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LA BREVE STORIA DI MARIE
Diventa incredibile come le condizioni atmosferiche possano influire sulla nostra percezione visiva, o ancora più sul nostro umore, a volte.
La nostra memoria visiva è clemente, cerca di non condizionarci, riconosciamo il verde degli alberi o il rosso delle tegole giusto perché sappiamo che quegli oggetti così sono, anche se poi, in realtà, tutta una serie di sfumature si manifestano a seconda della volontà della natura.
Un cielo grigio non potrà fare altro che velare ogni cosa di grigio, togliere vitalità a quel paesaggio che ben conosciamo, o per contro, un solo raggio di sole ha la capacità di riaccendere, ravvivare, dare una speranza a una giornata che poteva sembrare compromessa, rassegnata. Normalmente, però, ci accontentiamo di pensieri più modesti, legati solamente ai disagi che il brutto tempo ci comporta o, al contrario, al conforto del tepore di una bella giornata primaverile. Per il resto, non che ci si pensi più di tanto. Solitamente al momento del mattino in cui per la prima volta gettiamo lo sguardo verso l’esterno delle nostre case facciamo solo delle semplici considerazioni: “Ma che bella giornata” oppure: “Che schifo di giornata oggi”. Banali, semplici considerazioni del quotidiano vivere che hanno un peso solo se il sole, il vento o la pioggia, o tutte le forze che la natura sprigiona, manifestandosi nei suoi elementi a noi conosciuti, si ripercuotono sulla nostra felicità. Concetto, questo della felicità, legato semplicemente alla soddisfazione dei bisogni primari. Non felicità per un amore corrisposto o per la nascita, magari, di un figlio, ma di quella felicità tangibile che deriva dal raggiungimento di certi risultati pratici, terreni. Il raccolto è andato bene perché la pioggia è arrivata al momento giusto e il sole ha compiuto il suo compito puntualmente e anche la vendemmia è stata fruttuosa.
Dietro risultati di questo tipo si nasconde quel genere di felicità; perché il raccolto sarà farina, che sarà pane e che sfama i bimbi, e il vino sarà festa e lo sposo e la sposa alzeranno i calici nel giorno più bello, felici, per sempre. Per sempre? Come ritornano le parole. Alcune parole hanno il dominio, la supremazia sulle nostre vite, sfidano le leggi della fisica, sono equazioni che vanno oltre la matematica: Amore, felicità, per sempre, quindi, nel tempo. Ancora il tempo: Il bello e cattivo tempo, chi ha tempo non aspetti tempo, mi dispiace ma non ho tempo, tempus fugit. Tutte le regole, tutte le certezze vengono disciolte, confermate, capovolte e disfatte nel tempo, dal tempo. L’amore che nel tempo finisce, la felicità che nel tempo si perde o che, a volte, si ritrova.
Il tempo non era bello quella mattina in cui Marie teneva lo sguardo inerme oltre la finestra, in uno stato di semplice attesa. Fuori pioveva in maniera possente, costante. Pioggia a catinelle, pioggia torrenziale, diluvio, rovescio. Un rovescio: nella sua parola nasconde tutto un senso di repentina violenza. Rovesciare. Il cielo, come un enorme inesauribile catino, si è rovesciato sulla terra e tutta l’acqua in esso contenuta cadrà, fino all’ultima goccia.
Piove da sempre sulla terra e gli uomini si sono evoluti, una pioggia di quelle dimensioni si combatte con un buon ombrello, con un buon impermeabile, dentro le automobili o con una tazza di tè caldo tra le mani, in una caffetteria. O, più semplicemente, con la scelta di rimanere in casa e aspettare che spiova. Se poi non si può scegliere, anche se contrariati, si affronta la pioggia semplicemente nei modi che già conosciamo.
Per strada qualche passante scorre via, come la pioggia. Sotto gli ombrelli le persone non rinunciano ai loro doveri, confortate da quel mal comune mezzo gaudio che ci rende tutti simili in questi momenti.
