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La fortezza
Credo fu quando ero in cerca dell’antica città di Ninive, che mi imbattei in quell’immensa costruzione solitaria, confine tra questo mondo e un altro a me sconosciuto.
Credo, perché a volte i miei ricordi si confondono e si mescolano, non fosse altro per la smania di averne sempre dei nuovi. Nuovi spunti, nuovi orizzonti, nuovi territori, nuove conoscenze. Ero da pochi giorni in quella terra, in prossimità del fiume Tigri, in compagnia di una ragazza conosciuta nel mio viaggio immediatamente precedente - almeno così mi sembra. Julie... Julie era bella, aveva un sorriso sereno, lontano dall’inquietudine che spesso attraversava i miei pensieri, veniva dalle sponde della Costa Azzurra e andava non so dove. Ci eravamo incontrati sul confine tra una terra e un’altra?" scusatemi ancora, ma non ricordo dove - e avevamo deciso di proseguire insieme. Le avevo vagheggiato di Ninive, antico teatro d’un tempo lontano e d’un’ epopea stupefacente*, e lei aveva condiviso la mia scelta di farvi visita. In cerca di cosa? Non lo ricordo e non importa. Decidemmo e ci avviammo. Incontrammo la gente dei villaggi di quella terra (mi piace sempre chiamarla Mesopotamia), popoli tranquilli e laboriosi, ma con retaggio guerriero, dediti alla prole e orgogliosi delle proprie radici.
I capi dei villaggi ci dissero di stare attenti, da quelle parti ogni tanto passavano gli americani, facevano minuziosi controlli e ripartivano, ma la loro presenza era sempre nell’aria. Gli americani... penso. Non c’è luogo dove non siano passati i cosiddetti gendarmi della terra. L’ultima cosa a cui volevo pensare erano proprio gli americani; se li avessimo incontrati, li avremmo cortesemente ignorati, a meno che non fossero loro a non ignorare noi. Ad ogni modo, io e Julie eravamo altrove, con la testa già a Ninive. Sembra strano, ma nessuno sapeva dirci con precisione dove riposassero le antiche rovine della città, noi pertanto proseguimmo seguendo sensazioni e suggestioni della terra che pian piano ci lasciavamo dietro, consultando saltuariamente un piccolo volume che ripercorreva i fasti dell’epopea di cui prima ho fatto cenno. Ogni tanto, dalle nostre postazioni, avvistavamo in lontananza le sagome dei carri armati. Erano sicuramente gli americani: chi mai avrebbe potuto venire in gita da queste parti con un carro armato? Sapevamo bene che non erano in gita, ma preferimmo pensare a queste strambe motivazioni, per rendere il nostro viaggio meno inquieto possibile. Sarà strano, ma non avemmo mai contatto diretto con loro (da quelle parti era quasi un miracolo che ciò avvenisse), come se la luce di una stella guida ci proteggesse. La stella guida ci evitava gli americani, ma ci nascondeva Ninive, fin quando arrivammo alle soglie d’una sorta di deserto. Provai a gettare lo sguardo in lontananza da una duna, ma nulla. Ninive dove sei? Si chiedeva la mia anima inquieta - Julie, cara Julie, ti porto dolce nel mio ricordo. Julie mi esortava a non disperare, lei aveva capito immediatamente come prendermi, mi rasserenò ancora una volta, quella notte. Al mattino, convinti della direzione, ci spingemmo verso l’ultima zona di confine. Ninive doveva essere li. Sotto il sole cocente del mezzogiorno estivo, arrivammo alla vista dell’ultimo scorcio di terra possibile. Scorgemmo una costruzione in lontananza, ed io esclamai: “Julie, amore mio (volevo chiamarla amore), quella è la porta di Ninive”. Julie, come suo solito, mi sorrise. Solcammo gli spazi, coprimmo le distanze tra noi e ciò che ci apparve Ninive in un lasso di tempo che, ancora oggi, a ripensarci, non riesco a quantificare. Ma più ci avvicinavamo e più ci rendevamo conto che quell’immensa costruzione era unica e solitaria. Ecco. Eravamo arrivati. Davanti a noi si erigeva qualcosa a cui non avremmo potuto dare nome, larga non so più quanto e con una punta rivolta al cielo. Sconcertato dissi a Julie: “Ma dove siamo capitati?” Julie vibrò della sua piccola e contenuta emozione e mi disse: “Non lo vedi? È un’antica fortezza sumera, credo”.
Mi ricordai allora di aver letto Buzzati: anche lui, in un diverso tempo e un diverso luogo, parlò di una fortezza solitaria e inespugnabile **. Decidemmo di restare, aspettando il tramonto. Un cielo estivo, dipinto di colori cangianti, improvvisamente abbracciò l’immagine di noi due seduti di fronte ad un’antica fortezza, immortalando come una istantanea, l’immagine cristallizzata di quel tempo. Quel breve tempo passato con la dolce Julie. Un tempo al confine tra questo mondo ed un altro di cui non so. So soltanto che oramai non dimentico e non confondo i miei ricordi, né il dolce viso di Julie che mi sorrideva al tramonto di un’estate.
* L’Epopea di Gilgamesh. Fu la prima epopea che la letteratura epica ricordi, millecinquecento anni prima dell’Iliade di Omero.
** La costruzione di cui parlo è la Fortezza Bastiani, descritta nel più famoso romanzo di Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, e cantata da Franco Battiato nell’album Dieci stratagemmi. Le stesse suggestioni sono state seguite da Buzzati nel brevissimo racconto Le mura di Anagoor, contenuto nei Sessanta racconti.
(Inverno 2004)
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- L'epopea di Gilgamesh è stata anche ripetutamente saccheggiata nei secoli successivi. Buono il racconto
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