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OCCHI VERDI, COME LE GATTE
Grigia e secca venne al mondo, grigia e secca, zolla fra le zolle di quella terra ingrata. Madre Natura, in vena di colori, le disegnò, con due colpi di pennello, occhi verdi, come quelli delle gatte.
La chiamarono Francesca, come il santo di quel giorno, ma, ancor prima di imparare a camminare, lei divenne, per tutti, Cesca.
Ebbe i natali in un luogo senza storia, sorto per caso, forse anche per sbaglio, al solo scopo di dannarsi l’esistenza a coltivare quattro campi grami, a spremere vino da un’uva avara, ad allevare poche bestie stente.
In quella terra dove bastava un nulla a varcare il labile confine fra la normale fame e la vera carestia, si viveva respirando la paura.
Col tempo, per chi non aveva una tempra abbastanza dura, arrivava ad affacciarsi la pazzia. Era una pazzia cupa, silenziosa, che traspariva dagli sguardi ogni giorno più vuoti, da gesti ripetuti con ossessiva e frenetica regolarità, da silenzi di gole strozzate dall’angoscia, silenzi che, talora, esplodevano in ululati, in ruggiti, più spesso in lunghi lamenti da bestia ferita.
Gli uomini avevano il vantaggio delle serate trascorse in osteria, dove, fra un fiasco, e un partita a carte, poteva trovar posto qualche sogno. Quando i sogni svanivano, ed il vino diveniva troppo amaro, menar le mani spazzava via secoli di rabbia, aiutava a sputare il fiele di rancori tramandati di padre in figlio, in molti casi lasciati come unica eredità.
Le donne, invece, trovavano salvezza, in gesti e riti di giorni sempre uguali, osservando, anche nel più insignificante degli atti quotidiani, regole antiche quanto il loro mondo, inesorabili come il mutare delle stagioni.
In quella landa dove un segno di bellezza diveniva un’ alieno turbamento, anche le stelle sembravano splendere meno, i fiori aprirsi con petali più smorti, ed i cuccioli giocare con giudizio.
Cesca imparò, a suon di calci e botte, a tener bassi quegli occhi troppo vivi, divenne abile ad evitare le mani pesanti della madre, le suole degli zoccoli del padre. Obbedì per anni, fino al giorno in cui, a messa, un raggio di sole si insinuò fra le vetrate, strette come feritoie, della piccola chiesa di pietra grigia, ed illuminò i ricci biondi del figlio del nuovo dottore del paese.
Catturata dal riflesso di quei capelli da angelo, Cesca, senza un grammo di prudenza, puntò il suo sguardo da gatta verso la nuca del ragazzo, che, sentendosi osservato, si volse indietro. Il verde chiaro degli occhi di Cesca incontrò il color grigio tempesta degli occhi di lui, un po’ allungati verso le tempie, un po’ scuriti da una cert’aria assorta, distante.
La ragazzina trasgredì per un minuto appena, quanto bastò per catturare fra le ciglia, subito riabbassate docilmente verso terra, il segreto di una luce color oro, che, di nascosto, rimase sua compagna, e colorò le sue grigie guance.
Per tutta l’estate, astuta e prudente come una bestiola, Cesca spiò il ragazzo, lo seguì da distante ogni volta che le sue già numerose incombenze domestiche le lasciavano un minuto libero. Quella campagna di colline aride e povere di acqua e di alberi offriva ben pochi nascondigli, ma la ragazzina li seppe trovare tutti. Nessuno la vide mai, tanto meno quel ragazzo, che passeggiava sempre da solo, e, quando trovava un filo d’ombra, si sedeva, estraeva di tasca un quaderno un po’ stazzonato ed un mozzicone di matita, e scriveva, a volte anche per ore.
All’inizio dell’autunno il ragazzo lasciò il paese. Studiava in città, lui, in città, dove avrebbe ricevuto una vera istruzione. In paese non c’era una scuola. I ragazzini imparavano a leggere ed a scrivere grazie alla misericordia del parroco, e, una volta cresciuti, spesso dimenticavano anche quel poco, tornavano a compitare le parole lettera per lettera, ad usare una croce come firma.
