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la tassista messicana ha le unghie smaltate di rosso [ubriaco di inchiostro e poesia]
9. 27 p. m. Fuori è arrivata la notte, in orario. Mai che ritardi di cinque minuti. È arrivata oscurando le lenzuola appese alle finestre, è arrivata dall’altra parte del mondo. La notte è una puttana. In Asia lavorano a tutta birra mentre lei si concede nelle strade di Los Angeles. Mi ha sorpreso con la bottiglia in mano, seduto nella mia stanza. Non ho voglia di stare solo, ma rifiuto qualsiasi forma di compagnia. Guardo per un attimo la mia macchina da scrivere. È vecchia e nera, ingombrante e banale. Banale come i versi che sputa sulla carta quando l’accarezzo sui tasti. Forse dovrebbe lasciarmi per uno più fantasioso. Chissà come godevano le macchine da scrivere del Buk e del Kero quando i loro amanti le abbracciavano per creare i loro capolavori immortali. Comunque la mia M20 resta qui, sembra accontentarsi di un’esistenza scarna. Non ha ambizioni. E io picchietto veloce, bruciano i polpastrelli mentre fuori la notte è bella come una splendida donna con le calze di nylon.
Bevo, senza apparente perché. Semivivo, o quasi morto, privo comunque di obiettivi da perseguire. E picchietto e picchietto e picchietto. I tasti vanno giù sotto i miei colpi, ma trovano sempre la forza di rialzarsi. Forse sarebbe meglio se una volta per tutte restassero a terra, morti, sbudellati, col sangue agli angoli della bocca, cotti dal sole che picchia forte sul campo di battaglia. E invece tornano su, ubriachi di inchiostro e poesia, e mi danno la forza per andare avanti. La notte è una puttana. La città le pizzica il culo. Lei sorride subdola mentre l’uomo si ubriaca. Tutti corrono a velocità maggiori del necessario, nessuno sembra voler perdere tempo. Quando verrà la morte chissà se troveranno il tempo per dispiacersene. Potrei andare fuori anch’io, guardare la notte sotto al vestito e riempire lo stomaco con liquidi inebrianti. L’insegna del bar sotto casa è un richiamo forte, il suo sorriso lampeggiante ammicca ritmicamente dal basso. Potrei seguire l’esempio di quelle mille falene grigiastre, andar lì e picchiare la testa con forza contro quella scritta rosa. Si accende e si spegne. Quindi si riaccende e muore di nuovo in un attimo. Triste destino anche il suo, ma almeno ha una causa per cui lottare. Il bar esce dal palcosecenico della mia mente. Torno a scrivere, ho voglia di farlo, la testa mi scoppia. Mi sento come una madre che deve partorire. I miei figli nascono sotto forma di lettere su fogli vergini, bianchi come schiuma di birra. Lì moriranno, nell’indifferenza meschina di un mondo che non ha tempo. Guardo l’ora sul mio timex graffiato, 10. 12, il tempo scappa via e se lo tieni per i pantaloni ti resterà in mano un brandello di stoffa senza colore. Girano le lancette, e la notte è una puttana. Chissà a quanti si sarà concessa. Mi affaccio di nuovo. C’è odore di vita e di morte, c’è odore di sperma, di alcol, di sudore e di acqua di colonia, c’è odore di benzina, c’è odore di carne bruciata e di olio che cola giù da una griglia incandescente, c’è il caos, c’è l’amore, c’è la luna con un reggiseno di pizzo, c’è un angelo con le ali bloccate, c’è musica e silenzio, c’è tutto quello che serve e anche di più. Non sarà una notte da ricordare, ma potrei fare di meglio che star qui a grattarmi il collo. Potrei guardare i piedi nudi della tassista messicana, che ha le unghie smaltate di rosso sui pedali di plastica consumata. E invece resto qua, seguo con attenzione le lancette del mio timex per vedere se perdono un colpo. 11. 24, la notte sembra più piccola. Non so cosa fare, la macchina da scrivere sembra stanca. Potrei scendere al piano di sotto, troverei mia moglie inebetita davanti alla TV. Se ne sta lì per ore, a godere dei fallimenti degli altri o a invidiarne i successi. Magra consolazione. È una donna per bene, ma non ha più lampi di vita. Tiene al caldo il suo culo enorme fra i cuscini del divano, e tanto le basta, mentre il timex gira e la notte si appoggia ad un lampione. Scenderò giù, ho deciso, timex o no. Avrò compagnia, avrò una mano di donna sulla gamba destra. Poi forse faremo l’amore, circondati da una notte puttana che ha i minuti contati. Scendo le scale senza inciampare, nonostante la testa che gira. Almeno in questo non ho fallito.
liberamente ispirato alla poesia “zero” di Charles Bukowski.
21/6/07
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0 recensioni:
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- bravoooo
- be' che dire.. l'ho letto tutto d'un fiato, sai essere molto diretto senza giri di parole o alchime da vanesio culturale, sei diretto come tutti i poeti maledetti, come tutti i scrittori che non si piangono addosso ma si raccontano, forse ti sei ispirato ad un modo di concepire la letteratura, ma se ditro quella maschera di persona normale non si cela un piccolo genio dello scrivere non ne uscirebbe nulla!! diventerebbero miesere scopiazzature di gente senza idee, bravo sono contento di averti conosciuto... Tony
- prima di leggere l'ultima frase volevo scrivere soltanto: Bukowski.
Non ci sono parole.
Continuo a leggerti!
- Mi è piaciuto, anche se generalmente preferisco racconti che vanno più al sodo...
- Bello, caratterizzato dal tuo stile che si conferma anche in questo scritto. Camminare e lasciare delle impronte, è questo quello che tutti vorrebbero fare ma che non a tutti riesce. Tu tracci solchi importanti, per te e per gli altri, stanne certo (se ti importa, ovviamente). Piacere di averti riletto, grazie come sempre per la tua attenzione e i tuoi commenti. A presto, ciao, Antonio. "... e la notte si appoggia ad un lampione...", speciale!
- Grazie a tutti e due... che dire Antonello??? così mi imbarazzi...
- Ottimo
- atteso con impazienza ecco un nuovo, bellissimo racconto di uno scrittore straordinario. Quasi un colloquio intimo tra un uomo e la sua macchina da scrivere. Ennesima perla del Migliore. Grandissimo Duccio. Voto:10 (solo 10?)
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