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LUCREZIA e GAIO
Pompei, anno 79 d. c.
Ante diem undecimum kalendas septenbres (22 agosto)
Nella casa, situata vicino alla porta vesuviana, il sole cominciava ad illuminare le stanze dove dormivano Lucrezia, il marito Marco e Gaio, il loro figlio di nove anni.
L’abitazione, pur nella sua modestia ed essenzialità, mostrava i segni, nell’arredo e nelle sue dotazioni, di una condizione di benessere superiore alla media degli abitanti di Pompei, dediti alle attività commerciali ed artigianali. Costoro erano quasi tutti liberti, ex schiavi affrancati ed ex militari delle legioni romane, come Marco e costituivano il nerbo della fiorente economia della cittadina, risorta dopo il terremoto dell’anno 62.
La casa disponeva anche di un piccolo giardino, nella parte posteriore, dove razzolavano alcune galline.
Questa condizione di “benessere” derivava dall’occupazione di Marco, che, per le sue qualità umane e contabili, era divenuto l’amministratore di fiducia di Lucio Olconio, uno dei magistrati di Pompei e uno degli uomini più ricchi della città. Egli possedeva una delle più belle case della città, una villa ad Ercolano ed una grande proprietà nell’agro sarnese, dove si produceva un po’ di tutto, dal frumento, alla frutta, dall’uva agli ortaggi. Tanta ricchezza, ovviamente, non proveniva solo dalla famiglia d’appartenenza, ma anche dalla spregiudicatezza tipica degli amministratori, che non andavano molto per il sottile, nel procurarsi dei congrui profitti personali nell’occuparsi della cosa pubblica. Tali proventi illeciti erano poi gestiti per speculare sugli immobili della rinascente Pompei, nella costruzione di terme ed in qualche attività ludica a beneficio del popolo, per acquisirne la stima e…i voti alle elezioni.
Marco, che conosceva bene tutto ciò, faceva con zelo e dedizione il suo lavoro, non curandosi delle faccende politiche, più che soddisfatto del salario e delle ricompense che, spesso, Lucio Olconio, con munificenza gli elargiva e che gli consentivano di vivere senza affanni.
Lucrezia, la moglie, si occupava della casa e della crescita del figlio Gaio. Era una giovane e bella donna, dai folti capelli neri, dai lineamenti delicati, dalla carnagione ambrata. Il suo corpo, aggraziato e ben proporzionato, poteva suscitare invidia anche alle signore delle famiglie di censo elevato. La sua figura era fasciata da una bianca tunica di lino, che lasciava scoperte le braccia, appena stretta, sopra i fianchi, da una cintura di cuoio chiaro, chiusa da una fibula di bronzo, raffigurante una testa di leone, finemente cesellata. Si era sposata con Marco esattamente dieci anni prima, nel 69 e nel 70 aveva dato alla luce Gaio, che aveva posto sotto la protezione del dio Apollo.
Quella di Marco era una famiglia come tante, nella Pompei di quegli anni che contava quasi venticinquemila abitanti e che aveva una grande importanza nella Campania romana, situata com’era, nella parte centrale della regione, vicino alla foce del fiume Sarno ed a circa mezzo chilometro dal mare.
A poca distanza, sorgevano le città di Nola, Acerra, Ercolano, Napoli, Pozzuoli, Cuma e Miseno con la flotta romana, per citare gli insediamenti più importanti.
L’importanza e la ricchezza di Pompei, traeva origine dal mare e dalla terra. Dal mare per i traffici commerciali che avvenivano nel suo porto e per le attività di pesca. Dalla terra per la quantità e qualità della produzione agricola, in tutte le sue forme, grazie alle acque del Sarno ed alla fertilità del terreno, al quale, nel corso dei secoli, aveva contribuito, sostanziosamente, il vicino Vesuvio con le sue eruzioni.
Tutte queste condizioni facevano sì che a Pompei vi fosse una congerie di persone appartenenti a numerosi popoli di cultura e lingua le più disparate: i discendenti delle popolazioni locali, quali Osci e Sanniti; i Bessi, i Dalmati, i Germani, gli Egizi, i Greci, i Nubiani, i Cilici e, ovviamente, i Romani.
Questa Babele di popoli e idiomi, non impediva alla città di prosperare e di crescere sempre di più.
