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Il Naufrago
Era successo tutto molto in fretta.
La nave spaziale stava percorrendo un’orbita di fuga di quel piccolo pianeta per lasciarselo alle spalle e utilizzare il suo campo gravitazionale come una fionda, allo scopo di addentrarsi ancora di più all’interno di quel sistema solare sconosciuto.
Il pianeta era di classe 2, dimensione medio piccola, del diametro approssimativo di 12. 000 Km, e il computer aveva già calcolato l’orbita che li avrebbe sparati al di là di esso, con un’accelerazione sufficiente a raggiungere rapidamente il loro obiettivo principale: il pianeta più interno, che non era stato ancora battezzato se non con una sigla astronomica che ne denotasse scientificamente la composizione chimico-fisica.
Scopo della missione era di ottenere campioni per lo studio e l’eventuale sviluppo di una colonia mineraria in quello sperduto angolo della galassia.
L’ingresso nell’orbita era stato perfetto, dato che il computer aveva il controllo della navigazione, e il pilota aveva solamente dovuto dare il consenso alla manovra preimpostata dal potente elaboratore di bordo, scegliendo l’orbita più bassa, cioè quella che avrebbe impresso loro la massima velocità di uscita.
Alcuni attimi dopo l’ingresso nell’orbita di fuga, però, accadde l’imprevedibile: il motore principale ebbe un repentino calo di potenza fino a spegnersi completamente.
I sistemi automatici di sicurezza deviarono istantaneamente tutta l’energia al sistema di propulsione secondario, ma dopo un brevissimo attimo nell’abitacolo risuonò l’allarme di navigazione: era il modo del computer di segnalare che l’energia propulsiva non sarebbe stata sufficiente a terminare la manovra di attraversamento. La scelta dell’orbita bassa si rivelò immediatamente fatale ai quattro membri dell’equipaggio, saldamente legati ai loro posti dai sistemi di ritenuta per evitare incidenti durante la manovra prevista.
Il pilota e il copilota tentarono l’impossibile, cercando di deviare manualmente la rotta verso lo spazio esterno.
Ma purtroppo i calcoli del computer si rivelarono esatti: in assenza di una spinta propulsiva adeguata, la nave cominciò ad abbassare la sua orbita fino al limite esterno della stratosfera.
Accortosi della situazione, l’addetto ai sistemi dirottò tutta l’energia disponibile agli scudi esterni, pochi secondi prima che lo scafo cominciasse a scaldarsi per via dell’attrito con l’atmosfera.
I due piloti, ristabilito l’assetto di discesa, tentarono di controllare la navigazione il cui traguardo finale si stagliava sempre più nitido attraverso le nubi.
Sotto di loro si stendeva un continente sconosciuto formato da catene montuose e grandi pianure.
Fu su una di queste pianure che il primo pilota diresse lo scafo, che cominciava a scaldarsi nonostante la protezione degli scudi azionati a pieno regime.
La terra sotto di loro si stava avvicinando a velocità vertiginosa, e solo la grande esperienza del primo pilota fece sì che la nave ristabilisse un assetto planato, volando per una distanza che a tutti parve enorme e nel frattempo riuscisse a frenare quella folle corsa verso la distruzione.
La velocità era ancora spaventosamente alta quando lo scafo cominciò a toccare le prime cime della vegetazione che si stendeva sotto di loro, bruciando tutto al suo passaggio.
Poi ci fu lo schianto.
La nave ebbe un brusco contatto col suolo, ci fu un sussulto e infine calarono le tenebre.
Si svegliò dopo un tempo che non riusciva a determinare, con un senso di confusione e la vaga sensazione di essere fermo.
Aprì gli occhi e vide attorno a sé uno spettacolo devastante: quella che era stata una nave tecnologicamente all’avanguardia, era ridotta ad un rottame. Lo schermo anteriore, fatto di un robustissimo materiale trasparente, era squarciato da una roccia, che, evidentemente, era stato l’ultimo freno della loro spaventosa discesa.
