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LA FUGA : i brani più toccanti
Propongo alcuni brani del mio primo romanzo LA FUGA che ora è giunto alla seconda edizione:
Quell’appartamento era proprio il mio nido. Mi muovevo a piedi nudi sul parquet tra vecchi mobili presi al mercatino dell'usato, ricordi di viaggi, cuscini cangianti, candele e foto in bianco e nero sulle pareti coloratissime. Dalla cucina arrivava un buon odore di biscotti alla cannella appena sfornati e una sinfonia di Beethoven si diffondeva ovunque, era una musica piena, limpida, a tratti intensa, quasi violenta e, subito dopo, lieve, delicata come un soffio.
Mi sdraiai tra i cuscini sul grande divano rosso, mangiavo biscotti e leggevo la biografia di Evita Perón, che tanto mi coinvolgeva. Era un momento perfetto, pur nella sua semplicità.
Avevo dato forma, colore e odore a quelle stanze; erano il mio rifugio quando cercavo riparo e intimità dalle urla della città che si agitava fuori.
Durante la mia convivenza con Alex non ero mai riuscita a crearmi un posto che mi aderisse perfettamente, nel nostro appartamento scolorito regnava il disordine, la musica era sempre troppo alta, i libri sparpagliati ovunque e le valige pronte per le previste fughe del mio uomo.
Di ritorno da quei viaggi solitari portava sempre con sé qualche novità, nuova energia, una rinnovata sensibilità, e allora, mi scaldava, mi nutriva e mi amava disperatamente, fino poi ad avere ancora bisogno di quel caos interno e cercare nuove strade tra i fili taglienti della sua inquietudine.
Dal computer arrivò l'avviso che stavo ricevendo della posta elettronica, pigramente mi alzai, certa che si trattasse di lavoro, aspettavo giusto delle comunicazioni dall'ufficio.
Lessi chi era il mittente e tutto si fermò, una feroce nostalgia mi graffiò dentro.
«Elena,
come si spiegano a parole le emozioni?
Come si traduce lo sguardo rassegnato e dignitoso di questa gente? E i colori di un tramonto? L' odore della terra dopo un temporale? L'emozione che dà il languido lamento di una canzone messicana?
Il libro l'ho iniziato da poco, c'è un universo da scrivere, ma prima devo assorbirlo, viverlo dentro.
Starò per qualche periodo qui nel Chiapas, poi tornerò nello Yucátan e raggiungerò la costa.
Dimmi che stai bene, bambina. Ero fermo al corso di yoga e a quello di fotografia ma credo che nel frattempo avrai già creato e disfatto tante altre passioni.
La tua idea di cambiare lavoro l'hai realizzata? Sei sempre stata più coraggiosa e decisa di me nell'affrontare la vita.
Mi manchi Elena... cazzo se mi manchi, ma non potevo trascinarti in questa mia avventura, farti vivere i miei bisogni.
Questo pezzo di strada la facciamo separati, ma è inutile dirti quanto profondamente tu faccia parte di me.
Dammi presto tue notizie.
Alex.»
Rilessi tutto velocemente, poi parola per parola, mentre forti emozioni salivano rapidamente fino a soffocarmi.
Si faceva vivo dopo mesi per scrivere “Non potevo trascinarti in questa mia avventura …”
Risposi.
«Vaffanculo Alex! Sono stanca di tenere sempre in tensione la mia mente, i miei sentimenti, di cercare di non alterare il mio equilibrio per riuscire a capirti, e starti dietro anche quando allunghi il passo o ti fermi bruscamente, e quando sparisci e ti devo venire a prendere in qualche bivio dove non riesci più a trovare l'uscita.
Vuoi mie notizie?
Ti interesserebbe sapere che il mio affitto è aumentato oppure vediamo... ah si, ho comprato la mountain bike, e poi ho cambiato la tinta alle pareti, e ho anche litigato col capo per cui non andrò alla cena aziendale.
Sai quanto te ne frega!
Mica partecipo alla guerriglia zapatista io, o costruisco villaggi per gli indios del Chiapas o vivo in una capanna sulla spiaggia dello Yucatán.
