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Il Tirocinio di Giulia
“Allora siamo d’accordo così, và bene?”
“Se proprio non c’è nessun altro….”
Franco, il responsabile dell’attività, sa benissimo che, no, non c’è nessun altro, ed anche io lo so.
Non che io e lui siamo gli unici dipendenti dell’Ente attualmente in servizio, ma chiedere ad altri è tempo perso, e tutti e due ne siamo coscienti, allora tanto vale non perdere tempo, no?
L’appuntamento è per le otto davanti all’Istituto presso il quale i ragazzi effettueranno il tirocinio, e dato che è il primo giorno sono tutti presenti.
Quando, dopo due o tre giorni avranno preso un minimo di confidenza con la struttura ed il personale, cominceranno a ritardare senza ritegno, ma oggi sono tutti qui.
Li conosco bene ormai, dopo quattro mesi di attività corsuale, e so che rispondono agli stereotipi dei ragazzi di quell’età, la maggior parte delle femmine perciò continuerà ad arrivare in orario, mentre la stessa percentuale dei maschi farà esattamente l’opposto.
Come le donne abbiano consentito agli uomini di comandare per parecchi millenni rimane per me un mistero.
“D’accordo gente, questo è L’Istituto “D. Roineo”, dove svolgerete il vostro tirocinio, al termine del quale saprete badare ai portatori di handicap come se non aveste fatto altro in vita vostra”.
Cerco di metterci un po’ di entusiasmo, ma io stesso sono il primo a non crederci, consapevole del fatto che tutti i presenti stanno solo occupando il loro tempo invece di vegetare in qualche sala giochi.
Entriamo.
Dietro al portone c’è un piccolo atrio con annessa la portineria, è identico a quello dell’Istituto delle suore dove frequentavo le elementari, anche questo è gestito da suore, infatti in un’altra ala del palazzo ci sono anche qui aule e bambini.
Immagino che ci sia un qualche Ente Architettonico Religioso che li progetta tutti allo stesso modo.
Superato questo atrio, (Ente Architettonico Religioso………EAR……suona bene, devo controllare se esiste veramente), c’è un corridoio che mi ricorda esattamente quello che mi portava al refettorio reggendo il mio cestino di vimini con dentro alcuni generi di conforto che mia madre mi dava, fidandosi fino ad un certo punto della suora-cuoca, ed infatti, girando a sinistra porta effettivamente ad un refettorio, (ancora L’EAR, è chiaro…).
Sulla destra invece è decisamente più corto, ed anche più buio, e ci sono solo due pesanti porte in ferro, una all’inizio ed una, appena visibile, alla fine.
Più che essere visibile la seconda si intuisce, perché non avrebbe senso un corridoio così senza una porta alla fine, e l’EAR non deve certo essere noto per il senso dell’umorismo.
Un paio di infermiere ci prendono in consegna, sanno bene il fatto loro, non siamo i primi né gli ultimi che sono chiamate ad istruire con i rudimenti del mestiere, e non perdono tempo:
“Salve a tutti, io sono Sara, lei è Carmela, i nostri ospiti sono divisi in due sale, la prima è per quelli in condizioni fisiche e mentali accettabili, la seconda per quelli in condizioni più….. disagiate. Cominceremo ovviamente dai primi”.
Senza ulteriore preavviso Sara, la più giovane, ma anche la più spicciola nei modi, apre la porta e ci costringe ad entrare.
Dietro la porta c’è un grosso salone, al centro c’è un lungo tavolo rettangolare circondato da sedie di foggia diversa l’una dall’altra, e sul tavolo fogli di carta e pennarelli.
Lungo le pareti corrono tanti armadietti, tutti con i lucchetti alle serrature, e alcuni scaffali con gli angoli arrotondati contengono altri pennarelli e giocattoli vari.
Ci irrigidiamo tutti d’istinto nel prendere contatto fisico con il motivo per cui siamo qui.