Le auto, immuni, indenni, indifferenti, sollevano piccole onde dall’asfalto che si infrangono sui marciapiedi, costringendo i passanti a camminare rasenti ai muri, in una camminata incerta, insicura, certamente disagevole.
Marie non era interessata a quanto accadeva per strada, teneva i polpastrelli delle dita leggermente premuti sul vetro della finestra e continuava a guardare fuori. Non percepiva neanche quel rumore quasi metallico dello scrosciare dell’acqua. I suoi pensieri andavano oltre, anzi, forse trovava piacevole, romantico, osservare quel grigio tipicamente invernale, quel fumo leggero dei comignoli che si perdeva tra la pioggia, quel paesaggio che fa venire voglia di coccolarsi sotto una calda e morbida coperta, tra le protettive mura di casa.
Forse si sarebbe coccolata Marie se non avesse avuto un impegno. Impegno è una parola importante, avere un impegno è una cosa alla quale non si può rinunciare, è una promessa da mantenere. E l’impegno di Marie non era un obbligo, era una sua volontà, attesa, cercata, voluta, alla quale non avrebbe mai rinunciato. Non un impegno di lavoro al quale, magari, ci sottrarremmo volentieri, ma un impegno di quelli che non vedi l’ora.
Ancora qualche minuto e sarebbe stata per strada Marie, sotto la pioggia. Si era preparata per tempo, anzi in anticipo. Indossava l’impermeabile giallo e aveva preparato vicino alla porta di casa l’ombrello, di un colore fucsia pastello. Aveva raccolto i lisci castani capelli in una semplice coda, dando al suo viso tutta la luce che meritava, mettendo in risalto una bella pelle giovane, levigata e rosea, come ogni giovane donna merita, e si era truccata lievemente. Solo un timido rossetto sulle labbra e due occhi neri che esprimono tenerezza completavano i dolci tratti del suo viso.
Impaziente e frettolosa ragazza, incosciente gioventù che smuove quel coraggio che solo i giovani possiedono.
Non sarebbe ancora il momento, ma non importa, giù per le scale e poi per strada. Apre l’ombrello e attraversa il torrente che la separa dall’altra parte del marciapiede con pochi piccoli balzi, mettendo i piedi nei punti dove l’acqua scorre meno copiosa. Termina quella danza al sicuro, sul marciapiede di fronte, senza troppi danni alle deliziose scarpine che, guarda caso, hanno lo stesso colore dell’ombrello. Una casualità che solo una donna può far apparire tale. Percorre ancora qualche metro e svolta l’angolo Marie. Uno sfuggevole spicchio di arcobaleno aveva fatto capolino per pochi secondi in quel tratto di strada, un impermeabile giallo, un ombrello color fucsia pastello e un paio di scarpine del medesimo colore avevano interrotto per pochi secondi la monocromia del paesaggio. Velocemente, in silenzio, senza la pretesa di farsi notare o di volersi ribellare alla legge della natura che, di quella giornata, ne aveva già disposto il corso.
Aspetta Marie, aspetta; non così precipitosa, dacci il tempo, parlaci di te, del tuo nome; parlaci di tua madre, di tuo padre. Per noi è importante sapere chi sei, noi già ti vogliamo un po’ di bene e ti vorremmo proteggere; sei così giovane, carina, a modo. Aspetta Marie, solo un minuto, non avere timore, hai ancora del tempo, voltati Marie. Chi ti ha dato quel nome? Quel nome così inequivocabile: Maria, Mary, Marie. La madre di tutte le madri. Eva fu la prima, ma non era destinata a un compito tanto alto, non ebbe abbastanza spirito di sacrificio Eva, anche se per prima subì l’immenso dolore. Eva incarnerebbe tutta la passione delle madri di questa terra: quelle madri che perdono i figli in ogni modo, in ogni giorno di questo mondo. Madri continuamente violate, dagli stessi figli, spesso. Come se quel latte materno non fosse stato sufficientemente buono, tanto che i figli giurano una vendetta puntale verso le loro madri, verso i loro fratelli.