Questa caratteristica, ha lasciato una memoria curiosa e pruriginosa: i lupanari di Pompei, frequentati da uomini di tante lingue diverse, avevano risolto il problema della comunicazione, indicando con un affresco, posto sulle porte delle piccole celle dove le prostitute esercitavano la loro “professione”, la “specialità” erotica da esse praticata, facilitando, così, il cosmopolita cliente nella propria scelta.
La ricostruzione della città, dopo il terremoto del 62, procedeva a grandi passi. Pompei aveva una Basilica, un mercato coperto, numerosi templi, dedicati ai vari culti e nelle sue vie si ergevano numerose statue, poste su alti piedistalli, che raffiguravano imperatori e personaggi locali. Non mancavano gli edifici termali (terme Stabiane, del Foro, Centrali) costruzioni importanti e raffinate della civiltà romana, che erano il centro della vita sociale e politica delle comunità e, dimensioni a parte, non avrebbero sfigurato nemmeno nella capitale dell’impero: Roma.
Le abitazioni private dei personaggi più abbienti, non avevano molto da invidiare a quelle dei patrizi romani, per raffinatezza ed eleganza, in particolare per gli affreschi ed i mosaici che le impreziosivano (casa di Venere, dei Vettii, del Fauno, dei Dioscuri, del Centauro, la villa dei Misteri).
La serena vita della famiglia di Marco si svolgeva in questa prospera situazione ed in una comunità in cui le manifestazioni civili, religiose e ludiche, scandivano la vita dei Pompeiani.
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Marco rientrando a casa la sera, dopo aver affettuosamente salutato Lucrezia e Gaio, dice alla moglie: “Lucio Olconio mi ha chiesto di accompagnarlo nelle sue proprietà, per verificare di persona lo stato delle colture ed in particolare come si presenta la vendemmia, che inizierà fra poco. Fra due giorni, massimo tre, dovremmo ritornare a Pompei. Lo sai che quando si viaggia con Olconio, si sa quando si parte, ma non si sa quando si ritorna!”
“Sì, lo so.” Risponde Lucrezia. “Non ti preoccupare, ormai ci sono abituata, noi saremo qui ad aspettarti”.
“Farò il possibile per ritornare entro dopodomani sera, non mi sono dimenticato che quel giorno, dieci anni fa, ci siamo sposati ”.
“Ho piacere.” Dice Lucrezia. “Credevo che l’avessi dimenticato”. Accompagnando questa battuta con un sorriso ironico e malizioso.
“No, non l’ho dimenticato, Lucrezia…come potrei”.
“Quanto mi piaci, quando mi sorridi in quel modo.”
Appena finita la frase, Marco la prende fra le braccia, la stringe forte e la bacia con trasporto.
Gaio, sorride compiaciuto e felice nell’assistere a quanto si vogliono bene i suoi genitori.
“Nel caso, non riuscissi a ritornare entro dopodomani, voglio dare a te e a Gaio un piccolo regalo che vi ho preparato per la ricorrenza.”
Si volge verso la sua sporta di pelle e n’estrae una piccola sacca di cuoio, dalla quale prende due medaglioni d’oro, appesi a dei lacci di cuoio nero, legati, all’estremità, da una piccola fibbia. Si avvicina a Lucrezia e glielo allaccia al collo, altrettanto fa con Gaio.
Lucrezia e Gaio, ripresisi dalla sorpresa, prendono in mano i medaglioni e li guardano compiaciuti: quello di Lucrezia reca inciso il volto di Giove, in leggero bassorilievo. Quello di Gaio, la riproduzione del volto di Apollo. Dietro ad entrambi sono incisi i rispettivi nomi: LUCRETIA?" GAIUS.
“Non ho resistito a darveli prima di partire, così la gioia dei vostri volti, mi accompagnerà durante questo viaggio di lavoro e voi penserete ancora di più a me!”
Sia Lucrezia che Gaio abbracciano affettuosamente Marco.
Consumano una frugale cena a base di formaggio, pane e frutta e poi vanno a dormire, perché, l’indomani, l’appuntamento con Olconio è fissato poco dopo il sorgere del sole.
