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Nonna Maria
La casa di Elena non distava molto da quella dei nonni materni: bastava percorrere qualche viuzza del paese, attraversare la piazza grande, una corsa in un prato ed infine il gioco era fatto.
Sua madre lasciava che la bimba si recasse a far loro visita tutte le volte che ne avesse voglia, da sola, con la sua bicicletta, cosa che la rendeva felice perché era abbastanza raro che la lasciassero girare senza qualcuno che la sorvegliasse.
Le strade dei paesi alle due del pomeriggio sono deserte, non vi passa anima viva perché è l’ora consacrata alla siesta pomeridiana, per cui anche una bimba di quell’ età poteva benissimo passeggiare senza timore.
Quel pomeriggio il cielo era terso; non una nuvola ad offuscarlo, era perciò l’occasione migliore per provare la nuova Graziella arancione che le era stata regalata da poco.
Si sentiva alta su quella sella e le sembrava di dominare la strada.
La mamma la salutò dalla finestra dopo le ultime raccomandazioni.
Elena promise che non avrebbe dato retta al suo istinto di sfrecciare veloce, che sarebbe stata cauta, ma soprattutto promise che si sarebbe recata solo da nonna Maria che l’aspettava sempre in quell’ora del pomeriggio.
Abitava in una grande casa insieme al marito e ad un figlio Orlando allora scapolo e si dilettava a fare delle ottime torte e montagne di polenta.
La stanza più frequentata della villa, era una grande stanza nell’interrato che faceva da cucina, arredata con mobili rustici, vissuti, carichi di ricordi.
La solita pentola d’acqua bollente borbottava sulla piastra della stufa a legna e c’era odore di pesce, forse di gamberetti al sugo che in quella famiglia amavano molto gustare insieme ad una bella fetta di polenta e ad un buon bicchiere di vino.
Il caffè era stato appena fatto e ce n’era sempre un cucchiaio, solo un cucchiaio per la più piccola.
Amava molto il sapore amaro di quella bevanda, purtroppo prerogativa dei soli adulti e si chiedeva quando sarebbe arrivato il giorno in cui le avrebbero offerto almeno un cucchiaio in più.
Che male le poteva fare?
Maria aveva già indossato il suo grembiule a fiori: c’era da fare la pasta per l’indomani e se Elena ne voleva una generosa manciata per se, doveva aiutare.
Fare le tagliatelle, per la piccola, significava imparare certo un qualcosa di molto utile per se stessa, ma significava anche ascoltare il romanzo di vita vissuta dalla nonna che l’accoglieva sempre con tanto amore.
Il raccontare scaturiva dalla vista di una foto appesa al muro, oppure da una notizia ricevuta da un lontano parente che non vedeva da anni, oppure da un cibo rifiutato da una delle nipoti che invece un tempo era desiderato invano, perché c’era la guerra e tutti avevano fame.
Poteva capitare che riordinando i cassetti, si trovasse la sua prima borsetta ottenuta dopo due mesi di lavoro nei campi a raccogliere verdure di stagione, oppure che sbucasse da chissà dove, una lettera scritta da un’amica passata a miglior vita della quale conservava un ricordo dolcissimo che la commuoveva e le faceva provare autentica nostalgia.
Nonna Maria era nata nel 1916 in un piccolo paesino di provincia del Friuli Venezia Giulia, in una casa colonica probabilmente di proprietà di certi signori della zona. La sua infanzia fu segnata dalla prima guerra mondiale e dal trauma della perdita del padre che lasciò la giovane madre con ben sei figli e soltanto le proprie braccia con le quali lavorare e crescerli.
Maria, pur avendo un ricordo sfuocato di quei giorni, aveva ancora chiara dentro di se la forte sensazione di dolore che avvertiva nelle sorelle più grandi e nella madre e del senso di vuoto che aveva lasciato l’assenza della figura paterna.
Non capiva bene in realtà cosa fosse successo all’uomo.
La sua famiglia, per proteggerla dal dolore, la tenne per molto tempo lontana dal significato della morte, le parlarono invece di un lungo viaggio intrapreso dal padre con il grande zaino sulle spalle e le dissero che non sapevano quando avrebbe fatto ritorno, ma che, pur lontano, molto lontano, pensava sempre a loro e le amava tanto.
Se le amava così tanto, allora, perché era andato via? Perché non si fermava ancora con loro? Sarebbe tornato?
Quanti gli interrogativi dentro l’animo di una bimba di soli 3 anni, ma lei non osava convertire in domande da porre a qualcuno quei dubbi, perché in famiglia si parlava poco ed il dolore si esorcizzava con il silenzio e con il lavoro.
