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Vocabolario
Reazione morbosa che l'organismo di un individuo può manifestare nei confronti di alcune sostanze alimentari o medicinali
per est. intolleranza, avversione verso qualcosa o qualcuno.
“E bisogna dire idiosincrasia per esprimere che non puoi vedere qualcuno?”.
A Francesco venne naturale pensarlo, mentre richiudeva quell’immenso vocabolario coperto dalla polvere, ripescato da uno di quegli scaffali della sua libreria, che ti abitui a vedere nella sua interezza, dimenticandoti dei tomi che accoglie al suo interno.
Aveva sbuffato non poco quando aveva scoperto che proprio quel giorno non gli funzionava internet. Chissà per quale motivo. Non ci capiva niente di quella robaccia tecnologica né voleva capirci. Semplicemente usava internet per pigrizia, per fare ciò che un tempo si faceva a mano. Consultare tragitti, vocabolari, ricette. La sua libreria era diventata un ricettacolo di abbandono e dimenticanza. Il pensiero della lanuggine gli aveva causato un ulteriore sospiro. Ma non poteva assolutamente continuare quel libro fantasy che tanto lo appassionava se prima non avesse scoperto che cosa volesse dire quella parola. Idiosincrasia. Aveva perso il filo della narrazione tanto gli risultava insolito quel termine nel contesto di Mezzelfi e creature magiche. Purtroppo era fatto così. Una curiosità viscerale che gli faceva perdere del tutto la concentrazione e lo obbligava a ricercare quella parola sconosciuta fino a quel momento. Ma non perchè non riuscisse a capire il senso del periodo, oltre alla comprensione del testo c’era una sua volontà segreta di conoscere tutte le sfumature della lingua italiana per farle proprie ed utilizzarle a sua volta. Un giorno la sua professoressa di italiano aveva affermato che non esistevano sinonimi: ogni parola aveva un suo preciso significato, una sua etimologia ed un contesto in cui inserirla. Lo aveva lasciato alquanto perplesso quel postulato; ma pochi giorni dopo sua madre durante un temporale disse “Hai sentito che lampo?”. Senza pensarci la corresse “Mamma, quello era un tuono. Il lampo si vede, il tuono si sente.” “È la stessa cosa, non fare il pignolo!”
Ed allora aveva capito. Era lì che aveva sviluppato quell’amore ormai raro per il linguaggio. Molti lo usavano come mezzo, per lui era un obiettivo. Spesso da adolescente si era ritrovato ad essere preso in giro dai suoi coetanei perchè usava normalmente nei suoi discorsi termini come “inflazionato” o “palese”.
Ma era anche grazie alla sua proprietà di linguaggio che aveva conquistato la sua metà, con cui ora era felicemente sposato ed amava follemente.
Il suo flusso di coscienza lo aveva portato a pensare proprio a lei quando casualmente Laura rientrò a casa. Sentì che schiavava goffamente la porta di casa, probabilmente perchè aveva le mani occupate dalle buste della spesa. Di solito si precipitava ad aiutarla. Ma quella volta rimase inchiodato alla scrivania che si era impolverata a causa del vocabolario vecchissimo.
Sentì dall’ingresso un mugolio di fatica estrema. “Amore?? Sei in casa? Mi viene a dare una mano?”
Ma Francesco non si mosse.
Anzi, era quasi certo di sentire qualcosa alla bocca dello stomaco, che non aveva mai provato.
“AMORE??”
Ora ne era certo. Provava fastidio per quella voce melodiosa. Quella voce che amava. O almeno che credeva di amare.
Sentì il rumore delle buste della spesa. “Sicuramente avrà comprato quelle dannate boccettine di profumo. Soldi buttati. Maledetti pure voi del supermercato, che le mettete vicino alle casse e gli idioti come Laura ci si gettano sopra a capofitto. Certo, tanto c’è il maritino che porta i soldi a casa no?”
Pensando queste cose non si era accorto di aver stretto i pugni. Poi passi rapidi.
E una faccia conosciuta sulla soglia dello studio: “Amore ma non mi aiuti?”
