“La stiamo perdendo, la stiamo perdendo, cazzo!” Nonostante mi abbiano fatto rimanere fuori dalla sala di rianimazione, sento lo stesso le rabbiose grida del medico che sta cercando di salvare la vita di Francesca.
Tutto è successo tre ore fa, Cesca ha voluto per forza andare lei a fare la spesa, io ho insistito più volte, ma non sono riuscito a farle cambiare idea; così, io sono rimasto in casa, stereo acceso a tutto volume, a sistemare un po’ di conti, bollette da pagare, ricevute da registrare, estratto conto da controllare, insomma le cose che si rimandano sempre e si fanno sempre con una noia e una non passione infinita; e Cesca; rotonda e colorata come una barbabietola, (come si arrabbia quando la chiamo così), è scesa per le compere quotidiane, (e sicuramente perchè le è venuta voglia di qualcosa di impossibile! È cosi fin dall’inizio della gravidanza).
Solite botteghe, solito marciapiede, ma oggi c’è qualcosa di nuovo, due bastardi in vespa che cercano di fare uno “scippo” a Cesca, la quale, stupidamente, ma istintivamente, reagisce e stringe fortemente la sua borsa. Strattonata, cade a terra ed urta violentemente la testa sul bordo del marciapiede, non contenti di ciò, uno dei due, sceso dal motorino la prende a calci e solo dopo essersi impossessato della borsa la lascia stare.
I negozianti che hanno assistito, inermi, alla scena, la soccorrono immediatamente, strilla di rabbia, invettive contro i malavitosi, l’arrivo in pochi minuti (stranamente) dell’ambulanza, la corsa all’ospedale. Il fornaio, che mi conosce da sempre, mi viene a bussare al citofono, e con parole confuse mi racconta tutto; mi precipito giù che l’ambulanza è già partita, prendo un taxi ed eccomi qui.
Il biiiiip, biiiiip, delle macchine che monitorizzano la mia piccola Fran è l’unico segno che è ancora viva. Circa due ore dopo, a fine dell’intervento col quale le hanno ridotto ed assorbito l’ematoma cerebrale, il medico vien fuori e mi fa: “sua figlia se la caverà, sarà lunga la riabilitazione, ma non resteranno conseguenze di nessun genere, il fatto grave è che ha avuto un aborto, e la bambina era troppo piccola per avere speranza di sopravvivenza in incubatrice, mi dispiace, ma ho dovuto certificarne il decesso.”
Non sto li a spiegare all’imbarazzato chirurgo che Cesca non è mia figlia, bensì la mia vita, e fra le lacrime, che da sempre caratterizzano la mia esistenza, resto seduto su di una ridicola sedia azzurra, con un piede zoppo, che urta terra ad ogni mio singhiozzo. Toc, toc, toc, sembra quasi il rumore della mia vita che se ne va.
Quasi un anno dopo questi avvenimenti, siamo seduti in cucina, Cesca ed io, ci teniamo la mano; lei ancora non ha recuperato per intero l’uso della parola e talvolta, imbarazzata, ha ancora problemi di afasia. Stiamo guardando il cielo, al tramonto, e lì, subito a sinistra di Venere c’è da un poco una nuova piccola stella, c’è nostra figlia, che abbiamo deciso di chiamare Aisha!
Per Aisha e tutti i fiori mai nati, irrigati dalle mie lacrime!