Cesca si alzò all’alba, e si appostò per vedere partire il calesse con il quale il dottore portava il figlio a prendere il treno. Calavano già le prime nebbie, e lei riuscì a distinguere solamente un’ ombra dai contorni vaghi, ed il rumore attutito degli zoccoli del cavallo. Sentì la voce del ragazzo, limpida, acuta, pronunciare parole concitate, forse di protesta. A Cesca parve di sentire il rumore di uno schiaffo, e la voce si interruppe di botto.
Tornando a casa Cesca già cominciava a contare i giorni che mancavano alla fine delle scuole, ed al ritorno del figlio del dottore. Tornando a casa già immaginava il treno tornare dalla città, lungo l’unico binario che tagliava la pianura a circa quindici chilometri dal paese. Già si figurava il ragazzo scendere alla minuscola stazione, salire sul calesse, mettersi un cappello per proteggere dal sole estivo la sua pelle delicata di biondo.
L’estate seguente lui ritornò, Cesca lo seguì da lontano ogni volta che poté, e, quando lui ripartì, lei, nuovamente, si alzò all’alba per lasciargli un saluto segreto, ed una silenziosa preghiera di augurio.
A giugno dell’anno dopo, quando il dottore preparò il calesse, Cesca faticò a celare la propria gioia. Quella volta, però, con il dottore salì anche la moglie, che si portava appresso una catasta di bagagli così voluminosa da lasciare appena posto per sedersi.
Cesca si permise anche un sorriso, alzò le palpebre a scoprire totalmente il verde degli occhi. La partenza della moglie del dottore era un avvenimento che catturava tutta l’attenzione dei curiosi, e nessuno, in quel momento, badava alla ragazza ferma accanto al lavatoio dei panni.
La moglie del dottore era una donna malaticcia, melanconica, così raccontavano le donne del paese che venivano chiamate, ogni tanto, per pulire la casa, per lavare i panni. Era una donna strana, che passava le giornate fra la poltrona ed il divano, leggiucchiando, ricamando mille lavori che non finiva mai, o, semplicemente, appoggiata al davanzale della finestra, guardando chissà dove. A volte si sedeva di fronte ad un piccolo scrittoio, scarabocchiava poche righe con grafia grande e disordinata, poi appallottolava il foglio con un gesto stizzito. Dal primo giorno in cui era arrivata in paese, a nessuno risultava che avesse mai spedito lettere.
Cesca attese, custodendo la propria gioia all’ombra delle palpebre abbassate, calcolando i tempi per andare e tornare dalla stazione, chiedendosi se il ragazzo fosse cresciuto, cambiato.
Mentre, per l’ennesima volta, stava ripercorrendo mentalmente ogni metro dei sentieri lungo i quali usava seguire i figlio del dottore, mentre, per l’ennesima volta, individuava ogni angolo adatto a nascondersi per spiarlo, la ragazza vide entrare il calesse nella piccola piazza del paese.
Il dottore, questa volta, era tornato solo.
Cesca, quell’estate, usò le proprie tane segrete per trovare rifugio e solitudine quando il dolore, nei momenti più inaspettati, la graffiava come un gatto impazzito, quando la sola idea di non rivedere mai più il figlio del dottore le pesava come un sudario stretto e soffocante, facendola sentire già fredda, già morta.
Aveva poco tempo, oramai, per frequentare quei nascondigli. Avrebbe compiuto quindici anni il giorno di San Francesco, ed i suoi compiti in casa, e nei campi, erano divenuti numerosi e gravosi come quelli di una donna fatta.
Una donna fatta, glielo ripeteva la madre, una donna fatta, glielo dicevano gli sguardi degli uomini che, ultimamente, scivolavano sul suo corpo quando lei passava loro accanto. Quel nuovo corpo, a Cesca, creava disagio, quando lo vedeva arrotondarsi ogni giorno di più in punti che il parroco proibiva di nominare. Quel nuovo corpo, a Cesca, creava imbarazzo, quando, ogni mese, la affliggeva con perdite di sangue. Quando queste erano comparse la madre di Cesca aveva semplicemente spiegato che, da quel giorno, per Cesca sarebbe stato possibile avere dei figli. Aveva anche avvertito la figlia di fare attenzione a non rispondere agli sguardi degli uomini, a non parlare loro, a non farsi mai sorprendere da sola. Gli uomini sono delle bestie, aveva detto, breve, senza aggiungere altro.