Nella voce della moglie c’era quanto di più dolce ci potesse essere in un focolare familiare, era una domanda bonaria, di curiosità, non di rimprovero. Ma a Francesco parve insopportabile.
Cominciò vorticosamente a pensare che lavorava tutto il giorno e quell’arpia pretendeva anche che la aiutasse in un compito idiota come sistemare la spesa.
Strinse talmente tanto i pugni che si riscosse dai suoi pensieri. Scattò in piedi e trafisse la consorte con uno sguardo talmente insofferente che alla moglie salirono involontariamente le lacrime agli occhi.
“Francesco che cos’hai? Vieni qui..”
Quella nota tremante della voce di Laura, l’insicurezza di un rapporto meraviglioso che finiva lo infastidì a tal punto che dovette letteralmente scappare da quella stanza.
Prese il soprabito ed uscì di casa, senza dare spiegazione alcuna.
Passò il resto della giornata a pensare a quante cose non sopportasse della moglie, senza domandarsi il perché da un momento all’altro i suoi sentimenti fossero mutati a tal punto.
Fece notte in uno squallido bar di periferia, non voleva tornare a casa per condividere il letto con la persona che al momento meno poteva soffrire al mondo.
Cercò di distrarsi guardando la televisione che era accesa abbandonata dallo sguardo di tutti. C’era un quiz televisivo. L’audio era coperto dal chiacchiericcio del locale, ma poteva leggere la domanda: cosa vuol dire “apotropaico”.
Dagli improperi del concorrente capì che doveva aver sbagliato la risposta.
Ma qual’era la risposta?
Un altro termine che non conosceva. Provò il desiderio irrefrenabile di tornare a casa a svelare il mistero.
In punta di piedi tornò di nuovo nel suo studio: il vetusto vocabolario era ancora aperto alla pagina della mattina. Sfogliò con decisione le innumerevoli pagine e alla fine lo trovò, apotropaico. Scoprì che era un termine di origine greca, un aggettivo che indicava la scaramanzia, uno scongiuro. Rise tra sé immaginando Aristotele che toccava ferro o le sue “pudenda”. Immagine sicuramente inverosimile. Non era superstizioso ed era certo che un popolo colto come i greci lo fossero. Guardò l’orologio.
Mezzanotte e dieci.
Sentì dentro di sé un incredibile desiderio di riabbracciare la moglie.
Cosa gli era accaduto prima?
Corse in camera da letto e vide che aveva pianto, dagli occhi gonfi e dai fazzoletti sul comodino. La abbracciò e la baciò con delicatezza sulla fronte. Non voleva svegliarla, aveva bisogno di quel sonno. Domani si sarebbe fatto perdonare.
La sveglia suonò alle 6 e mezza. Doveva sbrigarsi se voleva arrivare puntuale a lezione. Si alzò silenziosamente, guardò affettuosamente Laura e andò a prepararsi il caffè.
Mentre la macchinetta scaldava il suo contenuto guardò il santo del giorno, vecchia abitudine.
Venerdì 17 Novembre.
Il suo respiro si fece immediatamente affannato.
Andò letteralmente nel panico, indietreggiò e sentì che urtava qualcosa.
Rumore di vetro. Si girò inquieto.
La boccetta di sale giaceva frantumata ai suoi piedi.
Non riuscì a trattenere un urlo stavolta. Si chinò istintivamente, ne prese un pizzico e lo buttò dietro la spalla sinistra.
Si calmò.
Il suo corpo si era mosso da solo.
Che diavolo gli stava succedendo?
Un pensiero gli venne alla mente, ma lo scacciò subito. Da quando aveva preso quel vocabolario non rispondeva più delle sue azioni. Corse a prepararsi pensando che si fosse auto-condizionato.
Tornato in camera vide che la moglie gli aveva preparato la sera prima il completo da indossare quel giorno, come ogni giorno. Un completo bellissimo. Ma con la cravatta viola.
Storse la bocca. Quel giorno non avrebbe indossato la cravatta. Cercò una spiegazione per la sua superstizione improvvisa, ma tutte le ipotesi riconducevano a una sconcertante quanto inverosimile verità. Il vocabolario lo condizionava.
