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Una bambina a Kabul
Fa freddo, una pioggia sottile e dispettosa intristisce ancor più il paesaggio che mi circonda.
Oggi, come allora, indosso lo stesso giaccone del giorno in cui mi fu concesso vivere, per poche ore, la più bella storia che ho avuto in Afganistan e forse della mia vita.
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Piangeva in silenzio, e io quasi non mi accorsi di lei.
In fondo poteva dare l'impressione d'essere un mucchietto di stracci abbandonato in quella fossa della periferia di Kabul.
Il crepitio delle armi nascondeva i suoi singhiozzi, ma non i sussulti del suo corpo ad ogni esplosione.
E fu quando ritenni opportuno saltare in quella fossa, per evitare di essere scambiata per qualcosa da colpire, che mi accorsi di lei.
Dopo essere saltata mi ritrovai immersa in una poltiglia fangosa e gelida, e soltanto allora ebbi l'esatta sensazione di averne combinata una delle mie; insomma una di quelle storie per le quali le mie figlie si domandano continuamente se sono sana di testa.
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Quella mattina avrei dovuto dare ascolto al buon senso e non sarei dovuta uscire e soprattutto non avrei dovuto farlo da sola.
Ma per quello strano modo d’intendere la vita e la mia professione, che com’è facile immaginare mi ha sempre messa nei guai, ebbi il presentimento che in quell'alba fredda e piovosa, la mia presenza sarebbe potuta essere utile a qualcuno.
Sono soltanto una fotografa, e ogni tanto mi diletto a scrivere qualche articolo che il mio direttore regolarmente cestina…ma quella mattina, non so dirvi come né perché, sentii d’essere attesa, e allora uscii armata soltanto della macchina fotografica e della mia paura.
Non so dire cosa si agitasse in me, ma sin dalla sera precedente provavo l'assurda necessità di andar fuori e di addentrarmi in quella zona che era stata pesantemente bombardata durante tutta la giornata precedente e parte della notte.
In albergo si dava per scontato che alcuni gruppi di miliziani del nord fossero già entrati in città, e questo, a dir la verità, sembrava preoccupare un po' tutti.
La gran parte degli addetti ai lavori, vale a dire giornalisti, fotografi, cronisti e cameraman, avrebbero preferito vedere per primi i militari inglesi, ma gli ultimi a rientrare avevano spento ogni illusione;
"Saranno i guerriglieri del nord a farsi vedere per primi"
Ad ogni modo era tardi per preoccuparmi se fossero stati gli uni o gli altri... poiché essendo in una fossa di almeno un metro di profondità, immersa nel fango, infreddolita, impaurita e fermamente decisa a non restarci per l'eternità, l'unica cosa che mi girava per la testa era scoprire cosa avrei potuto fare per riportare pelle e ossa in albergo... quando in una pausa di quello che sembrava essere uno sconvolgimento dell'universo, mi resi conto che accanto a me qualcuno si lamentava.
Quei singhiozzi provenivano da quel mucchietto di stracci logori e bagnati.
Vi fu un istante in cui dovetti impormi la calma, quindi, con molta cautela, presi a districare quei panni fin quando, alle luci della prima alba del mondo, due occhi scuri ed umidi di pianto mi osservarono con tale intensità da scuotermi fin nell'intimo della mia anima.
Era il musino sorpreso di una bambina che sgranò due enormi occhioni scrutandomi seria e silenziosa.
Sulle prime mi squadrò con attenzione senza mostrare alcuna paura, anzi, ebbi l'impressione che fosse soltanto sorpresa per quella mia presenza nella fossa... e mentre mi osservava tirò fuori una mano per asciugarsi il naso.
In quegli istanti mi sentii ridicola e soprattutto fuori posto, ebbi l'impressione di vivere un sogno e non mi resi immediatamente conto di quanto stesse realmente accadendo, fin quando lei, con una vocina fioca fioca, sussurrò, in uno strano dialetto qualcosa che non compresi.
Ricordo che scossi la testa e, sperando di farmi comprendere, mormorai nel mio pessimo inglese
“Not do be afraid, are an Italian photographer” (Non aver paura, sono una fotografa italiana)
Probabilmente non dovette comprendere il senso della parola "italiana" e allora sembrò allarmarsi, però rispose nella stessa lingua.
