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Quando la guerra ha gli occhi vedri
Un campo profughi, una guerra nata quasi tra l'indifferenza, una delegazione umanitaria. Un'esperienza che ti segna per sempre.
Uno sguardo pulito, occhi verdi bellissimi che mi guardavano senza particolare curiosità. In piedi, immobile in attesa di capire cosa avessi in testa. Non chiedeva spiegazioni era abituata a subire, ad aspettare che fossero gli altri a decidere. Ero arrabbiato, sorpreso, imbarazzato. Un cocktail che si trasformò ben presto in un forte malessere, vista annebbiata, improvviso blocco allo stomaco, dovetti mettercela tutta per non vomitare. Per fortuna le porte dell'ascensore si aprirono.
"Quanti anni hai?" La voce era acida come la mia bocca, un sapore acre quasi insopportabile.
"Diciotto."
"Da quanto tempo fai questa vita?"
Ma che cazzo te ne frega, chi sei suo padre? Domani riparti, non la vedrai mai più, di che ti impicci?
"Dal giorno del mio compleanno. Tre mesi."
Ti sei fatta un bel regalo.
Chiedere perché, sarebbe stato grottesco. Anche se era difficile pensare di potermi sentire più ridicolo di quanto già mi sentissi. L'avevo notata al campo profughi, troppo bella per passare inosservata, stringeva un bambino, lo teneva in braccio quasi fosse un giocattolo, Non l'aveva mai lasciato. Seguiva il cerimoniale un po' in disparte, non sembrava infastidita ma nemmeno interessata. Mi era sembrata l'unica persona normale di tutto il campo, noi compresi.
Aveva lo stesso atteggiamento, anche davanti alla vetrina dove l'avevo rivista. Al posto del bambino la borsetta, guardava la gente che affollava la piazzetta senza sottrarsi ma senza mostrare particolare interesse. Capelli biondi, quasi rossi, luminosi nonostante i troppi lavaggi e il pessimo shampoo. Era bella, molto bella, senza un filo di trucco, vestita in modo dimesso, pulita, niente che lasciasse trasparire il mestiere.
Non mi sarei accorto di niente se non avessi visto il soldato allungare la banconota e prenderla sotto braccio. Il mio era stato un gesto istintivo, ero intervenuto senza pensare alle conseguenze che per fortuna lei riuscì ad evitare, fornendo spiegazioni che non compresi perché la conversazione era avvenuta in inglese. L'americano sembrava perplesso, indeciso, alla fine però tra occhiatacce e imprecazioni si allontanò dopo essersi fatto restituire il denaro.
"Mi scusi, non avevo capito che volesse la mia compagnia."
Aveva pronunciato la frase in un italiano quasi perfetto, prendendomi il braccio. Mi spostai bruscamente, l'avrei presa volentieri a schiaffi ma seppure a fatica riuscii a controllarmi. Non ero arrabbiato con lei, non sapevo nemmeno con chi prendermela, con la guerra, con gli americani, con quegli stronzi che si illudono di mettere le cose a posto con pacchi dono e qualche banconota.
E adesso? Posso pagarla e rimandarla al campo ma cosa cambia? E domani?
"Come ti chiami?"
"Nadia".
Attraversammo il grande atrio dell'albergo, tutti gli sguardi erano puntati su di noi. Intuivo i sorrisini dei miei compagni di viaggio, la disapprovazione delle donne e l'odio di tutti gli altri: inservienti, ospiti, militari. Puntuale anche il cenno d'intesa e il sorriso idiota del direttore.
Maledetti imbecilli, siete talmente meschini, da non concedervi il benché minimo dubbio, pensate di aver capito tutto. Mi fate schifo, talmente schifo che il vostro disprezzo allevia la mia sofferenza.
Spinsi il bottone. Un inserviente in divisa chiese se avessi bisogno di aiuto. Davvero anacronistico, nonostante la situazione apprezzai il lato comico.
Quella che avrebbe dovuto essere una camera singola era quasi un appartamento. Attaccapanni a muro sulla destra, una cassapanca di legno al centro dell'entrata che introduceva in una specie di salotto con tanto di poltrona, divano e un tavolo. Il reparto notte comprendeva due armadi, un letto a due piazze, un divano e un tavolino fissato al muro. I dipinti appesi alle pareti ritraevano paesaggi e nature morte. Definirli brutti era quasi un regalo. La porta del bagno era aperta, una stanzone enorme, una vasca eccessivamente grande, un box doccia sicuramente, aggiunto di recente e un lavandino. Come d'abitudine constatai la mancanza del bidè. Sorrisi, era ormai diventata una mia fobia, un pensiero che mi aveva accompagnato in tutti i viaggi. L'arredo era di dubbio gusto, stile tipico del regime ma per lei era il paradiso. "Posso fare un bagno?" La vidi sorridere per la prima volta. Tanto entusiasmo era motivato, il campo ospitava circa duecento persone, soprattutto donne e bambini, quattro baracche enormi, inospitali, gabinetti e docce esterne. Uno spiazzo ampio che la mancanza di vegetazione faceva sembrare ancora più deprimente. Gli unici alberi all'entrata, due pioppi, sembravano finti. Non c'era filo spinato ma non avrebbe aggiunto niente, tanto nessuno sarebbe fuggito e comunque, nessuno l'avrebbe rincorso.