Questa capacità di scrollarti di dosso ogni cosa che non sia essenziale ti rende troppo arido e io non riesco a nutrirmi nel tuo terreno...
Elena.»
Immagini di noi due presero forma e vigore, mi ritrovai schiacciata dal suo ricordo.
L'avevo conosciuto ad una festa tre anni prima...
- Quei piatti di roba tutta colorata e geometrica che ci sono alle feste importanti mi fanno schifo. Vuoi due spaghi? - mi chiese mentre trafficava in cucina alla ricerca di una pentola. Era un ragazzo alto con una capigliatura folta e disordinata, ma ciò che mi attrasse subito furono i bellissimi occhi marroni, grandi e intensi dalle lunghe ciglia.
- Io sono Alex - mi rivolse un sorriso schietto che gli fece comparire due fossette sulle guance.
Un'ora dopo ero con lui ad un'altra festa, stretti l'uno all'altra, seduti sul pavimento di marmo ad urtarci con i gomiti e le gambe, intrappolati da infiniti sguardi che raschiavano dentro, senza nessuna percezione del tempo, in un bisogno impaziente di appartenerci. Ci "appartenemmo" quella sera stessa in uno scomodo ripostiglio in cui finimmo già mezzi spogliati. I respiri si fecero sempre più corti, le bocche odorose di alcol e cibo si cercarono tra piccoli morsi e veloci colpi di lingua, mentre le dita avide scorrevano sulla pelle eccitata. La testa girava per l’alcol bevuto che si mescolava al sangue impazzito, ci baciammo i capelli, le palpebre, le tempie, le gambe si avvinghiarono, i corpi si inarcarono, le unghie graffiavano, le dita affondavano e uscivano impregnate della nostra essenza in una danza d’amore che aumentava il suo ritmo …
Diedi uno strattone ai miei pensieri.
Guardai l'orologio: era tardi e avevo la riunione con la redazione.
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Vivevo in Messico ormai da molti mesi, l'avevo girato praticamente tutto e pensavo di fermarmi in quella mia nuova casa per un periodo indefinito.
Un anno prima l'emittente radiofonica per cui lavoravo era fallita: mancavano gli sponsor e quei pochi mi costringevano a seguire troppe regole su cosa dire e cosa fare; impossibile per un eretico come me resistere, per quello che mi pagavano poi…
La radio non mi dava da vivere, scrivere libri non mi dava da vivere, il nuovo lavoro alla galleria d'arte mi permetteva di mantenermi, ma non vivevo.
- Se sei così affascinato dal Messico potresti sempre fare lo scrittore serio e scrivere un libro su quella cultura - mi disse una sera Elena uscendo dal bagno. I capelli neri le grondavano sulle spalle e indossava una mia maglietta che le lasciava scoperte le lunghe gambe nervose. Quella donna portava addosso una sensualità inconsapevole, una femminilità quasi sfrontata ma attenuata da un pungente senso dell'umorismo.
La amavo, senza sapere fosse amore. Poche persone riuscivano a stupirmi come lei, guardava la vita con ingenuità, incapace di trattenere qualsiasi emozione.
Nella galleria d'arte dove lavoravo il proprietario spesso organizzava cocktail frequentati dalla Milano bene dove era d'obbligo mangiare il sushi o sorseggiare vino irrompendo in qualche frase da esperto della degustazione e tutto con il sottofondo di musica di lamenti tibetani o rumori della natura.
L'architetto Grandi mi licenziò dopo che avevo denunciato un giro di affari poco puliti all'interno della galleria. I nomi più prestigiosi di avvocati e giudici erano suoi amici e ovviamente io non conoscevo nessuno capace di vincere la causa.
Aprii, con Elena, una crêpérie vicino ai navigli. Cambiammo appartamento e abitudini, ma, nonostante il mio nuovo ruolo di uomo di famiglia, ero sempre un randagio fuori dal gruppo, e poi, il lavoro non mi dava stimoli, i sogni tendevano tutti al grigio come il cielo di Milano.
Ripensai all'idea di Elena di scrivere un libro sul Messico e dopo poco partì, no, dopo poco fuggì.