No, troppo simile Eva alle donne di questo mondo.
Maria sì, eletta suo malgrado, volente o nolente. Fu un ordine imperativo che arrivava dall’alto. Poteva rifiutarsi? No di certo, atto di fede assoluta e di obbedienza cieca. E poi quale onore, se addirittura un angelo funge da messaggero. “Ma cosa ho fatto per meritarmi questo?” E che interpretazione dare a quel “meritarmi”, punizione o premio?
Grave il peso del compito: “Sarò io in grado?” “Se sono stata la prescelta forse sì!”.
Attenta donna, un solo pensiero sbagliato può indurre a un atto di superbia, non farti tribolo, non porti domande, stavi andando bene, assolvi la missione con umiltà e vedrai che andrà tutto come deve andare, tu non sei fatta per il libero arbitrio. Segui l’istinto di madre che sarai e attieniti al copione, sarà una triste, truce, tenera tragedia di amore e odio, di uomini e dei e a te l’ardua responsabilità di allevare quel figlio così importante, di crescerlo fino al momento in cui te lo porteranno via, solo in seguito conoscerai il finale.
Senza violare la tua carne porterai a termine la missione che il tuo Dio ti ha imposto.
E il tuo Dio ti riconoscerà questo merito rendendoti venerabile come nessuna mai.
Premio allora, con certezza di merito, premio come nessuna mai.
Nessuna mai Maria, Marie, nessuna, anche se in altri tempi, qualunque fosse stato il tuo nome, chiunque ti avrebbe chiamato Madonna.
Ha girato l’angolo Marie, nessuna voce, nessun richiamo l’avrebbe persuasa a voltarsi, a fermarsi solo un secondo in più, anche se era in anticipo.
Le vetrine del Cafè Le Paradis iniziavano dal lato della strada che dava esattamente sulle finestre dell’abitazione di Marie e proseguivano ancora per qualche metro appena girato l’angolo, nella stessa direzione che avevano preso le deliziose scarpine fucsia. Da quella parte della strada si trovava anche l’ingresso del café.
Marie, prima di uscire di casa, aveva tentato di sbirciare all’interno del locale, ma le grandi vetrate fumé del café non permettevano che una visione dall’esterno potesse violare l’intimità dei frequentatori. Si tratta pur sempre di un locale pubblico, questo è vero, però a nessuno piace essere osservato mentre consuma una colazione o un pranzo, da un qualsiasi passante frettoloso o da un automobilista annoiato in attesa del verde del suo semaforo. Altra cosa, invece, se l’osservatore si trova all’interno del locale: i piani d’azione si equivalgono, si gioca ad armi pari, le bocche si aprono alla stessa maniera e masticano alla stessa maniera, e bevono tutte allo stesso modo.
Ma la tacita regola, in ogni caffè che si rispetti, richiede che lo sguardo non sia insistente, bensì distratto e fugace, apparentemente disinteressato, evitando così imbarazzi reciproci.
È permesso osservare leggermente più a lungo solo in un caso e quel “leggermente” racchiude in sé un implicito senso: delicatezza, senza impertinenza né maleducazione e tanto meno fastidiosa insistenza. L’arduo gioco della seduzione prevede astuzie e trabocchetti dove anche i più abili giocatori cadono. La confortevole atmosfera di un caffè ben si presta a queste umane tentazioni.
Dal momento in cui ci accomodiamo, noi, siamo parte a sé, siamo diventati membri di quel circolo esclusivo: seduti comodamente su morbidi divanetti di pelle, al caldo, e tra le mani una tazza di cioccolata fumante e sul tavolino un vassoio di pasticcini assortiti. Gli altri, se non entrano, allora stiano pure fuori dal locale; o dentro o fuori, o con noi o contro di noi.