Nella città regnava un puzzo a stento immaginabile per noi moderni. Le strade puzzavano di letame, i cortili interni di orina, le trombe delle scale di legno marcio e di sterco di ratti, le cucine di cavolo andato a male e di grasso di montone; le stanze non areate puzzavano di polvere marcia, le camere da letto di lenzuola bisunte, dell'umido dei piumini e dell'odore pungente e dolciastro di vasi da notte. Dai camini veniva puzzo di zolfo, dalle concerie veniva il puzzo di solventi, dai macelli puzzo di sangue rappreso. La gente puzzava di sudore e di vestiti non lavati; dalle bocche veniva un puzzo di denti guasti, dagli stomaci un puzzo di cipolla e dai corpi, quando non erano più tanto giovani, veniva un puzzo di formaggio vecchio e di latte acido e malattie tumorali. Puzzavano i fiumi, puzzavano le piazze, puzzavano le chiese, c'era puzzo sotto i ponti e nei palazzi. Il contadino puzzava come il prete, l'apprendista come la moglie del maestro, puzzava tutta la nobiltà, perfino il re puzzava, puzzava come un animale feroce, e la regina come una vecchia capra, sia d'estate sia d'inverno. Infatti nel diciottesimo secolo non era stato ancora posto alcun limite all'azione disgregante dei batteri, e così non v'era attività umana, sia costruttiva che distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo.
Patrick Süskind, si sarebbe sorpreso di non riscontrare nessuna attività umana, sia costruttiva che distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino.
Vedevo i bambini giocare, urlare, rincorrersi ma le loro grida sembravano mute. Due uomini erano seduti in un angolo all'esterno della baracca, guardavano senza vedere, silenziosi, quasi immobili, passandogli vicino mi accorsi che si tenevano per mano, lo facevano in un modo che non destava curiosità, i loro visi non avevano espressione e non accennarono neppure un gesto. Le donne, vere padrone del campo, facevano il possibile per far apparire tutto normale, sorridevano, mostravano i figli, offrivano il caffè alla delegazione esibendo tazzine di ceramica. Sembravano marionette animate per l'occasione. Avevo l'impressione che tutto sarebbe stato smontato non appena ce ne fossimo andati e i "manichini" conservati in attesa dell'esibizione successiva.
Non c'erano odori, né profumi né puzza, sono sicuro che nemmeno il cibo avesse sapore. Anche i colori finivano per assumere una tonalità smorzata, quasi neutra. Solamente il nero delle baracche si distingueva dal contesto.
Alcune donne, grasse e gonfie da fare spavento, stavano stendendo della biancheria e ogni tanto guardavano sorridendo verso di noi. La più giovane si avvicinò chiedendomi di fotografarle, un breve attimo di delusione quando comprese che le foto non erano istantanee, un solo attimo per poi tornare a sorridere con la stessa espressione di sempre.
Nadia davanti a quella vetrina allungando la mano e stringendo quella banconota aveva acceso l'interruttore su un mondo reale, un mondo, che non ti permette di sfuggirgli nemmeno se corri a tavoletta con la tua auto potente. Aveva tolto quel velo dove avevi racchiuso quella realtà che adesso ti veniva incontro e non potevi evitarla.
Adesso anche l'aria aveva un odore acre, la cucina sapeva di cipolle e la terra emanava uno strano odore di erba bruciata anche se di erba non vi era traccia. Le urla dei bambini rompevano il silenzio e i manichini accomunati da una disperazione che i sorrisi non riuscivano a nascondere, purtroppo erano persone.