"Please... doesn't hurt me" (Per favore... non mi faccia male)
Ero confusa, spaventata e soprattutto stentavo a credere che quella bambina potesse parlare l'inglese, e soprattutto avesse paura di me.
Mi venne spontaneo mostrare un sorriso, che però lei non dovette interpretare nella giusta maniera, poiché si girò dalla mia parte e dopo qualche movimento nervoso scoprì completamente il suo corpo nudo.
Con orrore la osservai offrisi a me, e con altrettanto raccapriccio notai ciò che era rimasto della sua gamba sinistra; un misero moncherino che terminava all'altezza del ginocchio.
Soltanto allora mi resi conto di quanto stesse accadendo; lei, vedendomi bardata come un guerrigliero, mi aveva scambiata per un uomo, e fu tale la rabbia che con una mossa brusca le ricoprii il corpo.
"Don't you want?" (Non vuole?) chiese lei con voce sorpresa
"No! I am woman as you!" (No, Sono una donna come te) Risposi decisamente imbarazzata
Lei sembrò sorridermi, ma poi scosse il capo bofonchiando frasi senza senso.
Tentando di mostrarmi più calma di quanto non fossi in realtà, con una mano le ricomposi i capelli completamente fradici, e con la mia sciarpa le asciugai il volto.
Mi lasciò fare, ma mi resi conto che in lei qualcosa era improvvisamente cambiato, era divenuta inquieta, la sua sicurezza si era come volatilizzata, si era raggomitolata su se stessa lamentandosi e mostrando una gran paura.
Quel suo comportamento mi confuse, e non sapendo cos'altro inventarmi per tranquillizzarla, la presi tra le braccia e la strinsi a me all'interno del mio giaccone.
Percepii il suo corpo tremare forse per la paura, ma soprattutto perché era completamente gelato.
Allora le tolsi di dosso gli stracci che la ricoprivano e le feci indossare il mio giaccone nel quale lei scomparve completamente.
Ancora una volta lei mi lasciò fare senza reagire, osservando soltanto ogni mio movimento con molta attenzione.
Una volta sistemato quel problema mi dedicai a trovare un modo qualsiasi per uscire da quel guaio... Però a quel punto c’era una sola scelta valida da fare; andarcene tutte e due di li, poiché se fossimo rimaste ancora un po' in quella fossa, saremmo certamente morte entrambi per il freddo.
E così, preso il coraggio a due mani ne uscii fuori.
Quando mi girai per aiutarla ad uscire, lei mi guardò e scosse il capo gridando in tono isterico
"You go... you go" (Lei va... Lei va) “You here danger... you woman”
Sulle prime non compresi, ma poi il cenno eloquente delle sue mani mi fece intendere che non mi avrebbe seguito.
Soltanto in quel momento mi ricordai della sua gamba.
Istintivamente mi chinai sulla fossa e la tirai su senza che lei opponesse la minima resistenza.
Si aggrappò al mio collo e io presi a correre come una forsennata verso le costruzioni semi diroccate sull'altro lato della strada.
Sentii esplodere dei colpi dietro di noi e udii chiaramente il sibilo dei proiettili superarmi per andare a schiantarsi sui muri di quelle che dovevano essere state abitazioni.
Non so quale santo ci aiutò, ma raggiungemmo indenni l'interno di una di quelle rovine.
Dopo poco, dall'altra parte della strada, sentii una voce urlare qualcosa che non compresi, e sinceramente non m'interessò neppure considerare.
Sapevo che da quella parte c'erano i talebani, quindi l'unico pensiero che in quel momento occupava per intero la mia mente, era quello di uscire da quel buco e raggiungere l'albergo.
Però sapevo altrettanto bene che non sarebbe stata una passeggiata; ora che la luce del cielo si era fatta più chiara.
La piccola era ancora aggrappata a me e sebbene sentissi sul collo il suo respiro affannoso e impaurito, dalle sue labbra non uscì un solo lamento.
Le scoprii lentamente il volto e rividi quei due splendidi occhi fissarmi preoccupati.