Uscì di casa ed arrivò al liceo ossessionato da quel pensiero. Era leggermente in ritardo, ma nessuno gli avrebbe detto niente, poteva ancora farcela.
Poi un maledettissimo gatto nero attraversò la strada. Passando da sinistra. Inchiodò d’istinto. Pioveva e l’acqua non facilitò la frenata. Vide la macchina dietro avvicinarsi pericolosamente. Chiuse gli occhi. Se l’era cavata. Non si accorse però che stava stringendo con veemenza il cornetto attaccato allo specchietto retrovisore. Ma quando ne fu conscio ringraziò immensamente quell’amuleto. Gli improperi arrivavano prepotenti da dietro per la sua brusca frenata. Ma lui non si sarebbe mosso da lì. Non fino a quando qualcuno non avesse annullato la jella del gattaccio nero passandoci per primo.
Voleva, ma il corpo non rispondeva. La sua mente sapeva benissimo che la superstizione derivava dal fatto che nel medioevo i gatti neri facevano sbandare i carri mimetizzandosi nella notte e spaventando i cavalli. Ma non poteva veramente muoversi. Poi un motorino lo sorpassò e finalmente poté lasciare il cornetto che gli aveva regalato per scherzarlo un collega.
Era nel panico.
La lezione fu un incubo. Tutti gli studenti puntualmente entravano con l’ombrello aperto e ogni volta la sua mano correva in gesti scaramantici, preoccupandosi di non farsi vedere sotto la scrivania. Era una specie di tic. Gli studenti se ne accorsero e approfittarono della sua debolezza aprendo continuamente gli ombrelli durante la lezione con qualche scusa.
Tornò la sera tardi a casa, aveva evitato tutti gli specchi, tutte le scale aperte, tutte le cose che portavano sfortuna. Ed era sfinito. Non aveva voglia di parlarne con la moglie, era distrutto psicologicamente. E gli piangeva il cuore, perchè la vedeva rabbuiarsi in viso.
Ma adesso aveva capito. Non sapeva per quale astruso motivo quel vocabolario lo influenzasse a tal punto. Forse era magico o fatturato, forse era per la sua maniacale ricerca del sapere. Non gli importava. Adesso sapeva come batterlo. E sfruttarlo a suo vantaggio.
Corse dopo cena nello studio. Nessuno lo aveva toccato.
Con un sorriso sornione andò a cercare una parola che aveva bene in mente: Ricco.
Lesse soddisfatto il significato. E per completare l’opera e bilanciare quella giornata lesse anche Fortunato.
Ed andò a dormire con la sicurezza del giocatore di scacchi che muove la pedina dello Shah Mat.
Si svegliò aspettando che squillasse il telefono con qualche compagnia che gli annunciava una grossa vincita o un viaggio alle Comore. Magari il suo agente di borsa che lo informava che le sue azioni erano salite alle stelle.
Niente.
Camminò tranquillo sapendo che era troppo presto perchè qualche munifico ente lo rendesse felice.
Ma il sospetto che il suo piano fosse fallito cominciò ad instillarsi in lui, come una tortura cinese. Una goccia che cadeva lentamente.
Per tutto il giorno.
Non accadde assolutamente nulla. Il suo sguardo vagava inquieto sui marciapiedi alla ricerca di qualche portafoglio smarrito, comprò addirittura un gratta e vinci.
Non era né più, né meno fortunato del reso della sua vita.
La tortura cinese fece effetto e alla fine il sospetto divenne certezza e il senso di aver fallito lo oppresse come un macigno.
Poteva supporre che il vocabolario non funzionava sulle parole che già conosceva.
Oppure stava semplicemente diventando pazzo. Effettivamente fermandosi a ragionare quella situazione non aveva nulla di credibile. Ma la tentazione di una vittoria facile su quel dannato ammasso di carta non lo fece desistere dal suo intento.
Tornò a casa, non salutò, non cenò, corse diretto allo studio, in preda a uno spasmo maniacale.
“Cosa posso cercare che mi faccia guadagnare o avere ogni bene possibile.. Bene, buono, munifico, presente, dono, ricco, ricchezza, nababbo.. Come diavolo posso pensare a una parola che non so???” Decise di cercare una parola che contenesse il termine “soldi”, forse sarebbe stato fortunato.