Carmela ce li presenta ad uno ad uno, ci sono quattro ragazzi Down, e tutti e quattro quando sentono chiamare il loro nome si alzano, e vengono ad accarezzarci il viso e baciarci; c’è Giuseppe, un vecchio sui 75/78 anni, apparentemente normale, ma dopo pochi secondi ti accorgi che non fa altro che citare le stesse tre frasi, qualsiasi cosa tu gli dica; Calogero, un soggetto egolalico, ripete tutte le frasi che gli si rivolgono, non ti guarda mai in faccia e se provi a fargli fare qualcosa di autonomo si porta le mani alle orecchie ed urla; c’è Matilde, affetta da nanismo e per di più ritardata, non si può dire che abbia avuto culo; c’è Franco, stà lì, sdraiato su un affare che sembra un incrocio tra una sedia a rotella ed una barella e non fa nulla, ogni tanto sembra che voglia sorridere, ma non si può esserne sicuri, non è ritardato, ha la sclerosi multipla in fase terminale, ed ha sedici anni. È il più sfortunato, dentro quella testa c’è un cervello funzionante, e la consapevolezza che tra poco cesserà di esserlo, ed in attesa che succeda i suoi genitori l’hanno parcheggiato lì; e poi c’è Luisa, che forse è la più impressionante.
È difficilissimo intuire l’età di gente con problemi così gravi, forse ne ha una trentina, ma potrei sbagliarmi anche di parecchio.
Non parla neanche lei, emette una specie di gemito che modula su tonalità dall’acuto allo stridulo in base a quello che vuol comunicare, solo che nessuno saprà mai veramente cosa Luisa voglia dire, perché dietro quella fronte non c’è una massa cerebrale sufficiente per permetterle di organizzare una sequenza logica di associazioni anche minimali.
Mi sorride, allora le sorrido, ma le infermiere mi riprendono bruscamente e mi dicono di lasciarla perdere.
Mi sembra una crudeltà inaudita, perché dovrei negare un po’ di calore umano ad una donna in queste condizioni?
Poi Sara mi spiega che, proprio per questo, la mente di Luisa non è in grado di elaborare e filtrare le normali pulsioni istintive dell’Io, e che la parte più incontrollabile di queste è quella sessuale.
Ogni qual volta Luisa interagisce con uno sconosciuto, viene da questa sopraffatta, e più di una volta è stata sorpresa a vagare nuda la notte in corridoio, senza rendersi conto di ciò che faceva, o addirittura ha cercato di spogliarsi davanti agli occasionali oggetti del suo desiderio.
Da come lo dicono mi sembra di leggere un accento di gravità sottinteso nelle loro parole, ed immagini di esseri immondi intenti ad approfittare di una situazione simile mi si formano in mente prima che possa fermarle.
Non le reggo, l’idea di questa caricatura di donna totalmente indifesa mi fa una strana rabbia, devo focalizzare la mia attenzione su qualcos’altro.
Mi giro verso i ragazzi, forse dovrei dir loro qualcosa, dare l’impressione di essere un professionista, cercare di rompere il ghiaccio con fare sicuro, ma quando mi accingo a cercare di farlo mi accorgo che Giulia, una di quelle che si è iscritta al corso perché ha davvero bisogno di lavorare, è rimasta sulla soglia.
Giulia ha ventotto anni, è bassina, occhi verdastri, capelli tinti rosso rame, aria dolce ed ingenua, e sta tremando.
È pietrificata, sembra fusa col pavimento e trema, trema sempre di più.
Guarda quei ragazzi, quegli esseri umani dei quali ha sentito parlare, dei quali dovrebbe e vorrebbe occuparsi, e trema.
Guarda negli occhi di Franco, che è proprio davanti a lei sulla sua sedia-barella, guarda oltre quegli occhi, e probabilmente non riesce a vedere niente, niente……e trema.