Da quel momento in poi avrebbero dovuto farcela da soli, avrebbero dovuto lavorare tutti quanti, sacrificare la spensieratezza dell’infanzia e venire a contatto con la crudezza della vita,
Ora l’unica speranza di sopravvivenza era legata alla terra, alla mezzadria, ai frutti delle varie stagioni. Bisognava arare, seminare, raccogliere tutto con la sola forza delle braccia; braccia di donne, uomini ed anche molto spesso di bambini. Nonna Maria non aveva che ricordi sfuocati di quel periodo e tutto ciò che sapeva lo aveva appreso dai racconti degli adulti, che ne parlavano.
Erano quelli anni molto critici.
La disoccupazione dilagante, il carovita, suscitavano odio della gente verso un sistema sgretolato dalla guerra appena finita. L’Italia come tutte le nazioni impegnate nella prima guerra mondiale ne uscì profondamente mutata.
Negli anni 1919-20 la gente manifestava il proprio disappunto per il marasma politico e per il non adattamento dei salari al caro vita con le numerose agitazioni di tipo anarchico. I testimoni dell’epoca, affermavano che si trattava di un’insurrezione vera e propria ma priva di obiettivi comuni precisi. Ogni regione d’Italia ne fece una propria ma il peggio avvenne a Firenze dove la popolazione ridotta alla fame fu per vari giorni l’unica padrona della città. I negozi, i forni furono assaliti e molte merci andarono distrutte dal furore generale.
Nel frattempo i rappresentanti della classe piccolo-borghese, assecondavano e sostenevano le iniziative avventate di personaggi tenaci come Gabriele D’Annunzio che guidò il 12 settembre del 1919 alcuni reparti dell’esercito alla conquista di Fiume contesa anche dalla Jugoslavia.
C’era una moltitudine di ideali come non mai si era verificato nella storia ed anche se Giolitti tra il 1920 e il 1921 tentò di arginare la situazione, sia risolvendo la questione di Fiume e le contese con la Jugoslavia nel trattato di Rapallo del 1920, sia tentando di progettare delle riforme democratiche per placare le lotte di classe, fallì rovinosamente di fronte alla violenza dello scontro tra industriali ed operai che portarono all’occupazione delle fabbriche, perché, come si è detto sopra, non c’era stato l’adeguamento degli stipendi al costo della vita.
Gli industriali di allora non ne volevano sapere di venire incontro alle richieste degli operai e decisero di rispondere con l’ostruzionismo.
Tutto ciò scatenò l’intervento delle squadre d’azione fasciste.
Giolitti, capo del governo di allora, a questo punto si dimise e Vittorio Emanuele terzo, re d’Italia, affidò a Mussolini l’incarico di creare un nuovo governo.
Presto il Fascismo avrebbe preso il sopravvento e sarebbe stato il padrone di fatto del nostro paese.
La popolazione era allo stremo delle forze, esasperata da tutto questo contesto, di fame e disoccupazione e non era per nulla facile per una donna vedova, con ben sei figli come la signora Pasqua Fabbro tirare avanti.
La famiglia Fabbro era lontana dalle agitazioni sopra descritte; in aperta campagna non arrivava che l’eco del caos esistente all’epoca nelle varie città d’Italia. Ciò che si sapeva per sentito dire, bastava per non desiderare nemmeno d’allontanarsi dalla propria terra, ma la vita rurale di allora era davvero dura, priva di risorse ulteriori all’agricoltura.
Nonna Maria ricordava perfettamente l’aratro rudimentale trainato dal bue che scavava i solchi di speranza che avrebbero cullato i semi gettati dalle mani ruvide di sua madre e delle sorelle più grandi e ricordava come presto imparò ad imitarli sempre più freneticamente, perché il tempo era un prezioso dono di Dio da non sciupare mai. Presto, troppo presto, le fu insegnato a rimestare la polenta che nei periodi di magra era l’unico pasto per quella numerosa famiglia: non aveva che sei anni quando le fu dato in mano il mestolo di legno, là presso quello scuro focolare, dove una grossa pentola bolliva appesa ad un rudimentale gancio sopra al fuoco fatto delle sterpaglie raccolte lungo il sentiero di ritorno dal campo dalle sorelle più grandi.
Nel 1922 Maria fu iscritta alla scuola elementare ma doveva far trovare pronta quella polenta alla sera, a coloro i quali tornavano dai campi affaticati ed affamati. Per studiare non vi rimanevano che pochi ritagli di tempo dato che anche l’andamento domestico richiedeva l’ausilio di tutti.
