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L'amore della maestra.
Marta aveva ventisette anni.
Marta era la maestra del paese.
Marta morì nella primavera del quarantaquattro a causa di Franz.
Franz era tedesco.
Franz era un tenente della wertmarch.
Franz aveva fatto fucilare nella piazza del paese due partigiani e due civili.
Franz e Marta si erano innamorati tre mesi prima, perché Marta aveva gli occhi chiari e se ne fregava che Franz fosse il nemico, se ne fregava che fosse l’occupatore, il crucco, il nazi.
Marta era fatta così, aveva gli occhi chiari e se si innamorava, se ne fregava di un sacco di cose.
Anche su quel ponte quel giorno, non gliene fregava niente.
I partigiani le avevano tagliato i capelli in paese, così adesso non sapevano per dove trascinarla e la prendevano un po’ per il braccio un po’ per la collottola. Le urlavano e le toccavano le tette, senza volere, così per tenerla.
Il ponte non era più lungo di dodici passi.
Il letto del fiume era lontano, inghiottito dalla valle, tra due orribili pareti rocciose che lo nascondevano agli occhi e lo facevano sentire terribile alle orecchie, amplificandone la voce, trasformandola in un ruggito cupo.
La trascinarono verso la balaustra, quel paracarro troppo piccolo per quell’orrido così profondo.
E lei, che non gli importava più di niente, piangeva con quegli occhi chiari. Piangeva per via di Franz.
La balaustra era sempre più vicina ma lei se ne fregava, non la vedeva e piangeva per Franz.
Franz che era morto.
L’aveva visto, con il buco in mezzo alla fronte e gli occhi sbarrati.
Aveva visto il rivolo di sangue che dal buco sulla fronte gli correva verso il naso e poi passava proprio sopra l’occhio sbarrato, cadeva dalla guancia e si seccava nella polvere.
L’aveva visto da dietro i suoi occhi chiari e adesso non le importava più di niente. Aveva solo quel buco stampato in mente e quel rivolo che cadeva nella polvere…e Franz che ansimava, senza più fiato, sopra di lei… e il buco in mezzo alla fronte, e il sangue.
Non le importava più di niente. Dietro quegli occhi chiari…più niente.
La costrinsero col busto oltre la balaustra, lei abbandonata a peso morto, col corpo del partigiano che le premeva su un fianco, teso.
E la vita venne. Le scoppio dentro di colpo quando capì il fondo invisibile di quel baratro, quando sentì la voce imponente e cupa delle acque.
* * *
“I partigiani sono entrati in paese dalla parte della montagna, hanno sparato, e sparato. Non c’erano molti tedeschi quel giorno in paese: forse una decina. Nel parapiglia sono rimasti chiusi nelle strette vie, mentre i partigiani gli hanno bloccato la fuga sparando dalla parte dei prati e da quella della strada che va in giù, verso la valle: niente, son rimasti in trappola.
Insomma, va a finire che i partigiani cominciano a stringere il paese da ogni lato. Un ciottolo alla volta, un portone alla volta, finché i tedeschi arrivano in piazza, dentro a una corte, e i partigiani tutti attorno. In piazza c’erano ancora i fucilati: quelli che hanno fucilato i tedeschi sta mattina: i due partigiani, e Giovanni, e Pier, che ogni tanto gli portavan le sigarette o li avvisavano se si muoveva qualche cosa.
Sarà stato l’odor del sangue, la voglia di vendetta, non so.
Due tedeschi comunque, erano già morti prima di arrivare in piazza: uno con la faccia sui ciottoli, uno che sembrava addormentato: seduto, a gambe aperte, contro un angolo di una casa. Un partigiano gli ha frugato nella giacca e gli ha portato via il fucile, l’ho visto dalla finestra, poi sono uscito e gli son andato dietro verso la piazza.
Salta fuori una bandiera bianca. Poi i tedeschi escono fuori senza armi, guardinghi e impauriti. I partigiani fanno capolino dagli angoli della piazza con i fucili spianati.