Guardò accanto a sé e vide il corpo dell’addetto alle comunicazioni accasciato, in una posizione così innaturale da far sospettare indicibili rotture e lesioni interne.
Al di fuori della nave, non più trattenuti ai loro posti dalle cinture, stavano i due piloti, l’uno col corpo orrendamente deformato dall’impatto con la roccia antistante, l’altro mutilato e quasi irriconoscibile poco distante dal primo. L’impatto li aveva fatti sbalzare dal loro posto di pilotaggio, non più trattenuti dalle cinture, divelte dai loro ancoraggi per la spaventosa forza a cui erano state sottoposte.
In pochi attimi, si rese conto di essere l’unico superstite dell’equipaggio, un naufrago su di un pianeta alieno e molto probabilmente ostile e inospitale.
Improvvisamente però si rese conto che lo squarcio nello scafo stava facendo entrare i gas dell’atmosfera nell’abitacolo della nave.
Cercò di divincolarsi dagli strumenti che con la loro caduta gli impedivano i movimenti, per raggiungere la dotazione di emergenza composta dalla maschera d’ossigeno e dai medicinali, ma si rese conto di riuscire a muoversi con molta fatica.
Trasse un respiro e si rese conto con sorpresa che l’aria proveniente dall’esterno era respirabile.
A confronto con l’aria di casa sua, questa era solamente un po’ più ricca di ossigeno e c’erano odori mai sentiti mescolati ad essa.
Questa scoperta lo calmò, e si mise a lavorare per liberare la parte inferiore del proprio corpo dai rottami della nave.
Quando ci riuscì, si fece largo verso il portello di uscita, che non riuscì ad aprire per via della deformazione che aveva subito.
Scoprì però che il portellone di coda era pressoché integro, e così si armò della leva per l’apertura manuale e di molta pazienza.
Ogni giro della maniglia apriva di uno spiraglio l’enorme porta, dimensionata per il carico e lo scarico dei veicoli scientifici su otto ruote, quelli che avrebbero dovuto guidare per reperire i campioni di minerali e metalli da riportare in patria.
Ma ogni giro della maniglia acuiva in lui una sensazione di dolore diffusa in tutto il corpo, e si rendeva conto di avere la mente annebbiata per la terribile prova subita.
Le immagini dei compagni straziati gli tornarono alla mente e, sebbene la situazione fosse disperata, ringraziò dentro di sé si essere ancora vivo. Almeno per un po’.
Finalmente il portellone si aprì e lui scese, toccando per la prima volta la terra che li aveva accolti così rudemente.
Si guardò intorno, ma dovette schermarsi gli occhi perché la luce era molto forte.
Un giovane sole giallo, incastonato in un cielo azzurro?"celeste, irradiava generosamente quel piccolo pianeta, e lui immaginò che senza l’aiuto della vegetazione, la temperatura sarebbe stata veramente insopportabile.
Tutto attorno a sé vide piante di specie a lui sconosciute, con un grosso e robusto tronco e una folta chioma di verdi foglie.
Sedette su una radice scoperta e cominciò a pensare al modo di uscire da quella situazione, ma la stanchezza lo sopraffece e si addormentò.
Fu svegliato dai rumori della vegetazione, non avrebbe saputo dire quante ore o giorni dopo.
Il sole era di nuovo alto nel cielo, ma non sapeva né la durata di un giorno su quel pianeta, né quanti giorni locali era rimasto in stato di incoscienza.
Si alzo, con la testa dolorante, e si diresse alla nave.
Fece un rapido controllo dei sistemi di emergenza: comunicazione, supporto vitale, navigazione, accumulatori, computer centrale.
Tutto inutile.
La nave era morta, non c’era più un briciolo di energia che circolasse nei suoi sofisticatissimi circuiti, ridotti in pezzi.
Non c’era un pannello integro, all’interno dell’abitacolo.
Il computer non rispondeva più ai comandi vocali, lo scafo era orrendamente squarciato nell’anteriore, e solo la parte posteriore conservava un aspetto quasi normale, anche se l’intera struttura, a ben guardarla, si era sensibilmente deformata sotto l’enorme sforzo dell’atterraggio di fortuna, dando alla scena un tocco irreale e grottesco.