Ante diem decimum kalendas septembres (23 agosto)
Il sole è sorto e Marco è già pronto. Un saluto fugace alla moglie ed al figlio che sono rimasti a letto e prima d’uscire di casa, prende un otre per riempirlo d’acqua, sono giorni ancora molto caldi ed avrebbe dovuto viaggiare sul carro sotto il sole, per diverse ore. Mentre fa quest’operazione, s’accorge, appena tolto il coperchio dell’orcio che contiene l’acqua, che la superficie di essa è percorsa da cerchi concentrici, come se il pavimento sottostante stesse vibrando leggermente. Il fenomeno non l’incuriosisce più di tanto, esso è molto frequente in quella zona a ridosso del Vesuvio e non se ne preoccupa. Apre l’uscio e va a raggiungere il suo “padrone”.
Lucrezia e Gaio si alzano dal letto, quando il sole già splende luminoso e caldo nel limpido cielo di Pompei. Mangiano un po’ di frutta.
Questo è il giorno che i romani dedicano a festeggiare il dio Vulcano. I festeggiamenti, chiamati Vulcanalia, sarebbero durati tutto il giorno.
Gaio esce per andare a giocare con i suoi amici.
Lucrezia l’avvisa di non allontanarsi troppo, perché tra poco l’avrebbe raggiunto, per poi andare con lui nelle strade di Pompei ad assistere agli spettacoli organizzati per la festa.
“Va bene, mamma, t’aspetto!”
Lucrezia, dopo aver sbrigato le comuni faccende mattutine, si pettina, si veste, e raggiunge il figlio, per poi dirigersi verso via dell’Abbondanza, la strada più importante di Pompei.
Erano contenti di assistere agli spettacoli dei giocolieri e dei saltimbanchi e degli incantatori di serpenti, che intorno a loro avevano già adunato delle piccole folle che, rumorose, sottolineano con applausi ed incitazioni gli artisti di strada, che si esibiscono, impegnandosi al massimo, nella speranza di racimolare qualche sesterzio in più del solito.
Dopo aver già girato per circa due ore, Lucrezia e Gaio si fermano ad un Pistor per acquistare delle focacce calde e poi ad un Thermopolium per bere una fresca bevanda. Il caldo opprimente che durava da diversi giorni, comincia a farsi sentire anche quel giorno.
Continuano ancora un po’, poi sopraffatti dalla calura e dalla stanchezza decidono di tornare a casa.
Il resto della giornata trascorre come di consuetudine, ma con il sottofondo dei clamori della festa che continua nelle strade di Pompei.
Ante diem nonum kalendas septembres (24 agosto)
Il primo pensiero di Lucrezia, quando si sveglia va al suo Marco, sperando che riesca a tornare a casa entro la giornata, per festeggiare l’anniversario del matrimonio.
Con questa dolce speranza Lucrezia si accinge a trascorrere un giorno come tanti, dedito alle piccole faccende quotidiane, come rigovernare casa e ad accudire Gaio, prima che si precipiti, come fa spesso, nelle strade di Pompei a giocare con i suoi coetanei.
Niente fa presagire che quello non sarà un giorno come gli altri e che, dopo, non ci saranno più giorni da vivere!
Alcuni tremolii della terra, pur se distintamente avvertiti, non creano preoccupazione nella popolazione di Pompei che, ormai, aveva fatto l’abitudine a questi fenomeni dopo il terremoto di diciassette anni prima. Questo, purtroppo, sarà un grave errore.
Dopo circa un’ora Lucrezia esce, cerca Gaio e gli chiede se l’accompagna a fare un po’ di spesa in cambio di un’altra focaccia dallo stesso Pistor di ieri.
Dopo aver comprato della frutta e della carne, vanno dal fornaio e comprano delle focacce e qualche dolce per la sera, in previsione del ritorno di Marco.
Hanno appena finito di mangiare le focacce, quando sentono, fortissimo e sconvolgente il boato di un’esplosione, forse doppia, ed un vento caldo, frutto dello spostamento d’aria che ha provocato.
Grande è la paura, per questo fenomeno del tutto nuovo che nulla ha a che vedere anche con il terremoto del 62.
Lucrezia ed i suoi concittadini, nonostante le scosse di terremoto, non hanno l’esatta percezione di quanto sta avvenendo. Rimangono, stupiti ed inebetiti, a guardare l’enorme colonna formata da quello che sembra essere un fumo denso e nero, che s’innalza sempre di più e man mano che si solleva, si allarga nel cielo a mo’ di chioma di un gigantesco albero. Un “albero”, però, che porta nei suoi rami solo frutti di morte.
