Quando Maya mi fissò diritto in volto, dopo parole, parole e poi ancora parole che aggiornavano il presente, mi sembrò indispensabile chiederle:
“Maya, perchè tutto questo tempo?”
Continuò a fissarmi, srotolò un sorriso e mi penetrò ancora, ancora una volta e forse per sempre, con quegli occhi giganteschi che non avevano più bisogno di parole ma che di parole, nella mia immaginazione, ne lasciarono molte.
Queste sono le sue parole non dette - da me immaginate:
“Ah Julius, il tempo... quale insondabile dimensione. Mi sembra ieri che ti ho baciato l’ultima volta, sento ancora il tuo ultimo abbraccio, vivi sorridono ancora in me?" ma erano distanti, tanto distanti?" i tuoi brillanti pensieri. Non li ho cancellati, come tu forse hai creduto, e non li cancello, sta pur tranquillo; ho vagato e viaggiato ed ancora amato, costruito e distrutto. Come so fare io e tu lo sai. Come sai che la mia musica è alta e forte, canto gridato sulle vette; è sottile e sfuggente nei labirinti miei stessi: il suono è difesa, attacco, canto e controcanto. Probabilmente, ho anche creduto, dalle vette, appunto, di toccarlo il cielo. E non è detto che non ci sia riuscita. Io ci provo sempre, perchè è giusto osare, perchè niente ma proprio niente possa mai farmi recedere da ciò che sono: nell’intimo - ed io lo credo - è veramente bello ciò che sono. A volte, quando vedo che gli altri non mi comprendono, sono attratta anche io dalla debolezza: cado nella rete dell’abisso e l’abisso guarda dentro di me. Ma son più forte dell’abisso; così io sento, mio lontano così vicino compagno di viaggio e tu lo sai, sai che mi rialzo e so sognare, sai che il domani per me è avvenire, sai e ricorderai che la mia terra è ovunque, ovunque i miei occhi viaggianti si dirigano. E allora, mio strano amore, talmente strano da avermi amato tanto, non provare alcun rimpianto per le mie parole non dette, per le tue confusioni di memoria, per la nostra buffa e stralunata storia che mi riporta a te di fronte. Io son già sul monte, la più alta vetta che ora scorgo, ma ce ne saranno sai, ce ne saranno di vette, da scalare arrampicandosi, da dominare abbandonandosi, al richiamo del vento. E tutto ciò è tanto e me ne rendo conto, anche se a volte poco, ai miei stessi occhi anelanti lontananze d’azzurro. Chi può raggiungermi? Mi chiedo. Forse... che tu vorresti? No, non credo, mio caro Julius, e non te lo auguro ancora, come non te l’augurai allora. Allora… proprio quando tu volesti seguirmi, senza bagaglio né paracadute. Sulla vetta, appunto. Ma se dubiti del mio esser(ci) certo ti sbagli. Se sono criptica e ancor troppo fuggevole è perchè forse, prima di cercar completa identificazione, sono in cerca di me come mai e più che mai; perchè dalla vetta debbo anche scendere, per misurarmi con le altre genti. Non so di me, mio dolce poeta, non so quale sia la meta, ma so che fermarmi non posso e che voltarmi non potrò mai. Qualora svanissi ancora, ricordati di me, senza più dubbi o nostalgie, ricorda che ti ho amato come amo viaggiare e cercar le vette. Più di questo non saprei che altro dire, Julius, se non che quando dovrò volare lontanissimo, come prima o poi mi accadrà, in cerca di nuovi e affascinanti orizzonti, t’apparirò (abbraccerò) ancora. Ma tieni a mente: non sarà mai l’ultima volta”.
Cosa rispondere a due occhi che ti dicono tutto questo?
Mia cara Maya, il tempo non esiste. Non è mai esistito. Immagino mai esisterà. L’ho sempre creduto, ma come tutti gli esseri umani, ne ho avuto anch’io paura. Ora, mio forte e fuggevole soffio di vento, è certo, non ne avrò più.
(Primavera, 2005)