Quando Cesca si chiedeva se anche il figlio del dottore fosse una bestia, quel suo nuovo corpo le trasmetteva sensazioni dolci come il vin santo, che, una volta, aveva trovato incustodito, ed aveva assaggiato di nascosto.
In paese si diceva che la moglie del dottore aveva trovato casa in città per seguire il figlio negli studi, e nessuno si permise altre ipotesi, o maligne insinuazioni. Il dottore era un uomo rispettato, autorevole, sempre cortese, anche se di poche parole, e di ancor meno sorrisi.
Anche quando apparve evidente che la moglie ed il figlio del medico non sarebbero tornati a stare in paese, nessuno osò nemmeno lontanamente affibbiargli quella patente di cornuto, che, per gli uomini nati e cresciuti in quel paese, era un’onta riscattabile unicamente col sangue dell’adultera, e dell’amante di lei.
Cesca, durante quell’estate alla quale pensava di non riuscire a sopravvivere, si aggrappò all’ottusa tenacia ereditata da generazioni di donne dure e chiuse come sassi, e, pian piano, si rassegnò a dire addio a quel ragazzo con il quale aveva scambiato un solo sguardo.
Ben sapendo che quei bei capelli, quel viso intenso, quella figura snella, erano tornati dietro la barriera dei confini di un paradiso a lei vietato, la primavera seguente Cesca andò sposa ad un uomo del paese, anche lui grigio, zolla fra le zolle. Già dalla prima notte di nozze comprese perché sua madre le aveva detto che gli uomini erano delle bestie.
A ventun anni aveva già tre figli, e le sue mani, un tempo morbide e belle, erano già callose, piagate dal lavoro. A ventun anni il suo unico piacere era dare la buonanotte alle stelle.
Una notte, in cui lei, cauta, bene attenta a non destare i dormienti, uscì di casa a respirare il cielo, intravide un’ ombra fra le ombre. Un uomo, giovane dal passo, camminava lungo il sentiero che scendeva verso la pianura, portando una voluminosa valigia che non sembrava essergli di alcun peso.
Quando l’uomo arrivò su un tratto di sentiero illuminato dalla luce della luna, Cesca riconobbe il figlio del dottore. Tutto il paese già sapeva, che lui stava partendo per le vie del mondo, dopo una feroce lite con il padre, che aveva fatto tremare le finestre, e per i pettegoli era stata una delizia. A quanto pareva, a ventitrè anni il ragazzo non era nemmeno a metà degli esami che gli servivano per laurearsi, e, in città, menava vita scioperata, frequentava artisti, poeti, addirittura circoli di sovversivi. A quanto si diceva il padre lo aveva convocato per imporgli un irrevocabile ultimatum, che il giovane aveva rifiutato, urlando, con voce che si era sentita anche attraverso i vetri chiusi, che lui non intendeva divenire un infelice come sua madre.
Cesca, non appena aveva saputo che lui, dopo anni, era tornato, aveva evitato di passare per il centro del paese, e di ascoltare i dettagli delle chiacchiere, già diffuse fino alle case più distanti dal paese, ed arrivate in parte anche a lei. Rivedere quel giovane, farsi raccontare troppo su di lui, avrebbe riportato alla luce sentimenti che, come la brace ancora viva, covavano, insidiosi, sotto gli strati di cenere con i quali lei li aveva ricoperti.
Avesse voluto, alla vista del figlio del dottore Cesca avrebbe potuto rimanere nascosta, lasciando che il giovane proseguisse per la propria strada, ma si avvicinò al sentiero per vedere meglio colui che ricordava adolescente, ed ora era divenuto un uomo, giovane, forte, bello. Si avvicinò per guardarlo per l’ultima volta, prima che lui scendesse dalle colline verso luoghi di cui lei non conosceva neppure il nome, verso luoghi di cui lei neppure sospettava l’esistenza, verso luoghi dai quali non sarebbe tornato mai più.
Quest’ultima consapevolezza abbatté, di colpo, tutte le difese costruite da Cesca in anni di fatiche.