Quando il vento, in quota, comincia a spingere questa spaventosa e minacciosa nuvola verso Pompei, la popolazione intuisce il pericolo e presa dal panico fugge precipitosamente:, Chi verso il mare, chi lasciandosi la nube alle spalle, nella vana, quanto effimera, speranza di correre più di essa.
Lucrezia afferra letteralmente Gaio, che corre il rischio di essere travolto dalla folla, ormai, incontrollabile e pensa che la cosa migliore sia ritornare a casa, per poi decidere di raggiungere le campagne circostanti e qualche riparo che li protegga dalla “nuvola”.
Con gran fatica e pericolo raggiunge casa.
La mostruosa e rimbombante nuvola, oscura il cielo e Pompei piomba in un buio innaturale in cui echeggiano le grida ed i pianti dei cittadini in fuga, spesso sovrastati dal sinistro fragore della nuvola che inizia a scaricare il suo carico, non solo di ceneri e polveri. Comincia, infatti, una fitta pioggia di lapilli di pomice che, sebbene leggeri e spugnosi, rappresentano un grande pericolo per l’altezza della caduta e per la loro impressionante quantità.
Lucrezia abbandona l’idea di fuggire verso i campi. Solo un’adeguata protezione avrebbe permesso loro di scappare, ma con la confusione indotta dal panico, ormai, non rimane altro che restare al riparo della casa, nella speranza che la pioggia di cenere e lapilli finisca presto, grazie al vento che continua a sospingere la nuvola. E’solo un’illusione. La nuvola è tanto grossa, densa e piena di materiale che continuerà a depositare le sue scorie mortali fino a notte inoltrata.
Lucrezia e Gaio, nel buio della loro casa stretti l’uno all’altro, iniziano a sentire i primi rumori determinati dai crolli degli edifici e dei tetti, che non reggono più il peso della cenere e della pomice. Le grida e le urla sono diminuite d’intensità e Lucrezia comprende che molti, ormai, devono esser morti sotto i colpi della pioggia e sotto i crolli dei fabbricati. La loro casa ancora regge l’urto e ricorda, con piacere, l’affermazione di Marco quando le disse: “Lucrezia, questa è una casa robusta costruita molto bene, anche se piccola, vedrai che ci troveremo bene qui!”
Già Marco! “Dove starà in questo momento, sarà preoccupato per noi, come noi per lui. Che gli dei lo conservino e ci facciano riunire, per nostro figlio Gaio”. Mentre è angosciata da questi pensieri stringe ancor più forte Gaio a sé, che senza piangere e mostrare paura le chiede:
“Papà sta arrivando, vero mamma?”
“Sì, certo che sta arrivando, lo sai che non ci lascerebbe mai soli in una situazione come questa!”
Fa appena a tempo a nascondere una lacrima, per non mostrarsi spaventata al figlio. In cuor suo, però, “sente” che forse non l’avrebbe rivisto più e che pure il loro destino è, ormai, segnato.
Marco quando avviene l’esplosione del Vesuvio, si trova, insieme a Lucio Olconio e due suoi servi, in un grande vigneto a verificare lo stato di maturazione dell’uva ed a prevedere la qualità della vendemmia di quell’anno. Non ci mettono molto a comprendere il pericolo che incombe su di loro e su tutto il territorio. Corrono verso il carro con cui sono arrivati e prendono la strada per Pompei. In condizioni normali, l’avrebbero raggiunta in circa quattro ore. Lucio Olconio ordina di frustare i cavalli, per fare più in fretta possibile. Dopo circa un’ora, anche loro sono investiti dalla pioggia di cenere e lapilli, ma proseguono facendosi scudo con le ceste di frutta che avevano sul carro, dopo averle svuotate sulla strada. Lo strato di cenere e soprattutto quello dei lapilli di pomice, aumenta a vista d’occhio, di pari passo aumentano le difficoltà del carro ad avanzare in quelle condizioni, finché le ruote non riuscendo più a rotolare, causano il rovesciamento del carro. Marco e gli altri non subiscono grandi danni e decidono di continuare a piedi.
Non c’è altra soluzione.
Nel frattempo iniziano ad incontrare i primi cittadini di Pompei scappati dalla città. I racconti dei fuggiaschi gettano nella disperazione Marco, tanto sono circostanziati e precisi sulle devastazioni subite dalla città e dai suoi abitanti.
