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L'inseguitore
Le macchine, si sa, sono la passione per molti uomini, ed io ero uno di questi; possedevo un auto fiammante, sudata dopo molti anni di lavoro, ed era un mio vanto personale, quasi come se fosse un prolungamento del mio corpo.
Ovviamente avevo provveduto a modificarla per renderla competitiva, e non perdevo occasione per sfruttare tutti i cavalli di quel motore rombante, che spesso era la colonna sonora delle mie notti brave; avevo imparato a guidarla come un pilota, sapevo a memoria i giri in cui cambiare le marce, la velocità che una curva poteva richiedere, insomma, ero un asso al volante.
Per merito della mia guida, mi chiamavano “Mad”, “pazzo” in inglese, perché decine di volte chi assisteva ai miei “spettacoli” avrebbe giurato che mi sarei schiantato; ma non era mai accaduto, un’ ennesima prova della mia bravura.
Forse vi chiederete perché parlo al passato, ebbene, vi dirò che questa mia bravura non è valsa nulla contro un tiro mancino del destino; si, perché ora non sono più vivo ed è merito del fato beffardo, che mi ha sbeffeggiato proprio laddove il mio talento mi rendeva sicuro e forte.
Era il 6 aprile del 2005, circa due anni fa credo, ed ero uscito da poco per una serata tra amici; avevo da poco lasciato il piccolo caseggiato per imboccare la strada provinciale, una strada lunga e perfetta per le corse, perciò iniziai a premere sull’acceleratore, fin da subito, dopo aver controllato attorno di non vedere pattuglie della polizia.
Avevo superato alcune curve, quando due fari sbucarono dal nulla: osservando lo specchietto retrovisore, dedussi che doveva trovarsi a circa 20 metri dalla mia auto, e procedeva alla mia stessa velocità; stanco di vedere quelle luci fisse, decisi di stuzzicare l’altro conducente, sgasando ripetutamente per fargli capire le mie intenzioni, dopodiché detti un’ accelerata secca.
Sicuramente aveva deciso di giocare anche lui, perché nonostante all’inizio rimase leggermente indietro, accelerò anch’egli, slanciato quasi come da una molla e ritornando alla stessa distanza.
Aumentavo pian piano la velocità, per vedere fino a che limite si sarebbe spinto, portando le gomme a stridere ad ogni curva e facendo rombare il motore quasi al massimo.
Capii che era una vera e propria sfida, così cercai di capire dalle forme dei due fari gialli il modello di macchina che avevo alle mie spalle: erano tondi e gialli scuri, come le auto d’epoca, perciò rimasi molto confuso; viaggiavo a circa 200 km/h eppure reggeva il ritmo, affrontava le curve e restando nella mia scia, una guida impeccabile, nemmeno un’ esitazione.
Avrei giurato che fosse stata legata alla mia macchina, vista l’insistenza con cui rimaneva fissa nel mio specchietto retrovisore; all’improvviso mi venne un brivido, pensando all’idea di perdere una sfida: non era un’idea concepibile, sapevo di avere l’auto più veloce della mia città, non potevo perdere contro uno straniero, soprattutto se dotato di un auto d’epoca!
Decisi di superare ogni limite, premendo l’acceleratore fino in fondo ed inserendo la sesta marcia; 295 km/h, una velocità che mai avevo toccato, nemmeno in autostrada. Ormai ero disposto a tutto: affrontai la strada buia, illuminata solo dai miei fari, con ogni sprezzo del pericolo.
Le curve facevano vibrare tutta la mia macchina, le gomme fischiavano continuamente, il motore si stava scaldando parecchio: eppure, lui era li; fisse alle mie spalle, le due macchie gialle che vibravano e sobbalzavano.
Una curva a gomito, alla destra il fianco della montagna, a sinistra lo strapiombo chiazzato di ulivi: fu qui che vidi la mia possibilità di staccarmelo di dosso, il farabutto, e fu qui che trovai la mia fine.
L’acceleratore era premuto a fondo, il contachilometri era fisso sui 300 km/h, nelle mie orecchie solo il rumore del motore; sapevo il rischio che correvo, ma dovevo affrontarlo, potevo affrontarlo.
Fallii. A metà della curva, slittai con le ruote posteriori, subito dopo anche con quelle anteriori: dapprima invasi la corsia opposta, senza più capire cosa stava succedendo, poi sfondai il guard-rail. Sentii l’auto perdere il contatto con l’asfalto, ed atterrare sul terreno, estremamente in pendenza; udii le plastiche e le lamiere deformarsi, spaccarsi, mentre l’auto continuava a slittare urtando alberi e sassi.
Persi la cognizione del tutto quando i fari andarono in frantumi, schegge di vetro mi volavano addosso e l’auto si ribaltava; mi coprii il volto con gli avambracci, ciononostante urtai più volte la testa, mentre qualcosa mi si conficcava appena sotto la cassa toracica. Qualcos’altro faceva forza sulla caviglia destra, procurandomi un dolore estremo e portandomi ad urlare; l’auto si ribaltò più volte, continuai a sbattere con testa e braccia, pensai che quella tortura sarebbe stata eterna: ma finalmente, dopo alcuni secondi, l’auto rallentò e si fermò, completamente ribaltata contro qualcosa che doveva essere un tronco.
Sentivo dolore ovunque, respiravo a fatica e mi sentivo come un peso sullo stomaco, non sentivo più le gambe, ed avevo una forte emicrania; mi guardai attorno per capire la situazione e, nonostante il buio interrotto da qualche spia lampeggiante della macchina, capii di essere ancora vivo.
Ora non mi crederete, ma quella macchina che mi aveva portato alla follia era ancora lì, fissa nello specchietto retrovisore ormai scheggiato; iniziai a ridere istericamente, presumendo che la mia sorte fosse toccata allo spavaldo pilota, ma le mie risate si trasformarono in pianto quando compresi la realtà delle cose: mi voltai per accertarmi, e solo allora capii quanto si era divertito il destino con me.
I due “fari” che avevo visto, non erano affatto quelli di una macchina, anzi, non erano neanche fari; poco dietro i sedili posteriori, infatti, vi era una piccola ragnatela, impercettibile se non se ne è alla conoscenza, e su questa vi erano due insetti che si dimenavano leggermente, dando la sensazione di “vibrare e sobbalzare”. Erano due lucciole, che emanavano un bagliore del tutto identico a quello di due fari posti a molta distanza.
Ebbi solo il tempo di rimpiangere ciò che amavo della mia vita, quando l’albero che mi aveva trattenuto cedette: l’auto riprese ancora a ribaltarsi, ma durò pochi secondi, il tempo di raggiungere lo strapiombo che dava sulla spiaggia. Un tonfo sordo, poi non ricordai più nulla… Se non questa lezione del destino…
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