La giovane donna avanzò, e si fermò al centro esatto del sentiero. Il figlio del dottore la vide comparire d’improvviso, come scaturita dalla terra, o scesa dalle stelle. Alla luce della luna, Cesca, anziché grigia, sembrò fatta d’argento. La pelle di lei era del colore di quella delle fate, gli occhi erano verdi, come quelli delle gatte.
Cesca masticò un saluto timido, stentato, e si fece da parte, aspettando che il giovane, dopo averle risposto come cortesia comanda, passasse oltre.
Lui, invece, si fermò, e le parlò. Voleva viaggiare, così lui disse, voleva scrivere versi e libri, così lui raccontò a quella donna strana, che riusciva a carpirgli quella confessione così intima solamente guardandolo in viso con quegli occhi da gatta, che spiccavano su quel viso minuto, un po’ scarno ed irregolare, un viso da folletto.
Le parlò, e fu gentile. Le disse frasi che lei non afferrò del tutto. Parlò di incontri di due anime, di unioni al di fuori delle regole, al di fuori dello scorrere del tempo, in grado di sopravvivere a qualunque distanza. Mentre le parlava l’abbracciò, poi la baciò sulle labbra, infine la distese sull’erba umida.
Su quel letto d’erba argentata dalla luna, lui la prese. La prese per cacciare la paura dell’ignoto che lo attendeva al far dell’alba, la prese perché nessuna donna l’aveva mai guardato con tanto amore. Lei gli si donò, scoprendo che non tutti gli uomini sono bestie, ed accogliendolo come un regalo inaspettato, da conservare nel regno delle fiabe. Al far dell’alba il figlio del dottore riprese la strada verso la pianura, senza nulla chiedere a Cesca, e senza nulla prometterle. Al far dell’alba lei lo lasciò andare, come si lasciano andare, al risveglio, i sogni più belli.
Qualche tempo dopo, nell’ora più buia di una notte insonne, un lieve colpo al ventre riportò Cesca fra le grigie zolle.
Il bambino, fin dal primo giorno, parve a tutti troppo bello, troppo biondo, ma la fortuna aveva consentito che nessuno, nel corso di quella notte che ormai, a Cesca, pareva passata da secoli, avesse visto o udito alcunché. Ogni ombra di sospetto, se mai ce ne furono, morì sul nascere.
Colui che fu creduto padre di quel meraviglioso neonato, ben si guardava anche solo dal toccarlo, preso da un sordo senso di ripulsa, che placava solamente all’osteria, brindando, con artefatta gioia, alla nascita del suo quarto maschio.
Mesi più tardi dovette simulare almeno un’ombra di dolore e pena, quando il bambino, senza tosse, senza febbre, senza accusare alcun tipo di malanno, appassì, come un fiore nato in un terreno troppo arido per nutrirne i colori e la bellezza. Dopo qualche settimana di quell’inspiegabile ed inesorabile declino, il piccolo chiuse gli occhi per sempre, abbassando le palpebre con la lentezza e la stanchezza di uno stelo che si piega.
Dopo un anno, quattro stracci in un fagotto, il marito di Cesca partì, senza dare spiegazione alcuna, senza capirne lui stesso la ragione, senza porsi, né porre a Cesca delle domande che lo avrebbero costretto a commettere un delitto. Man mano che crescevano abbastanza, anche i tre figli si misero in cammino, tutti e tre poco dopo il loro quindicesimo compleanno, tutti e tre senza sapere bene perché.
In quel paese talora capitava che gli uomini, sperando in un destino più felice, prendessero la via delle città più grandi, persino di terre assai lontane, oltre il mare.
Alcuni, molto pochi invero, tornavano orgogliosi con un gruzzolo che risollevava le sorti della famiglia, e, all’osteria, ravvivavano le serate con i racconti delle loro avventure, con le descrizioni dei luoghi esotici che avevano conosciuto.
Altri, e questi erano già di più, tornavano, a volte anche dopo anni, di notte e di nascosto come ladri, con addosso stracci ancora più logori di quelli con i quali erano partiti, e le tasche vuote. All’osteria sedevano, soli, in un angolo, bevendo qualche bicchiere di vinaccio aspro, offerto da qualcuno per pura pietà. Rimanevano, comunque, per ore ed ore, consapevoli di essere divenuti solamente un peso per le loro famiglie, ben poco ansiosi di tornare in case dove venivano accolti da visi corrucciati, o da aspri commenti.
