No, non è che non voglia rivelare il suo vero nome, casomai un vero nome fosse plausibile, all’inizio della narrazione. È che non me la sento, almeno per il momento, di inventarne uno di sana pianta. Potrei scrivere che si chiamava Girolamo Ottipresti, oppure Galdino Furillo, o, che so, Teodoro Di Banco… Credo solo che sia meglio, al momento, chiamarlo semplicemente Pietro, tutto qui. Probabilmente ho l’esatta coscienza che ai fini di una storia come questa un nome valga esattamente un altro: non è rilevante. Quindi…
Pietro nacque, come tutti, molto giovane, proprio un bambino, direi, strettamente, neonato. Ebbe un’infanzia assolutamente nella media, con un curriculum scolastico non così brillante ma neanche da buttare, non in tutte le materie ma quasi. Certo, eccelleva in disegno ed era uno dei più bravi a scalare il quadro svedese. Per contro non capiva l’aritmetica ed in letteratura non è che si applicasse molto. Tutto il resto lo svolgeva con passabile mediocrità. Fu poi adolescente né alto né basso, snello ma non proprio magro, senza molte amicizie femminili come qualsiasi quattordicenne neo- baffuto che si rispetti. A tavola gradiva quasi tutto ma con moderazione, il che lo rendeva trasparente alle feste di compleanno dei compagni di scuola, dove andavano per la maggiore le ragazzine anoressiche e i fanciulli bulimici. Insomma viveva una vita assolutamente normale, Pietro. Fino a quel maledetto giorno di novembre. Pietro stava attraversando la strada immediatamente davanti alla scuola, quel giorno così umido, affiancando Bartolomeo Caliè, detto “il coniglio” a causa degli incisivi da roditore e della tremebonda sensibilità. Il passaggio pedonale era regolato da un semaforo, il cui colore verde dovrebbe assicurare una certa tranquillità ai traghettatori appiedati, perciò i due ragazzi continuarono bellamente la loro immersione nel resoconto dettagliatissimo delle nuove forme che erompevano dal petto delle loro compagne di scuola. Così Pietro, perso dietro immagini di misteriose morbidezze vagamente sferiche che tanto turbavano la sua sensibilità tattile, non prestò alcuna attenzione al paio di occhi che si sbarravano alla sua sinistra. Del resto gli occhi del “coniglio” si sbarravano almeno venti volte al giorno! Per questo si girò verso destra solo all’ultimo momento, giusto in tempo per vedere l’orrore di quella 128 gialla che non riusciva a frenare sull’asfalto bagnato. Rumore non ne sentì, e dire che ce ne doveva essere stato parecchio, tra le urla, lo stridio dei freni e il tonfo dell’impatto: paraurti di orrenda 128 gialla versus anca di ragazzo brufoloso. In un istante rallentatissimo riuscì però a percepire la testa del suo femore destro che lasciava per sempre l’acetabolo, sua sede naturale, esplodendo e frantumandosi in un numero infinito di schegge che Pietro avvertì scavargli le carni, come tarme impazzite. E poi più nulla.
Ecco come, in un solo istante, svanì la fatica di anni spesi a costruire una vita onorevolmente piatta