Troppa rabbia.
Mettono i tedeschi al muro, proprio dietro i loro morti.
Quello che comanda i partigiani è giovane, non ha trent’anni. L’imbarazzo per formare il plotone non c’è.
Pa pa pam: I tedeschi cadono, noi pieni di paura, perchè sapevamo già che ci sarebbe stata rappresaglia. Mia moglie si è messa a piangere.
Di punto in bianco arriva Marta, trafelata, da un lato della piazza, vede il tenente per terra, comincia ad urlare e a piangere, e lo prende fra le braccia.
Una scena ti dico: ti faceva una compassione quella povera figlia.
Allora uno del paese, mi pare fosse Rino, che era il cugino di Pier, uno dei fucilati, va dai partigiani e gli spia che era l’amante del tenente, con disprezzo.
Non ce n’era bisogno, povera figlia.
Il partigiano sente amante e capisce spia, o forse no, troppa rabbia. Le tagliano i capelli, la prendono a ceffoni, li sulla piazza.
Troppa rabbia.
Se la son portata via. Chissà…?”
* * *
La vidi d’un tratto. La tenevano contro la balaustra e le stavano per prendere le gambe per rovesciarla oltre, giù in quel orrore di forra. Quella porta d’inferno.
Era stata la mia maestra sei anni prima. Era buona, profumava di buono.
Quando ti veniva vicino per correggerti i compiti e ti spiegava, solo a te, gli errori che avevi fatto, profumava di buono, di pulito, di prato.
Si era risvegliata in un botto: urlava, pregava e lottava. Una furia: tutta la vita che aveva dentro lottava con lei.
Erano in tre che la tenevano: tre maschi, grandi, grossi e furiosi, ma lei combatteva lo stesso, disperata. Gli uomini sbuffavano, per tenerla.
Quando la rovesciarono oltre il paracarro dava la schiena al baratro. Allargò le gambe in cerca dell’ultimo equilibrio con la faccia deformata dallo sforzo.
Allargò le gambe in maniera così smodata che la gonna si aprì: si vide tutto, il culo, e il resto.
Avevo visto il culo della maestra. La maestra che profumava di buono, quando ti correggeva i compiti.
Fu un lampo, poi comincio l’urlo. Lacerante. Credo che la gente impari ad urlare veramente solo se muore di morte violenta.
Non ho mai più sentito urlare così: sembrava che il terrore si fosse fatta vibrazione, suono. Una cosa da impazzire. Un urlo che deformò il tempo. La sentii urlare per ore mentre cadeva.
Vedevo le sue mutande storte, di lato, e quell’urlo, così, per ore. Poi l’urlo si perse, si mescolò con il ruggito della forra e ricomparvero gli altri suoni.
Avevo visto il culo della maestra che profumava di buono. Profumava di buono quando veniva vicino e ti correggeva i compiti. Le avevo visto il culo mentre la forra l’inghiottiva: lei, il suo culo, il suo profumo di prato, il suo amore sbagliato, i sui occhi chiari.
Mi accorsi, lì, su quella strada, che non ero più un bambino o un adolescente. Lì, quel giorno, su quella strada, diventai un uomo.
Un punto fermo, un attimo preciso, niente: “stai crescendo” o “guarda come sei diventato grande”. Uomo, d’ora i poi, d’ora in avanti, uomo. Non so quanti ricordano l’esatto istante in cui non si sentirono più bambini, giovanotti, o quel che volete, ma uomini. Beh, io me lo ricordo, fu quel momento lì. Non avrei mai più pensato allo stesso modo non avrei più visto le cose allo stesso modo. Quel giorno, quell’attimo, quel ponte, sono un confine netto, preciso nella mia vita.
Me ne accorsi subito, all’istante: fu come un’invadente malinconia, mentre mi avviavo con gli altri verso la montagna.
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