Altri ancora, invece, semplicemente non davano più notizie di sé, forse perduti per sempre nella vasta pianura ai piedi di quelle colline, forse inghiottiti dal mare, che di quella pianura segnava il confine. I loro cari coltivavano dapprima ostinate speranze, poi dubbi ogni giorno più tormentosi. Si arrendevano, infine, al dolore, ed alla progressiva rassegnazione per una perdita che non avrebbe mai trovato prove, o conferme, e non avrebbe lasciato loro nemmeno una salma da seppellire.
Il marito ed i figli di Cesca, agli occhi del paese, fecero parte di questi ultimi, e lei, nonostante fosse rimasta sola, e quasi senza mezzi, considerava la loro partenza come una giusta, punizione, anche troppo mite per ciò che aveva commesso. Ogni giorno si recava in chiesa, e dedicava loro una preghiera. Subito dopo, ogni giorno, piovesse, gelasse, o nevicasse, lei si recava al cimitero per salutare, quel bambino che non era nemmeno vissuto abbastanza da imparare a chiamarla “mamma”.
Fino ad allora, nonostante tutto, Cesca era rimasta immune da qualunque pettegolezzo, ma le lingue iniziarono a guizzare con gran gusto quando il postino, ogni anno o due, prese a portare un libro impacchettato a quella donna, che, come quasi tutti, sapeva a malapena sillabare.
Ricordarono che lei, qualche tempo prima, era scesa in città per qualche giorno, a fare che, nessuno mai lo seppe, forse a cercare marito e figli, sicuramente a fare acquisti scriteriati.
Non poteva che chiamarsi scriteriata una donna, sola, e quasi vecchia, che per campare andava a lavar panni, e che, neanche fosse un professore, dava soldi alle librerie.
In ogni caso tutti s’erano persi lo spettacolo della faccia del libraio alla vista di una magra contadina, che, di fronte ai clienti tutti, aveva fatto il nome dell’autore in quel momento più venduto, domandando, perché non ne era certa, se un uomo con quel nome e cognome fosse, nella vita, divenuto uno scrittore.
Il libraio aveva spiegato, altezzoso, che il figlio del dottore era uno degli astri della letteratura contemporanea, un prodigio fin dal primo libro.
La contadina non aveva domandato altro. Aveva comprato seduta stante l’ultimo romanzo, appena uscito, del famoso scrittore, pagandolo con una manciata di monete pesanti e sudaticce, ed aveva ordinato, con spedizione contrassegno, ogni titolo pubblicato dall’autore, quelli già usciti, ed anche quelli futuri, beninteso.
Il libraio, malvolentieri, aveva messo l’elegante volume, finemente rilegato, fra le mani scure e ruvide di quella campagnola dagli occhi di gatto randagio. Nessuno dei suoi colti e sofisticati clienti aveva mai guardato un libro con tanta gioia, con tanta commozione, nessuno, mai. Incuriosito, a sua volta, e suo malgrado, commosso, si era sobbarcato l’impegno di inviare i libri in quel paese a casa del diavolo.
In paese, ogni giorno, si vedeva Cesca portarsi uno di quei libri al cimitero, ma tali luoghi esigono rispetto, e nessuno si permise di avvicinarsi tanto da ascoltare ciò che lei scandiva lentamente vicino alla tomba di suo figlio. Cesca, di giorno in giorno sempre più sicura e svelta, leggeva quelle frasi spesso troppo difficili per lei. Le leggeva a mezza voce, come fossero favole, favole anche per lei stessa, perché, e questo lo aveva capito bene, la maggior parte delle protagoniste di quelle storie aveva gli occhi verdi, occhi verdi, scriveva il figlio del dottore, come quelli delle gatte.
Qualcuno, passando a tarda sera, vedeva, una luce attraverso la finestra di Cesca, che, invece di una misera candela, accendeva, inaudito lusso, ben due lampade a petrolio.