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Non tornammo subito a San Cristóbal, ci fermammo alle famose cascate sul Rio Tuljia: le cascate de Mi-Sol-Ha e di Agua Azul, volevo vederle entrambe anche se si trattava di allungare il viaggio.
Ci trovavamo nella foresta umida e rigogliosa, a farci da sottofondo solo l'assordante rumore delle cascate di un azzurro intenso e i versi di migliaia di specie di uccelli. Improvvisamente mi invase la natura, l’odore dei pini, gli spruzzi delle cascate, il respiro della terra.
C'erano intorno un’infinità di laghetti artificiali e discese impetuose di acqua cristallina. Il bagno fu d'obbligo, nonostante l'acqua fredda e un po’ di corrente. Dopo esserci asciugati per bene legammo un’amaca agli alberi e ci sdraiammo.
Ogni parte del mio corpo percepiva una sensazione di totale benessere e gioia, ero completamente teso e aperto verso quella natura fluttuante.
- Qui vicino ci sono i villaggi dei guerriglieri della Sierra Madre e molto spesso chi li guida è una donna.
Dolores ebbe un guizzo di orgoglio negli occhi parlandone, mi penetrò con lo sguardo come volesse invitarmi a leggerle dentro.
Di risposta le presi la mano, la portai alle labbra e rimasi ad ascoltarla.
- C'è una grande differenza tra le insurgentas e le donne dei villaggi. Le guerrigliere sono molto più emancipate, hanno compiti di comando, prendono decisioni. Il ruolo della donna nella guerriglia è venuto fuori dopo i combattimenti di Ocosingo. Lì le donne sono riuscite a vincere la battaglia e a portare in salvo i feriti.
Smise di guardarmi come se quel monologo lo recitasse per se stessa.
- Le donne del villaggio, invece, rimangono ad aspettarle quando tornavano con gli uomini dalle loro spedizioni e non sai quanto invidiano in silenzio la loro indipendenza e il semplice fatto che non sono obbligate a sposare l'uomo con cui amoreggiano o con cui fanno sesso.
L'esistenza tra quelle montagne è difficile e rischiosa eppure le insurgentas preferiscono quella vita che non dovere tornare al villaggio e al passato.
Si mise seduta, le sue parole tradivano rabbia, il tono si incupì.
- È assurdo che ci siano state tante morti per vedere realizzato il sogno di Ramona e delle altre guerrigliere. Sogni che per noi sono la normalità e per loro sono un lusso, come il diritto alla sanità, allo studio o anche solo al rispetto.
- I matrimoni dei villaggi sono ancora combinati? - chiesi mentre mandavo giù dell’altra papaia.
- In molti villaggi si, nelle comunità le ragazze sono già da marito a tredici anni, a venti sono già vecchie per il matrimonio e la cosa peggiore è che non hanno un'infanzia, solo a pochi anni le bambine fanno da madre ai neonati. Non esiste l'adolescenza perché si sposano giovanissimi. L'età media di sopravvivenza delle donne nella foresta è di quarantacinque anni. La denutrizione e la cattiva igiene toglie ogni difesa immunitaria, non sai quante donne muoiono ancora di parto tra queste montagne.
Mi versò da bere e prese un sorso d'acqua dal mio bicchiere. Sorrise un po’ forzatamente per infondere del garbo, ma non riusciva a sminuire la rabbia che aveva dentro.
- Non si tratta solo di combattere per vincere la loro causa, è vero, quei monti sono abitati dai guerriglieri dell'E. Z. L. N., ma in certi villaggi è ancora una battaglia per sopravvivere alla miseria e alla fame.
Sbucciò dell'altra papaia, il volto dai lineamenti indiani si incupì e gli occhi si velarono di tristezza. Provai una forte tenerezza per lei e un gran desiderio di stringerla stretta.
Mentre accendevo il fuoco per la sera le chiesi per quanti anni aveva fatto parte delle guerrigliere dell'E. Z. L. N. Avevo capito che la mia piccola Dolores era stata un'insurgenta.
- Per parecchi anni, - disse senza scomporsi per essere stata scoperta - mi sono battuta per la mia gente e quasi mai col fucile, come la maggior parte di noi. Ora collaboro nelle trattative col governo e medio con la stampa per la gente del Chiapas.
