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IL BICCHIERE
Primo episodio dei "filosofi napoletani"
Napoli, sono circa le cinque del pomeriggio.
Ci troviamo in uno dei vicoli del centro storico popolare, dove insieme a molti “bassi” e a qualche piccolo antico negozietto, c’è una pizzeria, non più grande di 50 mq, tanto modesta ed al limite della decenza igienica, quanto nota fra i popolani per la qualità e la bontà delle sue pizze al forno e delle sue pizze fritte.
Nel locale sono ammassati, in un ordine approssimativo, una ventina di tavolini con il piano di marmo bianco, contornati da vecchie sedie di ferro verniciate di nero. Tavoli e sedie, recano i segni del passaggio di migliaia e migliaia di persone che, su di essi, hanno consumato altrettante pizze, nel corso di quasi un secolo d’attività.
In un angolo, da cui si vede tutta la sala, c’è un altrettanto antico forno a legna, che profuma di pomodoro e mozzarella anche quando è spento, con annesso un bancone dove il pizzaiolo stende e condisce le gustose ruote di pasta cresciuta, prima d’infornarle.
Completano l’essenziale arredamento, alcuni armadi, sbilenchi in cui sono custodite le stoviglie, le posate ed i bicchieri. Com’è d’uso, in questo genere di locali, la carta sostituisce le tovaglie e le salviette.
Intorno ad uno di questi tavolini, sono sedute due persone, di circa cinquanta anni o poco più. Dinnanzi a loro una bottiglia di birra fresca e due bicchieri.
Hanno l’aria rilassata e svogliata.
Sono Gennaro Platone e Ciro Aristotele.
Il primo, Gennaro, quello che ha l’aria svogliata, è un disoccupato organico, che non ha un vero e proprio mestiere, ma che è un gran maestro dell’arte di arrangiarsi.
Egli, quando gli va, si arrabatta a fare un po’ di tutto, ma per quel tanto che basta alla sua sopravvivenza. Gennaro, che è senza vincoli familiari, ha scelto di anteporre il desiderio di vivere a modo suo e secondo gli umori del momento, all’eventuale sicurezza di un’occupazione stabile e continua, qualunque essa fosse.
Il secondo, Ciro, quello con l’aria rilassata di colui che sta gustando un meritato intervallo tra i due impegni quotidiani, del pranzo e della cena, è il pizzaiolo, nonché il gestore del locale. Ha iniziato fin da piccolo a seguire le orme del padre, che, a sua volta, aveva seguito quelle del nonno e, così di seguito, fino alla quinta generazione, per quanto si ricordava.
Il caso ha fatto sì che si conoscessero e frequentassero fin da ragazzi, anche per quello strambo connubio che si era creato fra le loro due famiglie, che abitavano in due “bassi” adiacenti, a causa dei loro importanti cognomi.
I genitori, infatti, si compiacevano di raccontar loro, quand’erano piccoli, com’era avvenuta quella conoscenza, poi trasformatasi in amicizia, evento comune e frequente fra gli abitanti dei bassi.
Sia Ciro, sia Gennaro, amano spesso ricordare quel momento tante volte ascoltato, che, pressappoco, si svolse così:
Il padre di Gennaro appena arrivato nel vicolo, com’è usanza ancor oggi, si avvicinò al padre di Ciro, che stava affacciato sulla soglia della pizzeria e gli disse:
“Buongiorno, sono appena venuto ad abitare qui accanto a voi e mi volevo presentare, sono Antonio Platone”.
Il papà di Ciro, dopo un attimo d’esitazione, rispose:
“Che grandissimo piacere, io sono Giuseppe Aristotele”.
Un silenzio gelido e corrucciato, da parte di Antonio, seguì questa presentazione.
Giuseppe afferrò al volo la delicatezza della situazione e anticipò un’eventuale reazione di Antonio:
“No, no, p’ammore e Ddio, non stò pazzianne. Io me chiamme proprio accussì, per quant’è vera a Maronna!”
Un’altra breve pausa ed il viso d’Antonio riprese il suo aspetto naturale e scoppiò in una fragorosa risata, seguita immediatamente da quella di Giuseppe. Risero per un tempo lunghissimo, fino alle lacrime, finché Giuseppe, appena riprese fiato, disse:
“Allora, mò into o vico ce ne stanne doie e filosofe”. E giù altre risate.
Ciro e Gennaro, fin da bambini si divertivano a ripetere la macchietta dell’incontro dei genitori, fra loro e davanti ai loro amici, dando il via alcune volte, a delle vere e proprie piccole sceneggiate.
Ma ciò, non ha mai impensierito più di tanto i nostri due amici, che hanno continuato a convivere con i loro importanti cognomi con naturalezza ed ironia, tipicamente partenopee.
Ciononostante, molto lentamente, in maniera strisciante, il peso di cotanti nomi, aveva influito sui loro caratteri.
Nei vicoli, erano indicati, con bonomia come:
“E doie filosofe. O filosofe d’ a pizza e o filosofe che nun vole fatigà”.
Queste definizioni non nascevano solo perché si chiamavano Platone ed Aristotele, ma anche dal fatto che, nel corso degli anni, si erano compenetrati, a modo loro e con il loro livello culturale, acquisito con letture specifiche e superficiali riguardanti i loro gloriosi “antenati”, come amavano definirli, fino al punto di chiacchierare, discutere e filosofeggiare su tutto. Loro si contrapponevano come le scuole di pensiero dei seguaci dei loro “capostipiti”.
