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Premonizioni
Premonizione: informazione paranormale concernente il verificarsi di eventi futuri.
La donna cadde sul pavimento, mentre la ragazza tentava invano di farla alzare in piedi strattonandola per un braccio; la testa rapata le ciondolava sul collo sottile, dando come la inquietante sensazione che si sarebbe staccata da un momento all’altro. Indossava solo un camice azzurro chiaro, aperto sul dietro, rivelando un corpo pallido e scarno.
“Avrò un’altra premonizione”diceva, come in preda al delirio”è lei, sta per arrivare”.
“No mamma, ti prego, alzati! Forza!” la ragazza piangeva e implorava, ma la donna non aveva alcuna intenzione di mettersi in piedi. Si trascinava sul pavimento sporco e scrostato, come se aderire ad esso fosse tutto ciò che le restasse al mondo.
Lisey si svegliò di soprassalto con il cuore che le batteva all’impazzata; guardò la sveglia digitale sul comodino e vide che era da poco passata la mezzanotte. Provava una strana sensazione di soffocamento, come se una mano le si stringesse lentamente intorno al collo. Quel sogno, le provocava un malessere intollerabile. Scott dormiva russando e non se la sentì di svegliarlo, nonostante la sensazione divenisse sempre più opprimente e fastidiosa. Non riusciva a spiegarsi il senso di ciò che aveva appena sognato: l’immagine di lei, completamente nuda, con solo una specie di vestaglia azzurra addosso, Anne che cercava di sollevarla da un pavimento lurido… e quel blaterare senza senso sulle premonizioni. Pensò che dare un’occhiata alle ragazze l’avrebbe fatta sentire meglio; scese dal letto, posando i piedi nudi sul freddo pavimento di marmo bianco. Cercò di non fare rumore per non svegliare il marito e si diresse verso la stanza della figlia maggiore. Anne era immersa in un sonno profondo, come ebbe modo di constatare, e aveva un’espressione serena e tranquilla dipinta sul volto, abbracciata al suo peluche preferito, nonostante avesse già 23 anni. Diceva sempre che la rilassava abbracciare qualcosa di morbido e soffice mentre dormiva, ma sua madre si chiedeva se non fosse per sopperire alla mancanza di qualcosa d’altro, magari un ragazzo che le desse sicurezza e che sapesse apprezzarla per quello che era. Lisey sapeva, attraverso l’infallibile intuito che solo le madri possiedono, come una specie di radar incorporato, che Anne aveva sofferto molto fino a quel momento per una serie di storie sbagliate e non capiva come sua figlia, una ragazza testarda e cocciuta oltre ogni dire, ma intelligente e di buon cuore, non riuscisse a trovare qualcuno che puntualmente non la deludesse. “È giovane”pensò “avrà tutto il tempo di fare le sue esperienze” e a quel pensiero le si strinse il cuore, perché un genitore non immagina mai volentieri il proprio figlio che “fa le sue esperienze”, anche se è un fatto della vita indispensabile e più che altro inevitabile. Pensò con sollievo che nel caso di Sarah aveva ancora qualche anno a disposizione, prima di dover affrontare l’argomento… anche se la piccola, molto sveglia e vivace aveva già incominciato ad accennare ad alcune domande imbarazzanti, quelle che normalmente una madre si augura sempre di sentire il più tardi possibile. Specialmente quando si tratta di domande di tipo sentimentale e sessuale. Ricordò quando, qualche giorno prima, facendo merenda al tavolo della cucina, Sarah le aveva raccontato tra un biscotto e l’altro, come se stesse parlando dell’ultimo modello di Barbie appena uscito, che Alex, la sua migliore amica, l’aveva diffidata dal lasciarsi baciare da un ragazzo; aveva sentito dire dalle amiche di sua sorella maggiore, che è proprio attraverso quella roba bianca che le ragazze restano incinte. “Io al massimo mi farò toccare un po’ di sopra, ma non permetterò mai ad un ragazzo di baciarmi!” aveva esclamato Alex e quando Sarah glielo aveva riferito, con la bocca ancora sporca di cioccolato, Lisey per poco non era scoppiata a ridere, rischiando di offendere la sua piccola, che le aveva fatto una confidenza tanto intima e delicata. Probabilmente Alex aveva frainteso i discorsi di quelle ragazze, che sicuramente si riferivano a un altro liquido biancastro… grazie a Dio era ancora presto per pensarci.