In quel momento, in preda alla disperazione Marco urla tutta la sua rabbia ed il suo dolore all’indirizzo dei suoi dei sempre venerati e rispettati: “Maledetti dei come avete permesso che avvenisse un simile disastro, dove siete…fate qualcosa…se non per me, per Lucrezia e Gaio…salvateli!” Cade in ginocchio in preda ad un pianto disperato. Si risolleva quasi subito e continua a dirigersi verso Pompei, ma il passo ormai è molto lento, frenato dallo spesso strato di pomice che copre il terreno. Le sue gambe sono già tutte graffiate e piene di sangue, solo la forza della disperazione lo sostiene, ma chissà per quanto ancora.
Lucrezia, nel continuare a sentire i colpi sordi delle pietre che colpiscono la casa senza sosta e le scosse di terremoto, benché non violenti, contribuiscono ad indebolirne la struttura, comincia a dubitare che essa possa ancora resistere alle vibrazioni ed al peso. Cerca di mettersi sotto l’architrave di una porta aperta in uno dei muri maestri, sperando di non essere investita dal crollo del soffitto. Appena si è sistemata con il figlio, preavvisato da numerosi scricchiolii, il soffitto crolla. Spaventati e pieni di polvere, rimangono per un po’ impietriti a guardare quel poco che si poteva vedere delle macerie della propria casa, data l’oscurità creata sia dalla nuvola che dalla notte, con solo l’ausilio della flebile luce di una fiaccola che Lucrezia aveva acceso prima che il buio fosse totale e che sta dando segni di estinzione. Non sarebbe ancora durata per molto, ma l’alba, se fossero riusciti a vederla, non avrebbe dovuto tardare ancora molto.
Marco, dopo ore di marcia estenuante, continua imperterrito e dolorante a procedere verso Pompei e ad un certo punto riconosce le mura della città illuminate dalla luce degli incendi provocati dalle ceneri e dalle pietre incandescenti. La speranza di riuscire ad arrivare a casa od a quello che n’è rimasto, si fa più forte.
Continua ad arrancare verso Pompei con nuovo vigore, anche se lo sforzo, per continuare a “camminare” sullo strato di cenere, polvere e pomice, è grande e la protezione della cesta, quasi del tutto distrutta dai colpi ricevuti, è quasi inesistente. Sempre più spesso Marco è colpito in testa dai lapilli, che gli procurano ferite che hanno ridotto il suo volto ad una maschera di sangue e fango. Si trascina fin sotto a ciò che rimaneva di un grosso carro abbandonato dai pompeiani in fuga, per riprendere fiato e forze. Poco dopo Marco nota che la caduta dei lapilli stava diminuendo, fin quasi a cessare del tutto.
Una speranza in più si accende nel suo animo.
Una debole luce di color grigiastro, inizia ad illuminare lo scenario della tragedia, la nuvola incombe sempre minacciosa sulla sua testa: è l’alba del 25 agosto. Marco crede che il peggio sia passato e, sempre faticosamente, riprende ad avvicinarsi a Pompei. Lo sforzo è enorme, le gambe sprofondano fin quasi oltre il ginocchio e riesce a procedere così lentamente che lo assale la disperazione di non farcela. I suoi sforzi sono accompagnati da imprecazioni contro tutti gli dei che gli vengono in mente e da un pianto disperato. Ormai è sicuro che non avrebbe più rivisto Lucrezia e Gaio, pensando che se è allo stremo delle forze lui, ex legionario romano, che ha affrontato battaglie e pericoli di ogni sorta, come potevano sopravvivere in tanto scempio due esseri così deboli ed indifesi come la sua amata moglie e l’adorato figlio.
Mentre questi funesti pensieri affollano la sua mente, ode un rumore sordo e lontano che lo terrorizza. “Dei maledetti, non è ancora finita…”
Non poteva sapere che il fianco del Vesuvio aveva ceduto in seguito al collassamento della camera magmatica e che, dall’ampia fenditura che si era aperta, stava rotolando verso il mare un’immensa nuvola di flusso piroclastico, contenente una gran quantità di materiali in sospensione a temperature fra i 500 ed i 1000 gradi, quali: pomici, frammenti di vetro e roccia, cristalli. Essa precipita come una valanga, ad una velocità di circa 100 km l’ora. Raggiunge per prima Ercolano, dove gli abitanti che non sono riusciti a fuggire, muoiono quasi istantaneamente a causa del calore e dei gas. La città è seppellita dalla cenere e si completa, così, l’opera di distruzione, con una coltre di diversi metri. Queste nubi piroclastiche, non risparmiano nemmeno Pompei, anche se su di essa giungono più “fredde”, ma non meno letali.