Non trovò nulla, ma lo sguardo cadde su “solipsistico”. La definizione del lemma era decisamente lapidaria.
esasperatamente egoista o egocentrico
“Merda”.
Lo aveva letto. Era troppo tardi.
Sapeva cosa lo avrebbe aspettato il giorno dopo.
Laura dopo 3 giorni di indifferenza o comportamenti strani del marito non poté rimanere indifferente. Specialmente quel giorno era decisamente strano il marito. Insopportabile. Rispondeva male a tutte le domande o a mezza bocca, era stata svegliata da delle mani prepotenti che la palpavano. Avevano fatto sesso, non l’amore. Lui l’aveva posseduta con violenza e obbligandola a fare cose che mai avevano fatto. Perchè si comportava così? Non era neanche andato a lavoro, lui che era così ligio al dovere! Si era gettato sul divano con la birra in mano, a vedersi chissacosa, non si era vestito, non si era fatto la doccia, aveva mandato a quel paese un vicino che gli chiedeva cortesemente di spostare la macchina che ingombrava il passaggio nella via.
Sembrava pensasse solo a sè stesso.
Le lacrime salivano prepotenti agli occhi mentre preparava la valigia. Lo amava alla follia e fino a qualche giorno prima era certa che fosse ricambiata. Forse era una cosa passeggera, ma così non poteva tollerarlo. Doveva andare via. Aveva provato a dirgli qualcosa, ma lui si era chiuso nello studio con quel vocabolario preso dallo scaffale. Sembrava quasi provasse più interesse per un pezzo di carta che per lei. Eppure nello sguardo di Francesco c’era un che di supplichevole, che le chiedeva scusa. Ma i fatti parlavano chiaro. Doveva andarsene. Se veramente teneva a lei, se quello sguardo era sincero sarebbe tornato da lei.
Francesco sentiva la moglie preparare la sua partenza nella camera da letto. Andava dalla madre per qualche giorno, diceva. Voleva bloccarla, dirle che l’amava e che non era colpa sua. Ma in fondo in fondo non gliene fregava assolutamente niente. L’aveva sposata per i soldi e per le tette.
Si schiaffeggiò per quei pensieri. Pianse, maledicendo la maledizione. Non erano suoi, era quel vocabolario, ne era convinto. Sentì la moglie che gli parlava, ma abbassò lo sguardo per non farsi vedere che piangeva.
“Allora io vado”
Nessuna risposta.
“Bhe, potevi almeno dirmi addio. Spero che tu e il tuo fantastico tomo sarete felici. Un matrimonio distrutto dal tuo feticismo per le parole, la tua IDOLATRIA!” Le parole miste di sarcasmo e rammarico si persero tra le quattro mura della stanza.
Continuava a piangere. Cinicamente non poté fare a meno di pensare che la moglie aveva sbagliato il contesto per usare il termine di idolatria. Forse voleva darsi un tono. O forse no.. Idolatria era un termine che si riferiva specialmente a qualcosa di teologico o divino.. La curiosità era troppa. Tanto già sapeva che cosa voleva dire non sarebbe successo niente. E andò a cercare la definizione su quel vocabolario sul quale da ore stava cercando una soluzione per liberarsi dall’anatema.
E scoprì che Laura aveva ragione. Aveva usato correttamente il termine. Lui aveva una smodata passione, anzi, una mania, per i tecnicismi e le parole ricercate, o, più in generale, per la lingua italiana. Era il suo idolo, per il quale aveva trascurato la cosa a cui teneva di più.
Ed ora avrebbe passato un altro giorno d’inferno, in preda alla ricerca esasperata di qualche termine magari, o all’adorazione di qualche dio sconosciuto.
Ma quel giorno, non successe nulla.
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- YYYEEESSS!!!!
- stupenda, è proprio vero che ogni parola ha una sua particolare sfumatura di significato
mi dispiace solo per Laura, la vittima di queste strane suggestioni
- Emanazione... grazie per questo viaggio nel cuore infinito delle parole... nella ricerca di un nuovo significato di se stessi...
piaciuta tantissimo
Vincenzo