La guardai, era vestita solo di una camicia di lino, armeggiava per preparare la tenda dove avremmo dormito quella notte, ogni tanto si asciugava la fronte perlata di sudore e si sollevava i lunghi capelli neri, e pensai che anche in quei modi energici e sbrigativi emanava una forte seduzione.
- Sono certa che ci hanno seguiti fino qua - disse fingendo di non mostrare allarmismo.
Non le badai, ero ancora frastornato da quei racconti così lontani dal mio mondo, ero immerso in una natura che credevo esistesse solo nell'Eden e avevo accanto una piccola donna che mi si offriva tra sogno e realtà.
Facemmo l'amore più volte quella notte e ci addormentammo sotto la luce argentata della luna, il rumore delle cascate e l'odore intenso della selva.
Mi svegliai al mattino un po’ infreddolito per non avere più il contatto del corpo caldo di Dolores. La mia india probabilmente si era già alzata; sollevai la testa per guardarmi intorno ma qualcuno mi colpì sul collo e mi conficcò una coltellata al ventre. Persi i sensi.
Mi svegliò un dolore fortissimo allo stomaco e una fitta insopportabile alla testa. Avevo freddo, tanto freddo. Ci misi qualche minuto prima di capire cosa mi fosse successo, poi, i pensieri presero a insinuarsi lenti e cominciai a ricordare.
Da quanto tempo ero lì? Ma lì dove? Non vedevo niente, sentivo solo l'odore acre della terra e del mio sangue che aveva inzuppato la camicia. Qualcuno mi aveva bendato gli occhi e legato mani e piedi con dei lacci troppo stretti. Il dolore quasi mi tolse il respiro. Mi imposi con tutte le forze di uscire da quella situazione disperata, volevo solo sopravvivere e, mentre sforzavo allo spasimo la mia mente, sentì dei passi avvicinarsi. Il cuore prese a battermi a tonfi sordi, mani sconosciute mi strattonarono e sentì il respiro affannato di un altro uomo su di me.
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Avvertii che la prima cosa da fare era cercare un nuovo lavoro. Scrivere articoletti di costume e società, ai quali non credevo neppure io, non mi appagava. Dovevo assolutamente tirare fuori qualche sogno da uno dei tanti cassetti lasciati sempre aperti dentro di me e che ogni tanto sbatteva contro la mia coscienza.
Da tempo desideravo aprire un piccolo agriturismo nella campagna lombarda, così, decisi di agire in fretta, di approfittare di quel momento della mia vita privo di margini e difese tra leggerezza e slanci.
Mi venne in mente una frase di Neruda: “... lentamente muore chi evita una passione...”.
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Salìi sulla Piramide dell’Indovino, alta circa trenta metri, agitato da entusiasmo e paura; l’immensa costruzione maya, man mano che salivo sembrava sospesa nel cielo o inghiottita dalla foresta senza orizzonte; arrivato alla sommità avevo il fiato grosso, il sole a picco mi faceva socchiudere gli occhi, mi sentivo sollevato nella luce. Ero giunto nell’area archeologica molto presto per evitare l’orda dei turisti e il caldo insopportabile, avevo bisogno di un luogo fuori dal tempo per pensare e ricaricarmi di energia. Accanto a me un’iguana mi fissava con sguardo immobile e si lasciava accarezzare.
Dopo avere abbandonato ogni tensione e lasciato i pensieri correre in quella sconfinata vallata, entrai nelle ultime stanze del tempio, una delle porte era rappresentata dalla gigantesca maschera del dio Chac.
Tra le fauci di Chac e in compagnia di un’iguana mi trovai a riflettere su quei lunghi anni in Messico: mi ero avvicinato con l’entusiasmo e lo stupore del turista, poi era giunta la curiosità del viaggiatore e infine mi ero imbevuto di quella cultura entrando nel ventre pulsante di quella terra. Mai un paese era stato più penetrante del Messico, mai un popolo era riuscito a trasmettermi valori profondi e virtù così inattaccabili nonostante tutta la violenza subita. Vitale e dignitosa, energica e generosa, così era quella gente.