Un capiente vaso di rame, situato a sinistra, appena varcata la soglia del café, conteneva alcuni ombrelli dei clienti; avevano, nonostante quella viva moltitudine di colori, un aspetto di fiori stanchi, infilati nel vaso col gambo all’insù. No, anzi, dal respiro affannoso, ricordavano cavalli sfiniti che, una volta arrivati alla posta, necessitavano di riposo e dovute cure, prima di affrontare un nuovo viaggio. Ma stiamo solo parlando di ombrelli e la nota, il dettaglio esclusivamente interessante, è l’ombrello fucsia di Marie, che riposa insieme agli altri all’interno del café. Tulipano rovesciato.
Marie si è già diretta nella saletta più in là, quella con le sedie foderate di velluto rosso e i tavolini di cristallo brunito, larghi specchi alle pareti fanno sembrare la sala molto più grande di quanto realmente sia. Le persone riflesse dagli specchi un po’ la confondono. Sta cercando un tavolino per sedersi quando, ancora lo specchio, le offre il viso di Antoine che siede a un tavolo con un giornale tra le mani. Si volta di scatto ma non lo trova subito, riflesso per riflesso contro riflesso… dove sarà Antoine adesso? Non scherziamo! La posta in pegno è alta, qui si parla d’amore, di amore vero.
Né di maghi né di scherzi del destino abbiamo bisogno in questa storia. Abbiamo detto che Antoine era seduto al tavolino che leggeva un giornale e ci deve essere!
Si vedono finalmente. Abbracci, baci. Hanno attirato l’attenzione degli altri clienti, ovviamente.
Si stanno comportando come due giovani innamorati e del resto lo sono, si scambiano moine, smancerie.
Qualcuno ride di loro. No, non ridete, cos’è quel moto di superiorità? Avete dimenticato che anche voi eravate così da giovani? Quante volte avete corso, pianto, riso, amato, ferito e lottato per una persona da voi amata? Silenzio allora, badate alle vostre vite composte, abbiate rispetto di questi due giovani e non dimenticate i vostri segreti, i vostri inganni nascosti dietro quegli sguardi beffardi. Se gli anni trascorsi vi hanno insegnato qualcosa, allora dovreste aver imparato che è ben più pericoloso, doloroso e complicato vivere una storia d’amore da adulti piuttosto che da giovani.
Avete già conosciuto felicità e dolore, e ogni volta vi siete rialzati, con fatica, ma vi siete rialzati.
E mentre gli anni passano e la diffidenza, le dolorose esperienze vi hanno reso sempre più restii, impermeabili a certi sentimenti, allora sappiate che non avete raggiunto l’immunità. E se un giorno riaccadrà di cadere in amore, sì cadere - niente di più azzeccato del termine Inglese “fall in love” per dire innamorarsi - allora la caduta sarà più dolorosa, perché avete abbandonato tutte le difese così attentamente costruite nel tempo. Se intoppi, delusioni, tradimenti, o qualunque rovina manderà alla malora la vostra storia d’amore la ferità sarà ampia e troppo tempo e sofferenza occorreranno per cicatrizzarla.
I due ragazzi si guardano negli occhi, si sorridono e Marie non sta più nella pelle, deve dire qualcosa, qualcosa di importante ad Antoine. Forse per questo motivo tutta la fretta di vederlo, una gioia infinita è svelata dalla luce dei suoi occhi.
“Antoine, amore, amore mio, è successo”.
“Cosa Marie, cosa?”
“Io lascio tutto, per te, ora so che posso, insieme affronteremo il mondo. Avremo una nostra famiglia Antoine”.
“Marie, non capisco, cosa intendi? Tu, tu sai che...”
“Aspetto un figlio Antoine”.
