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C'era una volta... la scuola!
E maggio arriva, la vita a scuola diventa più intensa di impegni, di lavori, di gioia. Ognuno dei ragazzi sta preparando la tesina per gli esami di quinta classe, quasi tutti hanno rifiutato il mio aiuto perché vogliono farmi una “sorpresa”.
E, senza volerlo, mi vengono in mente le parole di Devaou, pedagogista francese: “Il nostro trionfo consiste nel vedere che non hanno più bisogno di noi!”.
Ma per me significa che dovrò lasciarli per ricominciare il ciclo, certo avrò i bambini di prima classe, ma il pensiero, che finora mi ha consolato, mi crea un senso di insofferenza, perché ci sarà il modulo con schematici orari, con pesanti “rientri”.
Finirà la libertà di insegnamento e inizierà la schiavitù delle regole: il bambino non deve essere formato, secondo il personalismo di Maritain, capace di relazionarsi con gli altri, ma dovrà acquisire un sapere specializzato, dovrà essere competente nell’uso del computer, dovrà imparare l’inglese, lingua di uso mondiale e di valore universale per la forte valenza economica e politica.
Poesia, arte, creatività diventano parole vuote di significato perché l’uomo vale in quanto produce.
Mi fermo e rifletto: la poesia produce solo speranza!
Gli esami arrivano, le colleghe che sono nella commissione esprimono la loro ammirazione per l’approfondimento storico, per le conoscenze scientifiche e matematiche e soprattutto per la maturità culturale, umana, religiosa dei ragazzi, perché alcuni hanno tralasciato le poesie studiate e hanno preferito presentare poesie di loro produzione a tema religioso e sociale.
E questo nostro successo scolastico è la prova concreta della validità della “maestra unica”, che qualche rivista progressista ha già bollato con l’appellativo di “tuttologa”, perché, precisano, nessuna persona può conoscere tutto il sapere, ma io ribatto che una maestra, degna di questo nome sacro, può suscitare il sapere considerando i ragazzi “non vasi da riempire, ma focolai da accendere”.
Evviva, io l’ho fatto, pare.
Il rapporto instaurato con la classe resterà per la vita.
Ora sul mio tavolo brilla un fiore di cartoncino e subito riconosco la fantasia di Rubinia e la sua creatività.
Curiosa lo apro e dentro, sovrapposti a scalare, ci sono 25 petali con i nomi dei ragazzi e ognuno ha scritto qualcosa, vedo ma non leggo per ora, lo farò a casa.
Io regalo ad ogni alunno un’immaginetta personalizzata e cerco di nascondere la commozione.
Marilena mi sussurra: “… e non sentirti sola, perché tu sarai nei nostri cuori, la maestra non si può dimenticare” e neanche gli alunni, penso io.
Mario, come sempre, aspetta per portarmi la borsa fino in cortile; poi mi fa una calda raccomandazione: “So che pensi di comprarti la macchina nuova, attenta, non comprare la prima serie perché spesso è difettosa, aspetta un poco, quando la serie sarà sicura te lo farò sapere io, verrò di persona” e continua “non farti imbrogliare!”.
È questo il suo modo di ringraziarmi!
Ma già arriva settembre, e con esso il giorno temuto e atteso del collegio dei docenti riunito in seduta plenaria.
Guido con la solita prudenza, ma il cuore non vola, mi devo rassegnare ad accettare il pesante cambiamento, il lavoro di insegnante vivificato da straordinario afflato umano sarà un pantano insidioso di carte, progetti e il bambino sarà stritolato, giudicato dalle nuove prove oggettive, definite minuziosamente dalla programmazione settimanale, ma … come si fa a programmare l’amore? ?" mi chiedo perplessa.
Ecco un’altra parola chiave si fa strada: “Interdisciplinarietà”, cioè collegamento fra il sapere.
Amaramente sorrido perché io, nel mio ruolo di maestra unica, creavo forse senza saperlo, attimo per attimo, il collegamento fra le materie, usando anche la lezione occasionale. Anzi, ricordo l’assenza forzata di Gianluca che rivediamo a scuola dopo una settimana con il viso ancora tumefatto e il polso ingessato in seguito a una brutta caduta dalla bicicletta, avvenuta nelle vicinanze del panificio dei genitori.
I compagni, dopo la calorosa accoglienza per il suo rientro, hanno preparato un cartellone con relativo disegno e si è parlato di educazione civica e stradale, del sistema scheletrico, della solidarietà, del servizio sanitario.