Le infermiere cercano di scuoterla di indurla a relazionarsi al meno con gli oggetti che formano il quotidiano di questa gente, ma dopo tre o quattro minuti cominciano ad innervosirsi anche loro, e bisogna portarla via, affinché non crei almeno danni, la accompagno in portineria, si siede lentamente su una poltrona, non trema quasi più, ma piange in silenzio, devo tornare dagli altri.
Imbocco il corridoio, dopo un paio di metri c’è la porta da cui sono uscito, ma l’idea di tornare subito dentro mi deprime, è un po’ vigliacco lo so, ma dopotutto sono qui in veste di accompagnatore, e non sono obbligato a sorbirmi tutta l’attività. Senza farci caso supero la porta della stanza in cui i miei ragazzi sono probabilmente già all’opera sotto la supervisione delle infermiere, e proseguo verso la seconda, così…. per curiosità.
Non so se sono autorizzato ad entrare, ma al limite dirò di essermi perso, cosa possono dirmi?
Sembra identica all’altra porta, ed allora perché quando afferro la maniglia e la costringo a ruotare sui cardini, mi apre uno squarcio su una infernale dimensione che sembra concepita da Hyeronimus Bosch durante uno dei suoi incubi peggiori?
La dimensione della stanza è identica all’altra, ma da un lato c’è uno scivolo che porta ad una pedana sopraelevata che termina sotto ad una finestra, e lì, sprofondato in una poltroncina di resina, sta sonnecchiando un infermiere, solo un armadietto ad una parete ed un piccolo tavolo quadro in centro e quelle figure che vagano intorno ad esso.
C’è una specie di gnomo, tozzo, sgangherato, sdentato, barba lunga, senza un occhio, e dalla fessura che nelle persone normali è la bocca, è scarabocchiato un ghigno che potrebbe essere un sorriso, è seminudo, e saltella qua è là stringendo un pupazzo nella mano destra.
Su una panchetta, (non l’avevo notata subito), un uomo normale, vestito normalmente, senza menomazioni fisiche apprezzabili, ma in stato catatonico, fissa davanti a sè, e tutto quello che si può aggiungere su di lui è che lo fa bene.
Due donne anziane sono sedute sul pavimento, abbracciate ed immobili, come sculture di carne.
Su due sedie a rotelle ci sono due ragazzi, un maschio ed una femmina, hanno qualcosa in comune nei tratti somatici, ma anche qui è difficilissimo esserne certi, perché l’evidente ritardo mentale ha stravolto anche i loro lineamenti, rendendoli forse simili per questo; sorridono, e stringono ognuno tra i moncherini che hanno al posto delle mani una pallina di plastica, indossano un bavaglino, perché una consistente massa di bava si forma continuamente agli angoli della bocca.
Un rigonfiamento abbastanza evidente all’altezza della vita testimonia la necessaria presenza di un pannolone.
L’espressione di assolutà vacuità dipinta sui loro volti è disarmante, destabilizzante, aliena.
“Non ci si crede, vero?”
Sobbalzo, l’infermiere, evidentemente svegliato dal mio ingresso, sta guardando il mio tesserino di riconoscimento e deve avermi scambiato per qualche ispettore dell’ASL, o comunque per qualcuno debitamente autorizzato a stare lì.
“Poveracci, sono fratelli sa? Ed anche i genitori lo sono, e questo è il risultato. La cosa incredibile è che non contenti del risultato della prima volta, ci hanno provato una seconda, ed hanno fatto il bis. Che vuole? Gente che vive in quattro case in cima ad una montagna…. sembra incredibile, ma c’è ancora al mondo qualcuno così ignorante”.
Non ci credo……non ci credo…. qualcuno, fratello e sorella, ha concepito questi Cristi, ed anche ammettendo l’incredibile totale inconsapevolezza della gravità di quello che stavano facendo la prima volta, lo ha rifatto una seconda volta, generando lo stesso infelice e poi scaricandolo qui, ad aspettare di morire senza rendersi conto di essere mai stato vivo.