Ero ancora coperto dai frantumi di quegli anni che mi avevano travolto, avevo troppi pensieri da spolverare e mettere in ordine e ancora qualche impulso contrastante da domare, anche il mio aspetto era cambiato, avevo i capelli sulle spalle, schiariti dal sole e dalla salsedine, gli occhi erano segnati da qualche ruga in più e la barba era sempre di qualche giorno e mi portavo addosso il peso della stanchezza di tutti quegli anni.
Come te la passi? - mi chiese un amico di San Cristóbal di passaggio.
- Alla grande. Mi sollazzo sulla spiaggia, non mi perdo un tramonto, scopo come un riccio, bevo solo margueritas, canto "celito lindo" e ogni tanto vado a rompere i coglioni ai miei amici indios, mi faccio coinvolgere nelle loro guerriglie mentre in Italia non ho mai alzato un dito per cambiare niente. In compenso sono diventato un ottimo sub e ballo la salsa che le gambe vanno da sole.
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…I fari della jeep illuminarono l’entrata del carcere. Ancora dolorante per i colpi ricevuti, infreddolito nella mia camicia bagnata di sudore fui ammucchiato insieme ad altri detenuti.
Mi fecero fare una doccia ghiacciata, frugarono tra i miei abiti e il mio zaino, non trovarono niente, ma poco importava, ero un rivoluzionario, un simpatizzante zapatista, un gringo e quello era il mio posto.
Nelle celle accanto all’infermeria si trovavano i “pericolosissimi” reclusi per delitti politici.
Nel braccio principale erano rinchiusi centinaia di “colpevoli” per minacce, lesioni e furto contro il Governo. Uno di questi aveva guidato un’azione armata contro la prigione di Ocosingo e liberato decine e decine di detenuti indigeni. Non sarebbe più uscito da lì.
Per dare una parvenza di democrazia c’erano anche le celle di esponenti del governo implicati nel massacro di Acteal.
Quasi cinquanta persone aspettavano la legge di amnistia che aveva promesso il nuovo governatore sostituto del Chiapas.
Io non ero così pericoloso, sono certo che neppure sapessero chi in realtà io fossi, ma mi misero in una cella con alcuni indigeni tzotzil.
Cosa sarebbe successo adesso? Avrei seguito un processo? Avrei dovuto pronunciare la famosa frase “non dico niente senza il mio avvocato” ?
Avevano ammazzato barbaramente il mio migliore amico, mi avevano riempito di pugni e sputi e alla fine in galera c’ero io.
Mi sedetti con la testa tra le mani su una panca di pino, in una grande cella con più di cinquanta indios che parlavano dialetti diversi. Pensai di impazzire, la mia vita era stata ballottata in ogni direzione, in ogni situazione e non avevo il tempo di riprendermi da una scena che subito ne subentrava un’altra.
Avevo i sentimenti paralizzati, o forse erano così vorticosi e acuti che non riuscivo neppure a sentirli. Erano un nodo duro che non si muoveva. Me ne stavo lì, immobile su quella panca, inghiottito dalla paura e divorato dalla rabbia. Piansi come un disperato per la morte di Pietro e per quella di Dolores, per come stava precipitando nel buio più nero la mia esistenza e mi ritrovai a urlare il nome di Elena, il nome del mio amore che mai più avrei rivisto perché nessuno mi avrebbe scovato in un carcere del profondo Messico tra indios e rivoluzionari.
Un gruppo di Rodriguez, Gómez, Pérez e nomi simili mi circondò, mi studiò con attenzione e diffidenza. Alcuni si avvicinarono titubanti, altri più decisi. Li guardai disperato senza mai abbassare gli occhi e quelli cominciarono a farmi domande su domande, le voci si sovrapposero, le facce di cuoio erano tutte uguali. Quando pronunciai il nome di Pietro Rizzi tutti tacquero, anche le guardie che camminavano davanti alle celle si fermarono.
Ero l’amico di Pietro Rizzi e tutti avevano un occhio di riguardo per me, alcuni addirittura mi temevano.
La giustizia messicana finse di venirmi incontro con false promesse di libertà, ma era scomodo lasciare andare un divulgatore dell’informazione sostenitore dei zapatisti.