La scuola era un piccolo casolare in aperta campagna che bisognava raggiungere a piedi, con i soli zoccoli di legno che possedeva, esposta al freddo pungente dell’inverno, coperta con i poveri vestiti che Pasqua era riuscita a procurare alla bambina. Aveva tanti figli da vestire e quel poco era stato ottenuto a fatica.
Maria considerava prezioso il suo vestitino rosso mattone e il golf spesso di lana che la madre le aveva fatto a maglia. A scuola si doveva essere puliti ed ordinati, pettinati accuratamente e si provava molta soggezione verso la maestra, una donna di una certa età, molto severa, proveniente dal sud dell’Italia.
Chi usciva dagli schemi imposti da quella figura, veniva sgridato duramente, pertanto la bimba ascoltava e metteva in pratica tutto ciò che le veniva impartito e aveva una gran pena per chi era punito, anche fisicamente, come allora succedeva nelle scuole. La nonna, nonostante i suoi 78 anni suonati, ricordava ancora un paio di compagni costretti a stare in ginocchio dietro la lavagna per ore su dei pungenti e fastidiosi sassolini o peggio ancora le bacchettate sulle mani se non avevano fatto i compiti.
Lei di rimproveri ne ricevette davvero pochi perché eccelleva in tutte le materie. Le bastava leggere una sola volta una pagina che le era tutto chiaro e lo poteva tranquillamente spiegare a sua volta a chi era meno dotato di lei. I suoi temi erano sempre i migliori e ricevette molti elogi da quell’anziana signora che la poneva di fronte agli altri coetanei come esempio da seguire.
La madre non vedeva di buon occhio l’istruzione della figlia più piccola perché c’era sempre molto da fare, ma data la predisposizione e l’intelligenza di Maria, dovette accettare anche se non di buon grado. La bimba, infatti, si aggiudicava quasi tutti i premi messi in palio dall’insegnante per il miglior tema o per il miglior compito di matematica. Non era quindi una perdita di tempo.
Il tempo non poteva essere mai sciupato e la piccola lo sapeva bene.
A dieci anni il suo ciclo di studi ebbe fine, ma ormai sapeva leggere speditamente e scrivere correttamente.
Bastava così.
C’era la possibilità di lavorare nelle filande per molte delle sue figlie e la madre colse l’occasione al volo.
Filare la seta era un’occupazione più affascinante a confronto del lavoro agreste ma non meno faticoso ed impegnativo.
Altro che fare la pasta e le piccole mansioni poco impegnative assegnate a sua nipote Elena!
La bimba doveva ascoltare, capire quanto era fortunata a condurre una vita dorata rispetto alla sua: quando Maria iniziò il lavoro in fabbrica aveva 12 anni, pertanto non voleva sentire lamentele se le veniva dato un compito lieve, se doveva impegnarsi in qualche cosa!
Ricordava come fosse ieri le “grisole”, letti di canne sui quali venivano poste delle foglie di gelso che sarebbe stato il nutrimento delle larve le quali, a loro volta, sarebbero divenute bozzoli ricchi di seta.
Le foglie venivano sistemate in piani che a volte arrivavano fino al soffitto ed era interessante vedere come questi piccoli vermi le divorassero così velocemente; un giorno ed una notte e poi si cominciavano a vedere i primi bozzoli che mano a mano divenivano sempre più grossi.
A questo punto interveniva la filanda con i suoi macchinari e con le sue tecniche per ricavare un solo e lungo filo che veniva lavorato in vari modi dalle veloci mani delle operaie sorvegliate dalle “maestre” che non le perdevano d’occhio un momento.
I soprusi, le punizioni che le operaie ricevevano da quelle, erano a volte molto pesanti se non muovevano leste le loro dita tra gli ingranaggi e se la filatura presentava dei difetti, per cui Maria usò ogni strategia possibile per fare al meglio quel mestiere evitando così, i loro rimproveri.
Ben presto fu molto rispettata e venne il giorno in cui lei stessa divenne “maestra”, ma evitò con tutte le sue forze ogni sopruso verso le operaie più giovani e meno esperte.
Mentre l’anziana raccontava, le tagliatelle riempivano l’ampio tavolo della cucina e pareva di vedere campi dorati di grano dai quali la donna mieteva ricordi, spighe di dolore o di gioie semplici come il suo animo.
Elena non osava fare domande perché il racconto, limpido, appassionante, pareva una favola, una di quelle tratte dai libri che le venivano letti prima di dormire, perché i sogni si lanciassero al galoppo verso quei mondi fantastici che lei amava tanto visitare.
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