Il naufrago stava estraendo dai rottami i viveri di emergenza, per organizzare un campo di fortuna all’esterno della nave, quando il suo udito finissimo percepì un rumore cupo e roboante in lontananza.
La sua mente ottenebrata dal dolore fisico, non aveva considerato alcun elemento significativo dal momento dell’impatto.
Gli vennero alla mente come in un lampo le informazioni che il computer aveva elencate sul pianeta a cui si stavano avvicinando: oltre alle dimensioni e alla classe di appartenenza, aveva informato della presenza di forme di vita indigene, anche se primitive e di basso livello tecnologico, con una spiccata tendenza all’aggressività.
Si rese conto che non aveva organizzato nessuna difesa.
In tutti i casi, lui, l’addetto ai sistemi di una piccola spedizione scientifica, non aveva alcuna cognizione sull’uso delle armi.
Un panico irrazionale e gelido lo attraversò: si rese conto che l’impatto non poteva essere passato inosservato.
Anche una civiltà arretrata come quella aveva dalla sua parte il vantaggio del campo e del numero.
Lui era solo, praticamente disarmato e ferito. Il corpo gli doleva in più punti, e solo con fatica riusciva a muoversi, barcollando.
Decise di rientrare nella nave e attendere gli eventi.
Dopo qualche minuto, scorse alcune figure muoversi circospette nei dintorni.
Fu allora che vide quegli esseri alieni per la prima volta.
Ebbe un moto di ribrezzo alla loro vista: strisciavano per terra e la loro pelle era colore della vegetazione circostante. Su quello che sembrava il loro capo e sui quattro arti crescevano escrescenze verdi simili a rami. Fra gli artigli anteriori, ognuno di essi stringeva un’asta dalla forma curiosa.
Ai loro occhi, lui non era visibile, protetto dal buio dello scafo, ma loro si muovevano fra le macchie di luce della boscaglia, rivelando le loro forme orripilanti.
Una di queste figure arrivò vicino ad un lato dello scafo e, sorprendentemente, si eresse sugli arti posteriori, impugnando la propria asta fra quelli anteriori, ormai liberi.
Toccò la parete dello scafo con l’asta, producendo un rumore sordo.
Il rimbombo, all’interno della nave produsse un’eco che scosse i nervi già provati del superstite.
Non si accorse che, mentre il primo eseguiva questa manovra, un altro essere aveva infilato il capo all’interno dello scafo.
Il naufrago si girò e si trovò ad incrociare lo sguardo con quest’ultimo.
Fu un attimo eterno, durante il quale ognuno dei due vide il lampo dell’intelligenza e della paura nell’espressione dell’altro.
Sebbene l’aspetto dell’alieno fosse orripilante, non riusciva a staccare lo sguardo dai suoi occhi.
Il superstite si mosse verso la parete opposta dello scafo e a quel punto la paura prese il sopravvento: l’essere penetrato nell’astronave alzò l’asta che già teneva puntata conto di lui e lo guardò attraverso di essa.
Un attimo dopo, un rumore simile al tuono invase l’interno dell’astronave e il naufrago sentì qualcosa fischiargli vicino al corpo.
L’essere che lo aveva aggredito tornò sui suoi passi e richiamò con versi gutturali i compagni che, tutti sugli arti posteriori, si ritirarono velocemente nella fitta boscaglia.
Attese pazientemente che i rumori si spegnessero, poi andò a verificare cosa era successo durante l’incontro con l’alieno.
Un odore acre invadeva l’interno dell’astronave. Era dovuto all’effetto provocato dalla sua arma, che evidentemente doveva essere un’arma di antica ma efficace concezione.
Sicuramente un’arma ad impatto cinetico, una di quelle che per colpire usava una corpo di metallo compatto spinto da un’esplosione di miscela chimica.
Aveva studiato armi simili, ma solo come conoscenza accademica e storica delle usanze di alcune civiltà primitive, ma mai e poi mai si sarebbe immaginato che un giorno si sarebbe trovato faccia a faccia con una di queste armi, per di più puntata dalla parte sbagliata!