Lucrezia quando sente quest’altro boato, scuotere la terra ed il cielo, avverte anche lei che la fine è ormai vicina. Non ci sono più via di fuga. Pompei è un ammasso di rovine fumanti…”Mamma, quando arriva papà?” “Tra poco Gaio… Tra poco e…vedrai tutto finirà”.
Gaio si stringe ancora più forte a Lucrezia. In quel momento la nube di polveri calde raggiunge Pompei. Cominciano ad avere difficoltà di respirazione: l’aria calda polverosa e densa di gas venefici gli brucia la gola ed i polmoni e senza nemmeno fare un grido, si accasciano al suolo, avvinghiati nell’abbraccio, Lucrezia sopra il figlio Gaio, nell’ultimo disperato, quanto inutile, tentativo di fargli scudo con il suo corpo. La morte è quasi immediata e nel giro di pochi minuti sono coperti integralmente e la polvere continua ad accumularsi, fino a raggiungere uno spessore di vari metri, anche 10, in alcuni punti di Pompei.
A poche diecine di metri, fino a tanto è giunto Marco, si compie, analogamente anche il suo destino, il cui ultimo pensiero, prima di soffocare, è per la sua adorata famiglia.
La cenere accumulatisi, si compattò quasi subito, sia per effetto del calore che della pressione generata dal peso degli strati che si accumulavano uno sull’altro, racchiudendo le innocenti ed impotenti vittime in un sarcofago naturale dove avrebbero riposato per secoli.
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Nei giorni successivi all’eruzione, l’imperatore Tito, succeduto da pochi mesi a Vespasiano, mandò aiuti e soccorsi ai superstiti. Ci si rese subito conto, però, che il disastro era di proporzioni tali, da rendere impossibile qualsiasi intervento di recupero delle cittadine coinvolte e del ripristino degli insediamenti urbani.
Il Vesuvio aveva cancellato e coperto terreni, città, ville e monumenti, sotto una coltre di detriti che si era consolidata in modo tale che anche gli sciacalli, in cerca dei tesori sepolti sotto le case, desistettero dalla loro opera, tanto era duro e faticoso il solo tentare uno scavo anche di piccole dimensioni.
Tutta la zona fu letteralmente abbandonata al suo destino, tant’è che nel corso dei secoli rimase solo il ricordo, tramandato puntualmente da Plinio il giovane. Egli descrisse il disastro e raccolse gli appunti dello zio, Plinio “il vecchio”, presente all’evento, perché di stanza a Miseno con la flotta romana, di cui era comandante e che morì, a sua volta, sotto il flusso piroclastico, per aver cercato di salvare dei suoi amici che stavano in Stabia.
Dell’esatta ubicazione di Ercolano, Pompei, Stabia, Oplontis e degli altri centri coinvolti, se ne perse la cognizione, finché un giorno durante la costruzione di un canale di bonifica nel 1594 si rinvennero dei reperti dell’epoca, ai quali non fu data importanza. Fu solo nel 1700 ed in particolare sotto Carlo di Borbone, nel 1748 che iniziarono ufficialmente gli scavi per riportare alla luce, prima Ercolano, poi nel 1763 in seguito al rinvenimento di un’iscrizione di Suedio Clemente si comprese che quella zona apparteneva a Pompei.
Questi scavi, dopo più di 260 anni, proseguono ancora e riservano tuttora sorprese e tesori architettonici ed artistici.
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APRILE 1985
Nell’anno 1985, si recò a collaborare per alcuni mesi alla squadra che stava effettuando nuove ricognizioni e scavi a Pompei, Cecilia, una giovane archeologa, laureatasi brillantemente con il massimo dei voti a Roma e da sempre appassionata di archeologia Romana.
Cecilia aveva raccolto entusiasta, l’invito del direttore degli scavi, da lei conosciuto durante gli studi universitari e che al termine di essi le chiese di collaborare con lui, come assistente alla sua cattedra.
