non sarebbe ancora stato in grado di concepire un pargolo, e poi come avrebbe mai potuto accontentare una donna in menopausa da quindici anni? Queste sono naturalmente domande che si pone il cronista e che, al momento, non vennero in mente a Gaminella. Ma lui aveva la certezza che esaudire il desiderio dell'amata sarebbe stato il suo unico scopo per l'avvenire. Allora azzardò: «Cerchiamo sotto il cavolo... dai... oppure chiediamo a qualche cicogna». Questo era quanto era riuscito a strappare a mammina in fatto di procreazione. Ad informazioni così approssimative faceva da contraltare la sua assoluta decisione: «Dobbiamo avere un figlio, Edda». Era così teneramente innamorato!
La sua compagna, altrettanto dolcemente infatuata, sorrise e lo prese per mano, decisa a portare alla fine quel gioco magico, ben cosciente che di gioco si trattava.
Stava facendo sera, una sera di inizio autunno, e i due uscirono verso il campo dei cavoli dietro casa Garoppi, dove, per tutta la notte, e con diversi stati d'animo, attesero il lieto evento. Gaminella non aveva mai passato una notte lontano da mammina, ma non lo sfiorò neppure il pensiero che la sua assenza poteva atterrire l'intera famiglia. Fu una notte di dormiveglia e sussulti. Al sorgere del sole i due si addormentarono, risvegliandosi dopo una sola ora con le ossa fradice e l'irrefrenabile desiderio di tornare a casa. Sulla via del ritorno attraversarono una zona limacciosa del fiume dove nidificavano dei trampolieri. Cercarono affannosamente il loro bambino fra le cicogne, ma non era nemmeno lì. Gaminella cominciò a sospettare che cavoli e cicogne c'entrassero poco con i figli. I due amanti non si parlavano più, tanta era la delusione che occludeva loro la gola. Certo, la signorina sapeva che lì non avrebbero trovato nulla, ma era così bello sognare... «Eppure DOBBIAMO avere un figlio, tu ed io...» affermò deciso Gaminella, serrando i minuscoli pugni, giunto quasi sulla soglia di casa Garoppi. Fu allora che si accorsero del piccolo fagotto depositato sull'uscio. Il fardello conteneva un pupo e un biglietto che, con grafia incerta e grossolana, diceva “Abbiatene cura - che Dio vi benedica - siete la Provvidenza”, o qualcosa di simile. Senza passare in visita alla ruota degli esposti dell'abbazia di San Fortunato i due innamorati avevano ricevuto un figlio in adozione!
«Ci sono riuscito!» gridò Gaminella, saltellando davanti l'involto che sarebbe diventato il loro bambino.
«... già, ci siamo riusciti...» mormorò la signorina, che un po' ci credeva..
Il Cielo aveva beatificato la loro unione donando loro un figlio, quel maschietto denutrito di circa otto giorni. Decisero su due piedi che si sarebbe chiamato Ovidio Tito Livio, in onore alla romanità imposta dalla moda (e dal regime) dell'epoca. Poi la signorina, con un guizzo di realismo e memore di un viaggio a Napoli, pregò il signor Garoppi di aggiungere un nome al loro bambino (che perciò fu in seguito battezzato Ovidio Tito Livio Esposito Gaminella, ma tutto ciò venne in seguito... erano tempi d’incertezza, quelli... provvisoriamente Esposito era noto solo a loro due e, come vedremo, alla madre di Gaminella).
Genuflesso salutò la sua donna e tornò a casa con il trovatello. Lì rinvenne mammina in lacrime, con un bastone a portata di mano. Il legno stava per abbattersi sul volto estatico del piccolo quando quest'ultimo spiazzò il braccio vendicatore della madre urlando: «Ti ho fatto nonna!»... e rideva, l'incosciente. La madre stramazzò al suolo.
4. COMPLICAZIONI
Quando la signora Gaminella si riprese, il figlio saltellava ancora intorno alla cesta, in preda ad un'euforia che la madre faticava a riconoscere nel suo bambino. Sistemarono il neonato nella culla che fino a pochi anni prima aveva ospitato Genuflesso e lo nutrirono del latte di balia di Matilde, la figlia del casaro.
«Dai, mamma, teniamolo, tanto Amedeo è partito e la sua camera è vuota... è mio figlio!».
La madre, disperata, raccolse il viso tra le mani e sospirò: «Non è un cucciolo, Ge, e non è neanche tuo figlio... ma... e la madre?».