Ciro e Gennaro avevano fatto un po’ il verso a Totò. Lui si era scoperto un’origine nobiliare, loro si erano assimilati ai maestri del pensiero, diventando dispensatori di concetti ed enunciazioni molto filosofiche, suscitando, ovviamente, l’ilarità di chi avesse avuto la sventura di udire i loro strampalati ragionamenti.
Quel giorno, però, diedero vita ad una discussione e a delle riflessioni, che potevano essere definite all’altezza dei loro nomi, in particolare se rapportate al loro grado intellettuale.
Torniamo al tavolino al quale sono seduti ed alla birra ed ai bicchieri che hanno davanti a loro.
Gennaro, prendendo in mano il suo bicchiere, in cui c’era ancora un po’ di birra, comincia a fissarlo attentamente. Ciro lo guarda, senza parlare, aggrottando le ciglia. Gennaro continua a contemplare il bicchiere, lo gira, lo solleva, lo posa, lo riprende, lo guarda di nuovo.
A questo punto, Ciro gli dice:
“Uè Gennà che già te s’imbriacato, cu sole mieza birra?”
“Uè… Gennà! Scetate!”
Gennaro, imperturbabile:
“Ciro, dimme, cumme o vire stu bicchiere”.
“Che dice Gennà, cumm’aggia a veré… è nu bicchiere!”
“Ciro, cumme o solite, nun capisce mai”
“Uh, Gennà, c’aggia a capì, so tant’anni che te conosche, ma certe vote me pare nu pucurillo fore e cape”
Gennaro, sempre senza scomporsi:
“Ciro, tu m’hai ricere cumm’è stu bicchiere pe te. Mieze chine o mieze vote”
Ciro, conoscendolo, a quel punto ha capito che stava iniziando una delle loro dispute “filosofiche”. Come il solito accetta la sfida.
“Gennà, pe me è mieze vote. Mo, però, io già o sape, tu m’hai da scassà u cazz, ricenneme, nossignore, o bicchiere è mieze chine”:
“Né, Cire, veche ca cummenze a capì quacche cose. Te s’è scetato o cervielle?”
“Gennà, nun avive niente e meglio c’ha fa mò, che dì ste strunzate?”
“ E no, caro Ciro”.
Ciro capì che la discussione si stava facendo seria, questo succedeva sempre quando Gennaro passava dal dialetto all’italiano. Un filosofo può mai parlare in vernacolo?
“Vedi Ciro, tu hai fatto un’affermazione errata”
“Azz… errata”.
Andiamo sul difficile, pensò Ciro.
“Si, ho fatto un’affermazione errata”.
Ripeté con sussiego e con qualche moina, Ciro.
“Vedi, mio caro ed ignorante amico, ora tenterò di spiegarti dov’è l’origine del tuo errore”.
“Maronna mia, agge a cagnà a marca e birra!”
Pensò Ciro.
Gennaro, ormai perso dietro al suo ragionamento che doveva per forza sviluppare a Ciro, prosegue:
“Seguimi, seguimi bene. Il bicchiere, come tu dovresti sapere, è un contenitore, che nasce per contenere qualche cosa al suo interno, liquida o solida che sia, Fin qui ci sei?”
Ciro annuì svogliatamente, già pensando alle pizze che avrebbe dovuto preparare di lì a qualche ora.
“Allora, se serve per contenere qualche cosa, lo può fare solo quando è vuoto, quindi, e qui arriva il lampo di genio di Platone, il bicchiere, quando c’è qualcosa dentro deve essere sempre definito come pieno. Parzialmente pieno, un poco pieno, un quarto pieno, un ottavo pieno, mezzo pieno, appunto, perché appena ci va qualcosa dentro non è più vuoto!”
“Ciro hai capito il concetto. Le discussioni che sempre si fanno sul bicchiere e su come uno lo consideri, quale specchio del suo atteggiamento psicologico, a seconda che dica: mezzo vuoto o mezzo pieno, pessimista, il primo, ottimista, il secondo, sono tutte fesserie. Il bicchiere è sempre pieno o è tutto vuoto, quando non c’è niente”.
“Ciro agge avute na bella penzata, eh”
Ciro rimane un attimo perplesso, ma, poi, a ben rifletterci comincia a convincersi che il ragionamento di Gennaro ha una sua consistenza logica. Con la rapidità e la brillantezza d’ingegno che i napoletani sfoderano nei momenti più impensabili:
“Né Gennà io già c’ero arrivato a capì sta cose, agge fatte finte e nun capì, pe verè a rò ive a fernì”.
“Me fa piacere assai, che, pe na vota, simme d’accuorde e simme arrivate alle stesse conclusioni!”
Poi, senza dare il tempo a Gennaro di replicare e per evitare di trascinare oltre la “discussione”, si alza e andando verso il forno, dice all’amico:
“Gennà, cummo o solite, è state nu piacere parlà cun te. Mò però t’agge a salutà che tengo a preparà e pizze pe’ stasera. Ce verimme.”
Gennaro s’avvia malvolentieri verso casa.
Era compiaciuto, però, del suo sillogismo (senza sapere che il sillogismo appartiene ad Aristotele) ma nutriva qualche dubbio sulla sincerità dell’affermazione di Ciro.
Ma.. come può Platone dubitare di Aristotele?
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- avevo già espresso il mio apprezzamento per un'altra storia riguardante i due filosofi "vicolari", lo confermo.
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