Ora stringo fra le mani due fogli con l’elenco delle due sezioni A e B e ogni foglio contiene, oltre ai nomi degli alunni anche i nomi degli insegnanti catalogati per materia.
Pina ( italiano?" educazione fisica)
Nuccia ( matematica?" scienze)
Rosarita ( storia?" geografia?" studi sociali?" educazione musicale?" religione).
E posso ancora insegnare religione perché ho il titolo specifico! Evviva!
Ma subito la direttrice (che oggi assume il nome altisonante e impersonale di dirigente) precisa che anche l’insegnante di religione dovrà muoversi con prudenza, tenendo presente la nuova valenza storica della materia.
La religione cattolica dovrà confrontarsi con le altri religioni e soprattutto dovrà escludere l’aspetto confessionale che avrà diritto di cittadinanza … nella sacrestie.
Gesù viene considerato alla stregua di un personaggio storico come Cesare o Napoleone (che hanno affrontato le guerre) mentre il <Maestro> Gesù si è limitato solo a predicare l’amore e la fraternità, che proprio oggi sono idee fuori moda!
La religione che nei programmi del 1955 era considerata “fondamento e coronamento dell’insegnamento” assume ora una veste informativa certo, per rispettare tutti, dicono, anche le minoranze, che non rispettano noi.
Ma i nuovi paroloni per me nascondono “il Nulla” della travolgente filosofia del pragmatismo che inneggia al fare trascurando il significato esistenziale dell’essere persona, possedere la capacità di relazionarsi in un libero costruttivo dialogo.
E oggi, 14 Settembre del ’92, mi ritrovo nel cortile di quella che per vent’anni è stata la mia scuola, mentre oggi, grazie ai moduli, mi ritrovo in una “azienda lavorativa” e infatti con le classi parallele, possono lavorare più insegnanti.
È questa l’unica positività pratica per aumentare la possibilità di lavoro che già scarseggia e nessuno fra i pedagogisti sospetta che presto verranno meno i valori della solidarietà, del rispetto reciproco, inghiottito dalla “carriera” e dalla corsa sfrenata per dividere la magra cifra dell’incentivazione.
Io nei miei vent’anni di maestra sono stata sempre incentivata solo dalla stima dei genitori e dalla gioia dei ragazzi.
Salgo le scale insieme a una marea di mamme e di bambini ed entro, insieme a Pina, nell’aula 16 e stiamo insieme per due ore (si chiama compresenza), oggi sembra superflua, ma poi servirà, e come servirà, per le future supplenze interne!
I bambini di prima classe sono teneri, spauriti, ma stavolta non ho preparato nulla per loro, solo il mio cuore, ma non può servire, anzi dovrò muovermi con prudenza nella gabbia dorata del team, che mi allontanerà sempre più dai bambini e mi avvicinerà sempre più a test di inchieste, di verifiche oggettive, che serviranno ad entrare nel nuovo mondo scolastico che ha scoperto le tre carte vincenti: informatica, inglese, impresa.
Evviva saranno le tre “I a formare gli uomini di domani” e così in un ibrido di morale e di utilità fini e mezzi si uniscono e si confondono.
Noi insegnanti non dobbiamo lavorare con bulloni e macchinari, ma abbiamo dinanzi delle persone che devono essere indirizzate con delicatezza, con pazienza, con amore verso conoscenze scolastiche essenziali alla vita.
Passate le due ore entro nell’altra classe e vedo altri bambini impauriti e confusi: stavolta sono in compresenza con Nuccia e mi sento più tranquilla perché anche lei ha fatto l’esperienza esaltante di maestra unica, infatti per dieci anni ha lavorato nell’aula accanto alla mia, la saluto, lei mi sorride poi, esortandomi, dice: “Rosarita, dobbiamo adattarci al nuovo lavoro, sarà pesante per noi e specialmente per i bambini, lo sappiamo noi due, ma dobbiamo mostrare entusiasmo per non farci reputare “conservatori e tradizionalisti” “Amen” rispondo e poi aggiungo con padre Dante “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare”.
Ora bussano alla porta, entra Valeria che, fresca di concorso appena superato, sventola un foglio. “È una nuova circolare? chiedo. “Ma no” risponde convinta dell’utilità, “è una “griglia” che ogni insegnante dovrà riempire”.
Ora gli alunni saranno sezionati in gruppi A-B-C, secondo il livello intellettivo di ciascuno.
E la griglia, con questo ambizioso progetto, entra di diritto nel nuovo travolgente iter … educativo.