«La signorina Garoppi, la mia fidanzata!» esultò il piccolo Gaminella.
«La signorina Garoppi? Dio del cielo! È... è... è orribile, Genuflesso, è orribile!!!» ormai la donna singhiozzava: «Tutti uguali, voi Gaminella, sempre a cercare sottane più vecchie... già tuo padre, Dio non voglia che ora ci guardi, mi sposò che era più giovane di me di tre anni. Tuo fratello Amedeo, prima di partire, ha messo incinta la nostra povera Matilde, che ha quasi ventun'anni, due più di lui, e dovrà sposarsela al ritorno... e ora anche tu, bambino...» la poveretta rischiava di soffocare tra i singulti.
«Mamma, dobbiamo tenerlo, è mio figlio... dì a Matilde di preparare la camera di Amedeo!» Gaminella irradiava una luce vivida dal volto.
Fu impossibile contraddire un'affermazione così perentoria e contemporaneamente serena. La decisione era presa. Esposito venne sistemato nella camera di Amedeo e da quel momento fece parte a tutti gli effetti della famiglia Gaminella, conquistando poi il diritto a considerarsi unico effettivo inquilino della stanza in quanto il legittimo proprietario non fece più ritorno a casa per parecchi anni.
Amedeo Gaminella, 19 anni in quel 1937, fratello di Genuflesso, era partito per la Spagna con le brigate nere a sostegno di Francisco Franco (era un vero combattente lui, già distintosi l'anno prima in Abissinia). Era partito con tutta la classe del liceo G. B. Perasso di Genova, tutti con le camice nere tranne uno, tal Sauro Fabiano, che era andato, insieme al padre Fabiano Fabiano e tre zii, a combattere insieme agli anarchici, sempre in Spagna ma dall'altra parte della barricata. Nessuno di loro tornò a casa (eccetto Amedeo, ma, rocambolescamente, dopo molti anni e cantando Valsesia) risparmiandosi così Albania, Grecia e Russia gli uni e il confino, l'esilio e i lager gli altri, nonché parecchi mesi in montagna a fare i ribelli, e lì avrebbero combattuto tutti dalla stessa parte, se non si fossero scannati a vicenda a Guadalajara. Conobbero le note di Ay Carmela senza fare in tempo ad intonare Fischia il Vento.
Dunque Esposito aveva trovato la sua provvidenziale sistemazione.
Il giorno dopo, di mattina presto, Edda Garoppi si presentò da mamma Gaminella, assicurandola che avrebbe senz'altro provveduto al mantenimento economico del pupo, nella maniera più discreta e meno sconveniente possibile. Inoltre le sarebbe tanto piaciuto salutare Genuflesso... Naturalmente non le fu permesso di vedere il precoce ragazzino, che nel frattempo era stato relegato in camera sua con le gelosie sprangate. La nostra Edda fece allora mestamente ritorno a casa, tantopiù che, disse a mammina Gaminella, le doleva parecchio il capo ed accusava una certa nausea.
«Avrà preso freddo, stanotte, signorina Garoppi!» osservò ironica la ben più giovane signora Gaminella.
Effettivamente da qualche giorno, alla nostra sventurata Edda, doleva la schiena.
Sulla strada di casa venne assalita da un tremendo dolore al basso ventre che quasi la piegò in due!
Salì i gradini di casa di corsa, diretta in bagno. Quando si fu chiusa dentro e si fu spogliata rabbrividì alla vista di tutto quel sangue che le inzuppava il sottogonna. Tamponò quell'impossibile emorragia come da oltre quindici anni più non faceva e, lentamente, lo sbigottimento prese il posto dell'orrore primordiale che la visione di un mestruo incomprensibile le aveva provocato.
Fu invece repentino il passaggio dallo sbigottimento all'euforia. E fu un'euforia incontrollabile: non era possibile! Era tornata in possesso della sua antica femminilità! Corse a guardarsi allo specchio: le rughe regredivano, la cartapecora del volto si stirava, lasciando spazio al bel profilo-pesca della Edda d'antan, invidiata per anni in grazia del suo splendore. In testa si facevano largo alcuni robusti fili neri tra la massa dei capelli bianchi, con sempre maggior prepotenza, e tra le gengive un tempo vizze erompevano denti candidi (il tutto era molto doloroso, ma la Garoppi piangeva di gioia, sopportando quel male miracoloso). Si osservò le mani, rosee e prive di quelle picchiettature marroni che facevano tanto vecchia saggia. Questa sorta di gioiosa metamorfosi, che durò alcune ore, fece provare alla signorina Garoppi un brivido di piacevole terrore descritto perfettamente nelle prime parole ch'ella pronunciò, esausta, quando il tutto fece per calmarsi: «Quando mi vedrà Genuflesso!»