Durante il governo di Fox tantissimi colleghi molto più attivi di me avevano addirittura perso la vita. Il numero di giornalisti uccisi cresceva a dismisura e i mandanti non erano mai stati riconosciuti e incarcerati.
Non capivo perché non mi avevano ancora fatto fuori data la mia amicizia con Dolores e Pietro, la mia frequentazione a certe sedi giornalistiche e la collaborazione che avevo con alcuni esponenti della stampa nazionale e internazionale.
I miei amici intervennero a mezzo stampa, frequentarono il Palazzo di Giustizia, si spinsero a Città del Messico per interloquire con alcuni funzionari del Governo con il pericolo di essere reclusi anch’essi.
Dopo un anno l’unica cosa che si smosse fu la dimostrazione che non ero un narcotrafficante ma solo un simpatizzante zapatista, il che era molto peggio.
Subì numerosi interrogatori, sorte di processi frettolosi con personaggi improbabili, firmai la mia estraneità alla lotta contro il Governo, dimostrai di avere vissuto tanto tempo su una spiaggia dello Yucatán, ma niente era servito a tirarmi fuori.
Finalmente la notizia riuscì ad oltrepassare il Messico e a fare il giro dell’Europa, così mi aveva assicurato Manuel, un giornalista de “La Jornada”.
…Anna bussò alla mia porta prima delle otto del mattino, dall’espressione che aveva incollata in faccia capì che non erano buone notizie. Si muoveva nervosamente con gesti confusi e ripetuti, non disse una parola ma quando incrociai il suo sguardo vi lessi una paura soffocata, un’ansia intrappolata. Mise su il caffé e senza più alzare la testa raccolse le frasi che mi avrebbe detto. Aprì la borsa, ne estrasse un quotidiano e lo buttò sul tavolo.
- Leggi! - disse con la voce impastata di angoscia, poi il suo sguardo si fece carezzevole come quello di una madre.
Mi sedetti ben dritta sulla sedia, mi stropicciai gli occhi per pulirli dal sonno e iniziai a leggere frasi che mi sarebbero rimaste conficcate per sempre nella carne, nelle ossa, nell’anima, nel cuore no, si era fatto di pietra e niente poteva trapassarlo.
Messico: arrestato giornalista italiano nella regione del Chiapas. Era un notizia talmente inverosimile che subito non capì, continuai la lettura: Alessandro Corsi, 40 anni, giornalista e scrittore, ha collaborato alla realizzazione di un documentario sulle popolazioni del Chiapas dove viveva da cinque anni. È stato fermato dalla polizia messicana mentre trasportava un forte quantitativo di coca nella Sierra Lacandona. La droga era destinata al mercato statunitense. Nient’altro, l’articolo terminava così, era un misero trafiletto in una delle pagine di cronaca nazionale, subito sotto la pubblicità di un prodotto dimagrante miracoloso.
In un istante cancellai tutto il tempo che ci aveva separati l’uno dall’altra. Aveva bisogno di me e non riuscivo più a contenere tutto l’amore che chiedeva solo di uscire, che premeva e graffiava, che si aggrappava dentro e annientava la ragione, che superava i pensieri. Era un sentimento che in quel momento rinvigoriva le forme, diventava più spesso, più forte. Ero sua figlia, ero il suo amico, era la sua amante.
Anna continuò a posare il suo sguardo su di me con compassione e si stupì per la mia reazione: la disperazione non riuscì a trapassarmi, il coraggio e l’energia riempirono ogni angolo del mio essere, non c’era spazio per altro.
- Da che parte si comincia Anna?- chiesi fissandola dritta nei suoi occhi chiari un po' sporgenti.
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…Comprai i pupazzi dei due guerriglieri e regalai alla piccola il mio giubbotto in jeans, lo afferrò con avidità, per paura che potessi cambiare idea, e lo indossò subito, nonostante il caldo soffocante. Il suo sorriso e l’esplosione di tanta gioia incontrollata mi ripagarono da quella giornata da dimenticare in cui stavo sprofondando. Fu il sorriso più bello mai visto in vita mia.
Ana Luisa, la padrona di casa, volle che il marito Miguel mi accompagnasse con il suo taxi a Città del Messico, diceva che io sarei stata più sicura, ma soprattutto pensava che ne avrebbe ricavato un bel po’ di denaro.