Si dedicò, a quest’esperienza con tutto l’entusiasmo che le derivava dalla sua antica passione, coinvolgendo con essa perfino gli esperti operai che collaboravano con gli archeologi ai lavori.
Si fece subito benvolere e non mancavano di chiamarla e di farle condividere con loro, talvolta in anteprima rispetto ai suoi più titolati colleghi, le novità e i rinvenimenti di reperti che, a giudizio del loro occhio esperto, potevano costituire le premesse di un ritrovamento importante.
Un giorno, era il 14 di aprile, giorno del compleanno di Cecilia, Vincenzo uno dei capisquadra degli operai addetti agli scavi, la manda a chiamare perché forse avevano fatto una scoperta interessante.
Cecilia raggiunse, trafelata ed emozionata il luogo dello scavo e Vincenzo le fece notare che dopo avere rimosso una grande quantità di materiale, secondo la sua esperienza, dovevano essere giunti vicini al livello del terreno originario e più precisamente di quello che doveva essere stato una pavimentazione di una casa, di una stanza in particolare.
Gli operai e la stessa Cecilia continuarono, con la consueta delicatezza e circospezione, a rimuovere altri strati della cenere vulcanica, dura come una pietra, finché sentirono un suono sordo, un rimbombo, provenire da sotto lo strato che stavano così delicatamente abradendo e togliendo. Vincenzo ebbe subito la percezione che il rumore fosse il segnale che sotto quello strato c’era un vuoto. Di solito quando ci s’imbatteva in questi “vuoti”, il significato era solo uno: lì sotto, all’epoca dell’eruzione, c’era qualcosa o qualcuno che era stato completamente ricoperto dalle ceneri laviche. Qualunque cosa fosse, deteriorandosi con il trascorrere del tempo, aveva lasciato il vuoto a sua immagine e somiglianza, come se fosse un calco.
Con grande attenzione ed emozione, fu praticato un foro nella parte più alta della cavità e fu usata la tecnica, frutto dell’intuizione di Giuseppe Fiorelli, direttore degli scavi di Pompei, che l’adoperò per la prima volta nel 1860, che consiste nel riempire la cavità con una soluzione a base di gesso, che, grazie alla sua fluidità, colma completamente tutto la spazio vuoto ed aderisce perfettamente al “calco”.
Ora non rimaneva che attendere l’essiccatura del gesso, per poi procedere con grande cautela ad asportare la crosta residua di ceneri e pomice che avvolgeva lo “stampo”.
Per la cronaca, la prima volta al sig. Fiorelli apparvero le forme di quattro cadaveri…
Il giorno dopo, trascorso il tempo che Vincenzo ritenne congruo per l’asciugatura del gesso, tutti i protagonisti del ritrovamento, insieme ai responsabili culturali dello scavo, si riunirono nei resti di quella piccola casa, per vedere che cosa sarebbe tornato alla luce, dall’oblio del tempo.
Gli operai iniziarono con calma e con perizia a rimuovere la crosta, che pian piano lasciava intravedere la massa bianca del gesso che appariva abbastanza grande. Trascorrevano i minuti ed aumentava l’emozione. A circa metà dell’opra, non ci furono più dubbi sul fatto che si trattasse dell’impronta di un corpo umano, conclusione suffragata dalla visione parziale di un femore inglobato nel gesso. Era da tempo che non si rinvenivano più resti “umani” nella cinta urbana di Pompei, la curiosità e l’eccitazione per la scoperta era divenuta palpabile.
Un’altra ora di lavoro e gli esperti operai giunsero a liberare completamente il calco e ci si avvide che i corpi erano due, non solo uno: uno di una persona adulta ed un altro di dimensioni più piccole, appartenente ad una bambina o ad un bambino, mentre quello di sopra a prima vista sembrava un corpo femminile adulto, con molta probabilità la madre morta nell’atto di proteggere il figlio o la figlia, con il suo corpo.
L’emozione di Cecilia, che aveva assistito in prima persona ad un evento ormai raro, era al culmine e non nascose la sua commozione di fronte a quella che era quasi una foto “ante litteram” di una delle conseguenze della disastrosa eruzione del Vesuvio che, in omaggio a Plinio il vecchio, venne codificata, per le sue modalità, come: Eruzione Pliniana.