“Ma, ma sei sicura? No, no aspetta un attimo, come fai a dire che è mio figlio? Tu sei sposata”.
Silenzio assoluto, in tutta la sala.
Marie si alza in piedi e si porta al centro del palcoscenico completamente buio.
Una sola luce dall’alto illumina Marie che, tenendosi le braccia sul ventre, sente lacerarsi le carni, come se una lama, lentamente, si contorcesse dentro di lei.
Lacrime copiose e silenti scorrono sulle sue guance.
La ragazza urla in un disperato monologo.
“È tuo il figlio Antoine! Non ho rapporti con mio marito da mesi, da quando ti ho conosciuto e mi sono innamorata di te. Non riesco neanche a toccarlo, mio marito. Pensavo che saresti stato felice, che adesso avrei trovato il coraggio di lasciarlo, e io e te….”
Dal buio la voce di Antoine si leva flebile, ma ferma.
“Ti sbagli Marie, ti sbagli. Non così, non era questo che volevo. Io, io non posso affrontare questo”.
Anche dagli altri tavolini, lontano dalle luci, alcune persone parlano.
“Vergogna!”.
“Hai sentito? E sposata”.
“Ma che donna è? Aspetta un figlio dall’amante e che pretende?”
Una signora tra il pubblico della platea la indica e dice: “Io la conosco, è la moglie del dottor Murcier.”
Qualche fila più avanti altre voci dal pubblico confermano in maniera indignata: “È vero, anche io la conosco”. “Sì, è la giovane moglie del farmacista, del dottor Murcier, svergognata!”.
“Sembrava una così tanto brava ragazza, ahh ma lo si poteva immaginare, troppo giovane, troppo giovane”.
Si chiuda il sipario! Ne abbiamo abbastanza di questi oscuri spettatori pronti a sbranare ogni attore che recita qualsiasi rappresentazione dei propri drammi.
Via dal locale Marie, espierai la tua colpa come disporrà il destino.
Piove ancora per strada, nessuno si è accorto che il sole è tramontato. Dal grigio ad un grigio più scuro e fra un po’ le sole luci saranno quelle dei lampioni, delle insegne luminose, della Tour Eiffel che si staglia sull’orizzonte di Parigi.
Piove sul viso di Marie, l’acqua sta inzuppando i suoi vestiti sotto l’impermeabile giallo, aperto.
Piove sui suoi capelli, sul suo collo. Gocce fredde scivolano sulla sua pelle mentre lei, immobile, per strada non sente neanche le lacrime scorrere sul viso: la pioggia le confonde.
Morirà nel vaso di rame il suo delicato ombrellino, forse per noia, o forse per il dispiacere di essere stato abbandonato dalla sua padrona.
“Marie, Marie”. Si volta Marie, udendo una voce.
Una vecchia si avvicina e le porge riparo sotto il suo ombrello.
“Ti stai bagnando tutta piccola”.
“Lei, lei chi è, come sa il mio nome?”
“Non pensavo di trovarti qua per strada Marie, sarei dovuta venire a casa tua, ti avrei aperto la finestra, ti avrei offerto la mia mano, ma… ecco, sono in anticipo e allora…”
Le due donne attraversano la strada, si incamminano.
“Dove mi porti allora?” Chiede Marie.
La vecchia la prende per mano e risponde: “Vieni, il fiume non è lontano da qua, ormai è buio, sarà facile vedrai”.
Eccola la Senna, acqua scura che scorre. Si avverte il battito del suo cuore sotto il frastuono della pioggia torrenziale.
“Va’ Marie, vai”.
L’impermeabile non più giallo scavalca l’argine e subito dopo scompare in un vortice, inghiottito nell’oscurità.
Pioverà per tutta la notte a Parigi e, forse, per qualche giorno ancora.
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- Interessante, mi piace la scelta narrativa "teatrale" ed il taglio apparentemente leggero.
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