Ridacchiando ancora fra sé, stava per dirigersi verso la sua stanza, quando incominciò a girarle la testa e dovette appoggiarsi al muro per una violenta sensazione di vertigine. Cercò di controllarsi inspirando profondamente e si guardò intorno: la casa era immersa nel silenzio. Poi la prese una terribile fitta allo sterno, come se una serie di spilli la stessero bucando tutti in uno stesso punto e per un attimo smise di respirare. Da sotto la porta della camera di sua figlia proveniva un tenue bagliore; era una luce bianca, come quella che di solito si vede negli ospedali; ma non c’erano neon in camera di Sarah. Poi la luce divenne sempre più forte, pulsando e aumentando di intensità, finché le divenne insopportabile guardarla. Lanciò un grido, coprendosi con una mano gli occhi e si accasciò sul pavimento.
Scott la trovò lì il mattino dopo; si era svegliato verso le sei meno un quarto e non trovandola a letto aveva pensato che fosse già scesa in cucina; uscendo dalla camera da letto matrimoniale l’aveva trovata priva di sensi sul pavimento. Angosciato, l’aveva aiutata a rialzarsi e le aveva chiesto cosa fosse successo: “Niente, ho avuto solo un giramento di testa al momento sbagliato, mi sono coricata un attimo per terra e mi sono addormentata” insisteva Lisey. Non gli parlò della luce. Scott era in ritardo per il lavoro e c’era da preparare la colazione. Gliene avrebbe accennato più tardi.
All’ora di cena ancora non ne aveva parlato a nessuno, le normali faccende giornaliere l’avevano presa come in un vortice e non aveva potuto ( o magari neanche voluto ) discuterne. Sarah stava bene e al ritorno da scuola cinguettava spensieratamente come qualsiasi altra bimba di otto anni, gioiosa e vivace. Mentre stava preparando la cena, la bambina le raccontò come un fiume in piena, le varie avventure della mattinata e ovviamente, le immancabili peripezie di Alex. Aveva un ginocchio sbucciato e gli occhi brillanti. Quella immagine avrebbe perseguitato Lisey per il resto della sua vita; il mattino dopo Sarah era scomparsa.
Furono fatte indagini, coinvolte personalità importanti, diramati comunicati, stampate fotografie... vennero fatte numerose segnalazioni, ma sempre sbagliate, da persone che volevano solo aiutare o magari farsi un po’ di pubblicità, riuscendo solo a peggiorare ulteriormente la situazione. La cameretta di Sarah si trovava al secondo piano e la finestra accanto al letto era leggermente socchiusa, come piaceva a lei, per poter vedere uno spicchio di cielo stellato. Si parlò di rapimento, ma non venne fatta alcuna richiesta di riscatto; si pensò agli zingari e a un campo nomadi lì vicino, ma le ricerche non portarono a nulla; il caso venne addirittura accennato in un programma sugli extraterrestri. Mentre il presentatore, nel suo completo nero gessato e i capelli tirati indietro con la brillantina, parlava della “bimba scomparsa nel nulla” con un’espressione tra l’affranto e l’inconsolabile, come se gliene importasse davvero qualcosa, Lisey era seduta sul divano e Anne le teneva forte la mano; tra loro neanche uno sguardo, solo in vuoto immenso e incolmabile.