Ripresisi tutti dall’emozione, fu deciso di rimuovere il calco e di portarlo nel laboratorio dove sarebbe stato completato il lavoro e analizzato per verificare, dalle ossa che erano rimaste, se si trattasse effettivamente di una donna con bambino/a.
Fra mille precauzioni, il pesante e prezioso calco, fu delicatamente sollevato e posto su un carrello foderato di materiale antiurto per consentirne il trasporto in tutta sicurezza. Nell’atto di posare il calco sul carrello, ruotato di novanta gradi, rispetto alla posizione del ritrovamento, perché aderisse meglio al suo provvisorio contenitore, Cecilia, con gli occhi della passione e dell’emozione, intravide due oggetti tondi sporgere leggermente dalla superficie del gesso, che non era riuscito ad inglobare completamente.
“Fermi, per piacere, fermatevi un momento. Ho visto qualcosa, lasciate che mi avvicini.”
Gli operai l’accontentarono subito con il beneplacito del direttore degli scavi.
Cecilia si avvicinò, sfiorò con le dita le due protuberanze e si accorse di aver toccato delle piccole parti di metallo dalle piccole fessure non saturate dal gesso.
“Direttore, vi prego, possiamo vedere subito di che si tratta?”
La richiesta fu proposta con tanto desiderio ed entusiasmo che il professore non riuscì a dirle di no.
“Va bene Cecilia, ma…a patto che l’operazione la facciamo insieme.” Le disse sorridendo e tradendo la sua stessa curiosità.
“Dateci due scalpellini e due pennelli.” Rivolgendosi agli operai.
Iniziarono ad incidere il gesso intorno alla forma degli oggetti. In pochi minuti, dato il loro esiguo spessore, li liberarono dal calco “madre”.
Pur se sporchi si accorsero subito che essi erano due oggetti d’oro, due medaglioni, all’apparenza.
“Datemi una bacinella con dell’acqua”
“Cecilia vieni, uno lo pulisco io, l’altro tu!”
Emozionantissima Cecilia prende fra le mani l’oggetto e lo sciacqua con cura pulendolo con due tipi di pennelli diversi, a seconda delle incrostazioni, per non causare danni. Dopo poco il medaglione, grazie alle caratteristiche dell’oro che doveva essere di elevata caratura, riapparve splendente quasi come nuovo. Con un altro trattamento, che si poteva fare solo in laboratorio, avrebbe certamente riacquistato la bellezza originaria. Ma anche così era splendido.
Su entrambi i medaglioni, apparivano un viso da un lato e un’iscrizione dall’altro, che grazie ad una lente d’ingrandimento, fu possibile guardare nei dettagli.
“Cecilia, cosa vedi?” disse il professore.
“Professore, da un lato non ho dubbi, si tratta della raffigurazione di due divinità, una mi sembra Giove, l’altra non mi è chiara, forse…Apollo?”
“Giusto Cecilia, sei sempre brava!”
“Grazie professore, adesso provo a leggere le iscrizioni dietro.”
“Una sembra…Lu.. cr.. e.. tia, sì, sono sicura Lucrezia. L’altra…G…a…i…us, Gaius, Gaio.”
“Se diamo per certo che il corpo più grande è di una donna, stiamo di fronte ai resti di una madre e del suo figlio, che si chiamano…chiamavano Lucrezia e Gaio.”
Quando il calco dopo le verifiche ed i controlli, fu sistemato definitivamente in una delle sale del museo di Pompei, all’interno di una grande teca di cristallo, Cecilia fu avvisata della circostanza.
Appena i suoi impegni lo permisero si recò al museo e si fermò dinnanzi a quella teca dove giaceva quello che sembrava un gruppo statuario, ma che invece era la rappresentazione di due persone vere e reali coinvolte in un evento più grande di loro che nella loro eterna fissità, narravano, senza parole, alla commossa Cecilia il momento finale della loro vita.
Fu così che, dopo diciannove secoli, questi due comuni ed umili abitanti della città di Pompei, cancellata in poco meno di due giorni dalla faccia della terra, ritornarono a “vivere” nel loro abbraccio eterno, in una sala del museo di Pompei, grazie a quell’atto d’amore di Marco che regalò loro quei due medaglioni, con sopra inciso:
LUCRETIA
GAIUS
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