Nascosto, quasi sepolto dietro cumuli di piatti, bicchieri, avanzi, coltelli, cucchiai, forchette, non dovrebbe esserci tempo per riflettere, per pensare. Non c’è modo di essere più veloce di quanto i clienti riescano a sporcare, e nonostante dopo qualche ora i movimenti si siano fatti rapidi e precisi, le stoviglie continuano ad accumularsi, separandomi dal resto della cucina e del mondo. Allora continuo con movimenti studiati, quasi coreografici, poetici a loro modo: circolari per i piatti e le pentole, decisi e verticali per le posate, mentre per i bicchieri tengo ferma la spugna e faccio ruotare questi ultimi. La cosa più logica da fare in queste condizioni sarebbe quella di concentrarsi esclusivamente sulla manualità del lavoro, escludendo qualsiasi pensiero possa farmi prendere coscienza della situazione, ma non ci riesco. Osservo quanto lasciato dai clienti nei piatti, pezzi di braciole di pesce spada, un gamberone grigliato intero, mezzo piatto di linguine allo scoglio, molliche di pane; e nei bicchieri generose quantità di vino bianco da dodici euro a bottiglia. So già che mi farà male, ma non riesco a bloccare l’associazione di idee che mi si forma in mente troppo rapidamente per controllarla: da una lato tutta questa gente che viene nel locale, ordina cibi costosi anche senza avere fame, (se no perché tutti quegli avanzi nel piatto?), poi si alza, paga conti assurdi senza battere ciglio, e và, sentendo appieno il dovere di esserne appagati, in quei posti dove si deve andare per forza per essere “giusti”; e dall’altro un lavapiatti che riflette su tutto questo, ma in fondo capisce che tutto ciò serve solo a reprimere una sola cosa : il senso schiacciante, oppressivo, del fallimento. Quella presa di coscienza che ti colpisce in pieno all’improvviso mentre paragoni i brandelli di discussioni inutili e piene di errori grammaticali che capti dai tavoli e le paragoni alle tue letture di Croce, Nietzsche, Schopenhauer, le letture in cui, (anche lì), ti sei isolato dagli altri, illudendoti che questo fosse sufficiente per esentarti dalla lotta, dalle sofferenze del quotidiano sbattersi per imporsi sugli altri. Ed il pensiero che tutto ciò, pur non avendo un significato preciso per me, rende invece insopportabile la vita di chi mi sta vicino e come un borseggiatore crudele che torna metodicamente ogni giorno dalla stessa vittima, sottrae loro ogni giorno un pezzetto di rispetto nei miei confronti, è come un ariete mentale che ha aperto una breccia nel muro di basalto che mi protegge. Arriva un’altra pila di piatti, su di uno di questi c’è un’aragosta intera, intatta. Costa come tre giorni di paga e chi l’ha ordinata non si è curato nemmeno di assaggiarla. Dalla sala sento la voce del titolare che chiede se nell’aragosta c’era qualcosa che non andava, ma in realtà non gliene fotte niente, dato che il conto è stato regolarmente pagato e l’aragosta tra qualche minuto comparirà, compiaciuta della propria importanza di cibo status-symbol, sul tavolo di qualcun altro. Lascio il lavandino a sé stesso e sbircio dentro, la coppia che sta salutando è grottescamente normale: lei sui venticinque, tubino nero, trucco pesante e scollatura scientificamente studiata per promettere tutto senza parlare; lui sui quaranta, ben vestito, moderatamente sovrappeso ed indicibilmente volgare nei movimenti sprezzanti con cui crede di dominare la scena. Non dò retta allo strato superficiale della coscienza che mi avverte di non fare cazzate, torno in cucina, e dopo avere afferrato l’aragosta ordinata solo per dimostrare di poterla pagare esco reggendola in mano dall’uscita del personale. Lo raggiungo mentre punta il telecomando dell’antifurto dell’auto verso la portiera e prima che cominci a colpirlo con l’aragosta, comincio a ridere istericamente pensando a come deve essere comica la scena vista dalle vetrate del ristorante.