In una delle tanti notti insonni, rigirandosi inutilmente nel letto, Lisey si alzò. Non aveva una meta precisa, ma i suoi passi la portarono verso la camera di Sarah. Entrò spingendo delicatamente la porta, come se lei fosse ancora lì e si sedette sul lettino della sua bambina; sentì sotto le sue mani il morbido copriletto celeste, quello con le nuvole, che a lei piaceva tanto… e sentì distintamente quello che era stato il suo equilibrio mentale andare in pezzi. Si accasciò sul pavimento singhiozzando e gemendo, cessando ogni difesa, buttando all’aria i pochi baluardi di razionalità che le erano rimasti. Sarebbe rimasta lì… per sempre. L’avrebbe attesa. Avrebbe aspettato il suo ritorno in quella stanza, perché lei sarebbe tornata. Lei doveva tornare.
Mentre Anne stava guidando, iniziò a cadere qualche goccia d’acqua. Nuvoloni neri si stavano addensando nel cielo e non promettevano niente di buono. Detestava la strada per l’ospedale psichiatrico, male asfaltata e fangosa. Si chiedeva ancora perché avessero deciso di costruire la nuova struttura in un posto simile, dimenticato da Dio in piena campagna. Andare a trovare sua madre diventava una vera impresa quando pioveva…sua madre… nel pensare a lei ad Anne venne un brivido. Da quando Sarah era scomparsa così misteriosamente aveva incominciato a non starci più con la testa. Aveva iniziato a comportarsi in maniera sempre più strana e inspiegabile, vagando di notte per casa e facendosi trovare al mattino sdraiata negli angoli più impensati e poi… un giorno si era rinchiusa nella camera della bambina e aveva deciso di non uscirne più. Suo padre aveva dovuto sfondare la porta e trascinarla fuori di peso. Scott aveva il suo lavoro a cui pensare e non voleva che Anne si occupasse di sua madre a tempo pieno trascurando gli studi. Pallido e stanco, con grandi occhiaie scure, ne aveva parlato con sua figlia; la decisione era stata quella di tenerla sotto stretto controllo nell’ospedale psichiatrico che distava qualche chilometro da dove vivevano. Pensando alla sua sorellina, una lacrima solitaria solcò il viso di Anne; le mancava da morire, come se qualcuno o qualcosa le avesse portato via un pezzo del suo essere. Pensò che niente è peggio dell’amputazione di un’anima, perché per quello non c’è protesi. Si asciugò il viso con un mano e parcheggiò in uno dei posti macchina vicino all’ospedale. Scese dalla vettura e si diresse verso il portone principale. Sua madre era ricoverata al terzo piano. Non appena le porte dell’ascensore si aprirono sentì delle urla… e le gambe le divennero molli di colpo, quando riconobbe la voce di sua madre. Si precipitò nella camera dove doveva essere, ma non c’era. Le urla si intensificarono e Anne le seguì. Corse per il corridoio di linoleum verde pallido e sentì le voci concitate di due infermiere: “Signora, la prego si alzi, coraggio…”. “No! No! Lei verrà! Me lo ha promesso! Lo ha detto! Devo aspettarla qui!”.
Anne entrò nella stanza tremante: era una specie di sgabuzzino dove tenevano scope, coperte e secchi. Il pavimento era logoro e sciupato e in alcuni punti la plastica si arricciava e veniva via. Sua madre era lì, rannicchiata per terra, la testa fragile e senza capelli ( glieli avevano dovuti tagliare completamente, perché continuava a strapparseli ), con indosso solo il camice azzurro dell’ospedale. Con le lacrime agli occhi Anne la prese per un braccio e tentò di farla alzare in piedi. “ Coraggio mamma, fai la brava… dai, forza!”. Lisey alzò lentamente la testa, gli occhi infossati, il volto scavato :”Non posso, la luce… la luce è tornata… me la riporterà… lo ha promesso!”. “Mamma ti prego!” Anne ormai urlava; lacrime amare le solcavano il volto. “Non posso, no… avrò un’altra visione, è lei, sta per arrivare”. “No mamma, ti prego alzati! Forza!”. Anne implorava e singhiozzava ormai senza alcun ritegno. Una delle infermiere tornò con una iniezione, mentre l’altra teneva ferma la donna. Mentre l’ago entrava nel braccio, gli occhi di Lisey si chiusero lentamente per cadere in un sonno senza sogni.
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