Doveva essere capitato proprio a contatto di una civiltà barbara e cruenta.
A riprova di ciò, vide un foro circolare nel punto dove si trovava la sua testa un attimo prima dello sparo. Solo l’istinto di spostarsi l’aveva salvato dall’impatto sicuramente mortale.
Di nuovo, sentì quel rumore cupo e roboante in lontananza, ma questa volta non c’erano dubbi che si stesse avvicinando.
Se solo la nave avesse avuto le sue difese funzionanti… era certo che nessun’arma di questi barbari avrebbe potuto superarle.
Ma era inutile, visto che la nave era completamente inutilizzabile.
Il rumore crebbe d’intensità fino a diventare quasi assordante.
Infine, dalla bruma della boscaglia, apparirono in lontananza alcuni oggetti spaventosi: agli occhi del naufrago erano simili a grossi animali, di colore grigio-verde e dotati di qualcosa simile a una catena al posto delle zampe.
Un lungo tubo era posto sulla sommità di ognuno di essi.
Era immerso in queste considerazioni, più incuriosito che spaventato, quando dai tubi si levò quasi contemporaneamente un fragore assordante.
Spruzzi di terra si levarono a pochi metri dal portellone di ingresso e investirono l’interno della nave.
Non poté reprimere un urlo di terrore: le armi che gli stavano rivolgendo contro erano notevolmente superiori a ciò che si era aspettato, e si rese conto che l’unica speranza di salvezza era la fuga nella boscaglia.
Ma gli assalitori avevano rapidamente aggiustato il tiro, e il suo tentativo di fuga fu stroncato dalla salva successiva, che sventrò la nave su un fianco e sul lato posteriore, esplodendo una volta penetrata all’interno dello scafo e riducendolo ad un mucchio di rottami.
Una colonna di fumo si levò dal relitto in fiamme.
Nulla di vivo poteva essere rimasto lì dentro.
Questo fu il rapporto che il primo esploratore riportò al comandante della forza di attacco.
Il comandante si tolse il binocolo dagli occhi e sorrise compiaciuto.
“Comunicate al comando operativo che il veicolo alieno è stato distrutto!” disse rivolgendosi al marconista.
Infine si liberò dalla torretta e scese dal carro armato che aveva personalmente comandato durante quell’attacco.
Il marconista si avvicinò mentre stava ancora contemplando le rovine fumanti.
“Il comando ordina che la zona venga immediatamente bonificata da tutte le tracce e chiede se abbiamo bisogno dell’appoggio dell’aviazione.”
Il comandante fissò i suoi gelidi occhi azzurri in quelli del marconista e rispose:
“No, puoi comunicare che l’attacco è andato a buon fine e l’emergenza è rientrata.”
Poi chiamò a sé la squadra di esploratori che per prima era entrata in contatto con la nave aliena.
“Sei sicuro” chiese ad uno di loro “che ci fosse una forma di vita ostile, all’interno?”
“Sissignore.” si sentì rispondere “L’ho visto con i miei occhi! Era orribile, e si è mosso per attaccarmi. Per questo ho aperto il fuoco e siamo rientrati per richiedere l’appoggio dell’artiglieria. Sono sicuro che stava per attaccarci con chissà quali armi aliene.”
“Si, è vero…” mormorarono le voci dei suoi compagni a questa affermazione.
Anche il comandante era intimamente convinto di aver preso la giusta decisione, e così, dopo un’ultima occhiata al relitto, fece voltare il carro e rientrò alla base.
Vide arrivare un enorme numero di veicoli carichi di soldati, di attrezzature scientifiche e di macchinari costosissimi.
Squadre di ingegneri scortate da soldati armati si stavano avvicinando ai resti della nave aliena per recuperare qualsiasi cosa che potesse essere studiata in laboratorio.
Ora toccava a loro finire l’opera, ma a lui, il comandante, convinto di aver agito per il bene dell’umanità, rimaneva la terribile sensazione di aver compiuto qualcosa di terribile e sbagliato.
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