E cerco di adattarmi, con sofferenza, al nuovo lavoro di impiegata, cammino sempre con l’agenda dell’orario che Nuccia, con mentalità matematica, ha saputo fare quadrare. Arrivo in cortile, ma nessuno dei ragazzi mi viene incontro e salgo le scale con un senso di vuoto.
Dentro, in classe, dopo aver posato le cartelle ai posti che l’insegnante d’italiano ha stabilito, i bambini si alzano in piedi meccanicamente per il saluto e rispondo con un cenno del capo, perché penso che così sono “professionale”. Una bimba, azzurri occhi di cielo, mi guarda interdetta e dice: “Con noi hai due ore”. Guardo l’elenco e grazie alla piantina topografica preparata dalla funzione obbiettivo, conosco il suo nome: Jennifer.
E anche io apro la borsa professionale e tiro fuori le prove d’ingresso che Nuccia, sollecita, ha preparato per me e per lei.
Ora sono a casa, sto selezionando le schede per formulare la “griglia”; è una sterile fatica mentale per me, in grado di capire la capacità globale di ogni bambino sin dal primo sguardo amico! Ma oggi i bambini non si guardano, le schede parlano al loro posto!
E continua il lavoro e arriva febbraio del ’93 e si registra una notevole assenza di insegnanti e comincia a traballare la selezione fatta attraverso la griglia perché le insegnanti nell’orario di compresenza sono costrette a fare supplenza nelle altre classi, quando le colleghe sono assenti per malattia.
Ma non tutto è perduto, i pochi vecchi, tarlati armadi non riescono più a contenere l’enorme cumulo di schede, di cartine topografiche, di piantine dell’aula e così qualche topo, desideroso di impadronirsi del nuovo “sapere” commuovendosi lascia i suoi escrementi sulle “sudate carte”.
Qualche insegnante di buon senso suggerisce di rendere la scuola più vivibile, rimodernando l’arredamento scolastico, ma questa è un’utopia, certo, perché il Comune, addetto all’arredamento scolastico, è in deficit.
Allora gli animi (specie quelli dei genitori) si riscaldano e si ottiene una “disinfestazione” che durerà tre giorni per la gioia dei ragazzi, che ancora si affannano a distinguere le domande vere da quelle false.
Ma i ragazzi, da soli hanno capito che, oggettivamente parlando, la scuola è una prigione, un impegno, studiare, capire è proprio un’estenuante fatica priva di gratificazioni immediate. Così i ragazzi “difficili” diventano sempre più “difficili” perché non respirano amore e accoglienza, perché anche i compagni sono impegnati a formulare schedari, a vivere la competizione e a trattare, con il dovuto disprezzo, il ragazzo più lento che ha bisogno di recupero.
E nascono i famigerati gruppi di “livello” e fra tutti questi “livelli” io ho perduto il mio “livello d’amore”!!
E settembre arriva e il modulo continua e comincio ad accettare con meno stress il mio lavoro.
Ora ho imparato a memoria le entrate e le uscite dalle due classi; cinque minuti prima del cambio dell’ora mi trovo già pronta, i bambini, orario in mano, preparano già lo schedario per le nuove discipline. Ma non sono contenta, sono solo efficiente per le mie capacità e ne risente anche la mia vita in comunità perché ho meno tempo libero e ci sono più riunioni a scuola, naturalmente per parlare dei ragazzi, per meglio catalogarli, selezionarli, giudicarli.
Nel nostro collegio dei docenti solo ventisette siamo state maestre uniche e non possiamo parlare per ora, perché ci hanno già catalogate come “nostalgiche di potere” e come “tuttologhe”.
E la dirigente è vivamente interessata ai “progetti” che porteranno alla scuola lauti incentivi economici e tutti possiamo parteciparvi in orario extra-scolastico, basta solo trovare gli alunni disposti a frequentare le attività proposte e inoltre ci sarà la possibilità di fare carriera.
Ma la carriera non mi interessa proprio, mi sta a cuore solo suscitare l’interesse degli alunni verso il sapere.
E ci provo, anzi ricomincio a provarci, con la solita passione risorta dalle ceneri delle carte.
Nella nostra prima riunione, fatta per classi parallele, ritrovo Francesca che, essendo stata maestra unica, ha vissuto un’esperienza culturale e affettiva molto simile alla mia e così la nostra programmazione settimanale si arricchisce della finalità chiave: bisogna privilegiare il rapporto educativo, bisogna valorizzare l’alunno al di là della minuziosa stesura cartacea, che diventa un mezzo.
Evviva, respiro già meglio, ritorna, anche se in modo diverso, il mio ruolo di maestra!
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