Quell’adulterio, oramai così lontano, non fu mai scoperto, ma Cesca si fece comunque brutta fama, quella di esser persona stravagante, che non portava rispetto alla miseria.
Soltanto l’oste, uomo attento agli affari del proprio locale, scambiava con lei qualche parola, comprandole, ogni tanto, qualche pollo, o due conigli, o un cestino d’uova, roba buona, lui diceva, fresca e saporita.
La mattina che Cesca compiva cinquant’anni, senza che alcuno se ne fosse rammentato, lei entrò, un sabato mattina, in osteria. Portava, in una capace cesta, le solite consegne, e trovò, riuniti attorno al banco, quasi tutti gli uomini del paese.
L’oste leggeva, con piglio da oratore, l’articolo di un noto quotidiano, e gli astanti, attenti e concentrati, ascoltavano con interesse la descrizione di un fastoso matrimonio.
Quando l’oste lesse il nome dello sposo, Cesca trasalì, lasciò cadere tre uova. Quando l’oste lesse il nome dello sposo, lei trasalì, e si sentì morire, e chiuse stretti i suoi occhi verdi.
Li chiuse stretti, e si chinò a pulire, mentre l’oste, lesto, detraeva, il costo di tre uova dal compenso, li chiuse stretti e si morse a sangue l’interno della guancia per non svenire.
Cesca si rese conto in quell’istante che, contro ogni legge del buon senso, una parte di lei aveva sperato che, un giorno, il figlio del dottore tornasse al paese, che tornasse per rivederla, per amarla ancora come quella notte perduta nel buio del passato.
Finalmente metterà la testa a posto, sentì dire Cesca, avrà ben passato i cinquant’anni, avrà ben corso la cavallina, era proprio ora che prendesse moglie.
Cesca si rialzò, lenta, vecchia, mosse qualche passo esitante verso la porta, oltre la quale la attendeva un futuro che lei, in quel momento, immaginava solamente come una lunga e deserta attesa della morte.
Stava per uscire dall’osteria, quando una frase le trafisse la coscienza, una frase le carezzò il cuore, le restituì il fiato, il sangue, e l’anima.
Lei, la sposa, l’unica prescelta, dopo tante amanti ed avventure, lei, la sposa, l’unica prescelta, era bella, ed aveva gli occhi verdi, occhi verdi, scriveva il giornalista, occhi verdi, come quelli delle gatte.
Occhi verdi come i miei, si ripeteva Cesca, tornando a casa, occhi verdi come i miei, come i miei, come i miei. Ed il suo passo, ritmato da quelle parole, era tornato svelto e spavaldo come quello di una ragazza.
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0 recensioni:
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- Te l'ho appena scritto commentando una tua poesia.
Ti nvidio Laura... e ti ammiro.
- Una bellissima storia scritta anche molto bene!!! Peccato, non c'è lieto fine... ma, ti lascia un qualcosa dentro!!!!! BRAVA!!!!
- Bellissimo racconto, dove vince la passione, dove la povertà arriva seconda o terza o anche più in là. Davvero brava. L'ho letto tutto d'un fiato.
- Scritto molto bene, Laura. "Uno sguardo" mi è piaciuto di più ma questo è più elaborato, più "letterario", in un certo senso.
- Mi inchino alla scrittrice. Lo stile, la trama, il ritmo... intriga, incuriosisce, appaga.
Brava Lauretta. Risentiamoci.
Simona
- È bellissimo Laura! Hai uno stile accattivante, l'ho letto d'un fiato senza riuscire a fermarmi. Mi piacciono i colori che spiccano fra le sfumature di grigio... e le metafore che essi evocano! Grazie e... a rileggerti presto! Ciao
- BELLISSIMO! GRAZIE.
- Il commento precedente non è di tiba cabral, ma di Claudio Amicucci. Spesso usiamo lo stesso PC e l'ID rimane in memoria. Ciao Claudio
- calcolando la medie dei voti ricevuti, dopo un bel 10, di cui ringrazio, ho rimediato un 3, non accompagnato da alcuna motivazione. Dato che cerco, per quel che posso. di migliorare la mia scrittura, preferisco una critica costruttiva e circostanziata. Tali pareri sono, anzi, i benvenuti.
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