La pallina cade dalle mani, (mani?), del ragazzo, mi avvicino, la raccolgo, gliela porgo.
Un sorriso, tanta bava, muove la mano e la pallina cade nuovamente.
La raccolgo di nuovo, gliela ridò, un altro sorriso e la pallina è nuovamente sul pavimento, sta giocando……sta giocando…. un infinitesimale barlume di autocoscienza rimane dunque aggrappato strenuamente alle sue sinapsi, è vivo……
Non ricordo più quanto tempo ho passato con quella pallina, con quella bava, con quel ragazzo, ma ad un certo punto l’hanno portato via, per me sono stati alcuni minuti di sacrificio, per lui la vita intera.
Siamo rimasti all’Istituto per un mese, meno del previsto, ma è sempre così, alla fine basta comunicare alla Regione di esserci stati, e questo basta.
A poco a poco i ragazzi si sono abituati ai degenti ed i degenti si sono abituati a loro, ma per questi ultimi non fa molta differenza, le novità giungono loro ovattate, distanti, ed il loro senso del tempo è diverso dal nostro, potremmo andarcene, tornare dopo anni, e per loro sarebbe come se li avessimo abbandonati da cinque minuti.
Questo senso della percezione temporale alterata è forse l’unica cosa invidiabile della loro condizione, tutti gli addii, i ritorni, le lontananze, avrebbero un impatto diverso e molto più contenuto sulle nostre esistenze se li affrontassimo così, al rallentatore, annullando i vuoti tra l’uno e l’altro, tra causa ed effetto, tra fine ed inizio.
L’ultimo giorno però è successa un’ultima cosa, mi ero allontanato un po’, per fare un giro e scambiare quattro chiacchere col personale delle pulizie e cominciare a salutare un po’ tutti, quando al mio ritorno, passando davanti all’atrio, mi sono accorto che la poltrona sulla quale Giulia ha trascorso l’intero periodo rifiutando di muoversi è vuota.
Entro nel salone e la vedo, sta stringendo la mano a Salvatore, uno dei ragazzi affetti da Sindrome di Down, e parla con lui.
Sembra contenta, si volta, mi vede, e mi sorride… abbiamo fatto un buon lavoro, in mezzo a questi ragazzi che hanno solo riempito un periodo della loro esistenza tenendo a bada la noia, almeno una persona prenderà davvero questa strada, e sarà brava nel suo lavoro, sono sicuro.
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0 recensioni:
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- Episodio vissuto.
- Ero passato di qui per rilassarmi un pò, cazzo, che racconto mi hai... ho la pelle d'oca. Un argomento che tutti evitano, trattato con grande coraggio, mantenendo uno stile narrativo di grande livello. Sei davvero bravissimo.
- Quando vorrà farlo davvero, come in tutte le cose.
Ciao.
- Ottimo e lode, un dieci di voto, ma più di tutto è una storia che "denuncia". Sembra di essere al Cottolengo di Torino, ma forse queste realtà di (sub) assistenza verso minorati e disabili sono ovunque.
Quando un paese che si professa civile riuscirà a cambiare queste realtà?
- La situazione che ho descritto è chiaramente vissuta di persona, i nomi sono stati ovviamente cambiati. Aggiungo che non saranno molti a tornare effettivamente, forse nessuno, perchè da queste parti il tasso di disoccupazione e' del 36%. L'Istituto Roineo, (anche questo è un nome fittizio) esiste, e funziona bene, e si regge molto sul mecenatismo di una nota famiglia cittadina. Il personale è in realtà di buon livello, e la mia descrizione un po' è funzionale all'atmosfera del racconto, un po' si riferisce ad altre realtà cittadine, le uniche esistenti e per niente superate in certe zone d'Italia.
In questo settore sia chiaro comunque che la pensiamo allo stesso modo.
Ciao e grazie x il commento
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