«Not to worry you" (Non preoccuparti) mi sentii di sussurrarle, ben sapendo che invece avremmo dovuto farlo, e farlo sul serio e alla svelta.
Provai a guardarmi attorno e mi rincuorai vedendo che la parte interna di quelle mura, si mescolavano con le rovine di altre costruzioni che una volta dovevano aver fatto parte di un centro abitato.
Con lei sempre avvinghiata a me mi spostai in quella direzione, e per poco non fummo raggiunti da una scarica di colpi che si schiacciarono ad un paio di centimetri dalle nostre teste.
"No good" (Non buono) sussurrò lei lasciandosi scivolare in terra.
"You go" (Lei va) disse ancora restituendomi il giaccone e rimanendo completamente nuda indicando il retro della casa.
Per un istante la mia paura mi portò a pensare che quella fosse la migliore soluzione possibile, ma quegli occhi, e soprattutto quel corpicino, che ora vedevo in tutta la sua terribile magrezza e deturpato, mi dissero che se l'avessi lasciata avrei abbandonato mia figlia.
Ci nascondemmo in un cantuccio che mi parve essere il meno esposto e attendemmo che passasse quella scarica di colpi.
"They wants me" (Loro vogliono me) Sussurrò lei stringendosi le braccia attorno alle spalle.
"What does it mean they want you?" (Cosa vuol dire vogliono te?) chiesi un attimo prima di comprendere il senso delle sue parole e mormorare con il cuore in gola "Don't worry yourself, you don't return from them" (Non preoccuparti, tu non torni da loro)
A quelle parole lei sollevò il capo e nuovamente mi sorrise.
Con la poca libertà che ci permetteva quella scomoda posizione l'obbligai ad indossare nuovamente il giaccone, poi, utilizzando la cintura della macchina fotografica, glielo strinsi alla vita, la presi di nuovo tra le braccia e restando il più basso possibile mi diressi verso il retro della casa.
Ma soltanto quando udii grandinare i proiettili attorno a noi che mi resi conto che quella era la risposta per aver portato via a quelle bestie il loro giocattolo…Beh, forse non ci crederete, ma mi sentii molto orgogliosa di me.
Da quel momento e fin quando non uscimmo da quel groviglio di mura diroccate, dalle sue labbra non uscì una sola parola, e quando finalmente vidi di lontano la sagoma dell'albergo, riuscii soltanto a stringerla ancor di più a me e baciarla sui capelli.
Lei sollevò lo sguardo e mi sorrise, poi, allacciando le braccia al mio collo sussurrò
"with you" (Con te)
Il medico al quale l'affidai dovette faticare per staccarla da me, ed io per tranquillizzarla le promisi che sarei rimasta con lei.
Rimasi accanto al suo letto mano nella mano, parlando soprattutto di lei, e così scoprii cosa possa essere il vero inferno…e quando poco prima che si addormentasse, distrutta dalle emozioni e dalla fatica, sussurrò tenendo strette le mie mani tra le sue "You good" (Sei buona), sentii una stretta al cuore che mi fece un male del diavolo.
La lasciai quando fui certa che dormiva profondamente e da allora non ebbi più modo di vederla, ma per molto tempo continuai a pensare a quel volto di bambina di forse dieci o undici anni.
Dieci giorni più tardi, incontrando a Islamabad il medico dell'organizzazione internazionale al quale l'avevo affidata, con mio immenso dolore venni a sapere che era morta.
Mi sentii un pugno nello stomaco e mi ci volle un bel po' per riprendermi.
Sul principio ebbi l'impressione che lui non volesse parlarne, ma poi, dietro mia insistenza, mi confessò che era morta, alcuni giorni dopo il suo ricovero, forse perché il suo piccolo cuore non riuscì a sopportare d’essere stata nuovamente abbandonata.
Oggi sono tornata a Kabul e ora sono sulla sua tomba piangendo come una disperata. Non le ho portato neppure un fiore, (in questa sfortunata città gli unici fiori sono i bambini) ma ho deposto su questo piccolo tumulo di terra che abbraccia il suo corpo, tutto il mio amore.
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