Accettai, ormai seguivo gli avvenimenti senza freno, e spesso anche senza logica, l’energia si stava assopendo, il sangue circolava impazzito senza trovare sfogo; il pensiero di Federica e ad Alex mi fece da rigido sostegno, mi avvolse e mi riparò. Bevvi un sorso di tequila e mi misi in viaggio.
Il taxi sgangherato di Miguel divorava chilometri di strada polverosa tra le montagne, spariva nella vegetazione, sobbalzava sui dossi, prendeva scorciatoie.
Dovevo essere pazza ad avere accettato il passaggio, non sapevo niente di quell’uomo, non avevo neppure un’arma con me per difendermi e tanto meno la forza per usarla.
Miguel avvertì il mio disagio, tentò un sorriso sollevando i lunghi baffi, si tolse il grande cappello di paglia per mostrarsi meglio e mi porse le foto dei suoi bambini, poi, per rendersi ancora più rassicurante, mise una musicassetta di musica italiana.
Scambiammo qualche parola poi la stanchezza prevalse, mi lasciai andare mollemente sul sedile e mi addormentai.
Feci in tempo a vedere il furgone bianco davanti a noi, la macchina inchiodò e slittò sul bordo della strada, io fui scaraventata contro il vetro, provai un dolore insopportabile al ginocchio, pezzi di vetro si incagliarono sul viso e sulle braccia, sentì l’occhio gonfiarsi e il labbro sanguinare continuamente. Poi fu solo un fluttuare di voci, suoni ovattati, gente che mi strattonava.
Si misero a sparare senza una logica, Miguel, senza vita, mi cadde pesantemente addosso.
…Mi perquisirono, mi sfinirono di domande, le mie parole furono tradotte da un’interprete che probabilmente colorava un po’ quanto affermavo, mi fecero firmare qualche foglio e finalmente entrai nella sala colloqui dei detenuti.
Lo vidi prima da lontano, poi la figura si fece sempre più nitida: era curvo a leggere il giornale, dimagrito, i capelli lunghi raccolti in una coda e la barba di qualche giorno.
Mi mancò l'appoggio sotto i piedi e rimasi incapace di muoversi e proseguire, tremavo mentre lo guardavo in tutta la sua bellezza.
Si alzò di scatto e mi venne incontro, marcato dalle guardia ad ogni movimento.
Eravamo uno di fronte all’altro, schiacciati tra il desiderio di stringerci fino ad assorbirci e quello di stare a guardarci. Fu un abbraccio feroce e saziante. Mi trovai davanti i suoi occhi neri che mi sembrarono più grandi e luminosi del solito e gli baciai ogni angolo del volto.
Alex lasciò scivolare le mani lungo la mia schiena, mi strinse i fianchi, sentì la consistenza del mio corpo che fremeva e i capelli contro la sua guancia.
Non facemmo nessun affidamento sulle parole, le emozioni si agitavano fino a farci perdere ogni concezione.
Alex nell'abbraccio cercò di guardarmi il viso ma io continuai a premerlo sulla sua spalla e tenevo gli occhi chiusi pieni di pianto.
Ci baciammo e fu il bacio che non avevamo mai dato, quello diverso da tutti gli altri, come se baciandoci volessimo entrarci dentro, prendere l’essenza dell’altro.
Prontamente erano venuti a separarci e ci concessero poco tempo per parlare…..
Da : LA FUGA di Simona Bertocchi edito da Medimond Srl collana GME
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- Sei davvero brava, devo assolutamente leggere La fuga, poi ti dico...
- sarei curiosa di leggere il seguito... l'inizio è interessante
- Bella l'idea delle lettere, anche l'approccio di lei non é male. Che colore hai scelto per le pareti? Semplice, scorrevole, davvero niente male.
- È vero Sara, ci metteranno sette anni prima di ammetterlo e ognuno prenderà percorsi diversi.
A presto
Simona
- Sembra due lettere scritte da persone che in realtà si amano ma nessuna delle due lo vuole ammettere. Mi sbaglio? Bell'inizio comunque.
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