Come detto il signor Gaminella era stato confinato nella sua stanza, privato della luce e della radio di mammina, a tempo indeterminato, nutrito ad ore stabilite dalla Matilde attraverso la porta socchiusa, onde impedirgli di procurare ulteriori danni.
Misurava con i suoi passi la stanza, vestito solo di un enorme camicia da notte che già era stata di Amedeo, quando un rumore sordo ruppe il silenzio imperante nella camera, buia e ovattata. Era caduto qualcosa sul pavimento. Carponi il signor Gaminella tastò, cieco, in direzione della mattonella sulla quale doveva essere caduta la cosa, e fra le mani si trovò la borchia metallica che chiudeva in vita il camicione, saltata perché la cintura non riusciva più a contenere un fisico che stava crescendo velocemente. Gaminella fu colpito da una fortissima vertigine, tanto che dovette sdraiarsi a terra. Si dibatteva sul pavimento come fosse epilettico, mentre il vortice nella sua testa aumentava di intensità e un fuoco interiore gli ardeva il corpo, e dopo il fuoco un lieve prurito su tutta la pelle, e dopo il prurito un'onda calda gli scuoteva le gambe e l'addome. Tutto durò circa un'ora. Quando, ancora intontito, si alzò per dirigersi in bagno e nettarsi del sudore che l'aveva avvolto, notò, nella penombra, che il letto si era abbassato! Davanti al lavabo stentò a riconoscere come suo il volto malrasato che lo specchio gli rimandava. Il riflesso di un bel giovane, accidenti!
«Quando mi vedrà Edda!»
I due non si incontrarono per altri due giorni, durante i quali si ripeterono questi attacchi miracolosi che stabilizzarono le loro fattezze. Se per Edda Garoppi fu facile evitare di essere vista, in quei giorni, inventando malesseri sussurati attraverso la porta alle amiche in visita, più arduo fu per il signor Gaminella convincere Matilde a lasciargli i pasti sul tavolo senza entrare nel bagno, dove lui si nascondeva. Ma le stranezze di Gaminella non impressionavano certo più la donna che cresceva in grembo il figlio di Amedeo.
Al terzo giorno Gaminella decise che era giunto il momento di prendere il toro per le corna. Scese dalla sua stanza verso la cucina. La madre lo vide ed esclamò: «Amedeo!»
Una bella voce baritonale rispose: «Sono Genuflesso, mammina».
Per la seconda volta, in pochi giorni, la donna svenne.
Genuflesso si presentò a casa Garoppi che era circa mezzogiorno. Gli venne ad aprire una ragazza molto graziosa. Lui la riconobbe subito: «Edda...».
«Ti aspettavo, amore...».
Naturalmente non c’è da stupirsi del fatto che i due amanti avessero dato per scontato che la benedetta faccenda fosse accaduta ad entrambi, ed avessero atteso con bramosia il trascorrere di quei tre giorni: non poteva essere altrimenti!
Crollarono l'uno nelle braccia dell'altra, e poi l'uno sotto le coltri dell'altra, e poi l'uno, intimamente, nell'altra.
Pur non avendo fatto in tempo ad erudirsi circa l'arte amatoria, Gaminella, istintivamente, fu perfetto. Restarono praticamente avvinghiati per quasi quattro mesi.
Al quinto mese la signorina Garoppi scoprì di essere incinta.
«Partiamo, Genuflesso, facciamo nascere nostro figlio lontano da qui...»
«Si, Edda, saremo noi tre soli... mia madre ormai si sarà fatta una ragione della mia assenza, spero...»
«Ma, Genuflesso, ed Esposito?»
«Mia madre ha bisogno di un piccolo da accudire, hai dei soldi da lasciargli?»
«Ne ho per lui e per noi, e tanti!»
Non si seppe più nulla di quella stravagante coppia, ma si immagina siano vissuti, come si dice, felici e contenti...
12345678910
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- Trovai "Carizzi..." su una compilationdi Radio Popolare.
- Semplice e delicato.
Come sempre bravo... eppoi quella canzone..."Carizzi r'amuri" - confesso una delle mie preferite insieme a Istanbul Uyurken - che io chiamo volgarmente la "canzone dei tonni" perchè si sente il battere dei remi sull'acqua...
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0