Attesi che chiudesse la porta del bagno e uscii. Cercai un negozio nella hall ma queste cose succedono solo nei telefilm americani, attraversai la strada e entrai in un negozio, un marcket stando all'insegna. Le bottiglie di rakija e maraschino sugli scaffali seppure disposte sapientemente, non riuscivano a mascherare il vuoto. Il reparto dei generi alimentari non migliorava il colpo d'occhio. Il banco della carne era praticamente vuoto, fatta eccezione per una pancetta appesa ad un gancio, delle costine, probabilmente pecora e un vassoio di salcicce, talmente secche, che avrebbero potuto essere usate come arma. Il piano superiore offriva qualcosa in più: casalinghi, giocattoli e abbigliamento. In un angolo, esposte sapientemente, una collezione limitata ma assai ben disposta di scarpe. Mi colpì il cartello - SCARPE ITALIANE - è davvero incredibile come la civetteria e l'effimero sopravvivano a tutto.
È bello pensare che nemmeno la guerra può uccidere i sogni ma bisogna fare attenzione anche i sogni possono essere pericolosi.
Quando rientrai era a letto ma appena vide il vestito fece un salto e me la ritrovai davanti. Non era nuda, indossava delle mutande che mi fecero tornare con la memoria ai tempi della mia infanzia, mia nonna le avrebbe trovate carine. Sorrisi ma lei non se ne accorse, la sua attenzione era tutta per il vestito che aveva già indossato.
"Bellissimo." Non nascondeva il proprio entusiasmo. "Ho sempre desiderato un vestito nero. Le signore vestono di nero." Si, non male, tutto sommato ma le scarpe erano troppo grandi, perciò ritornai al negozio. Questa volta lei mi accompagnava. Ricordavo una situazione analoga in un famoso film americano ma io non ero miliardario e la storia non avrebbe avuto un lieto fine. Mentre la commessa si occupava di lei, guardavo fuori, la vita scorreva normale, la guerra non era visibile se non nelle divise dei militari. La disperazione del campo profughi era tenuta lontana dalla città anche se c'era qualcosa nell'aria che impediva di essere sereni.
Nadia si avvicinò e mi mostrò le scarpe, le feci indossare anche un golf leggero che aveva sbirciato senza farsi vedere e prima di passare alla cassa, aggiunsi anche un orsetto di finto peluche. In strada le offrii il braccio che lei strinse con forza, quasi a volersi convincere che era tutto vero.
Era la fine di settembre ma faceva ancora piuttosto caldo, passeggiammo un po', per la cena c'era ancora tempo. La ragazza però sembrava a disagio, continuava a guardarsi intorno, fin quando scorgendo in lontananza un gruppo di militari mi chiese di poter cambiare strada "non voglio rovinare una serata così, incontrando qualcuno."
Non parlai, tornammo in albergo e ritirai l'auto. Inizialmente non capì, sembrava spaventata, forse pensava fosse già finito tutto, quando la invitai a salire non disse niente ma l'espressione era la stessa di quando aveva indossato il vestito. La strada era larga e poco frequentata, si sarebbe potuto guidare ad occhi chiusi, lei si abbandonò sul sedile e chiuse gli occhi. Parcheggiammo circa mezzora dopo davanti ad uno di quei complessi che avevo notato durante il viaggio, casinò, ristorante, albergo e chissà cos'altro ancora.
La sala da pranzo era ospitale, invitante, arredata con gusto, tovaglie bianche, molte piante disposte in modo da garantire una certa tranquillità, il servizio era affidato a ragazze giovanissime, naturalmente carine, vestite in modo sobrio. Cenammo lentamente, carne alla griglia, verdure al vapore, vino rosso. Divorò anche una fetta di torta, una quantità di panna da fare spavento. Ogni tanto scambiava qualche frase in croato con la ragazza di turno, traducendo immediatamente per evitare di mettermi in imbarazzo. Aveva un accento che ricordava vagamente il dialetto veneto, probabilmente dovuto ai soggiorni prolungati a Fiume, da dei parenti che aiutava nella gestione di una locanda. Studiava lingue e quando era scoppiata la guerra stava concludendo l'ultimo anno alle superiori. Si sarebbe iscritta all'università, il suo sogno era fare l'interprete, parlava correttamente italiano e inglese, ma riusciva a reggere una conversazione anche in francese e tedesco. Ebbe anche l'occasione per dimostrarmelo andando in soccorso ad una delle ragazze che non comprendeva le richieste di una signora tedesca, seduta a pochi metri da noi.
"Ti piacerebbe lavorare qui?" Mi spiegò di non avere nessuna possibilità, lei era bosniaca e musulmana, i profughi erano sopportati appena e in un posto simile l'avevano fatta entrare solamente perché era insieme a me. Avevo fatto una domanda di troppo, l'espressione serena svanì, la realtà prese il sopravvento.
Fino a quel momento aveva solamente risposto alle mie domande, ora invece aveva iniziato a raccontare e non sembrava volersi fermare. Suo padre era stato ucciso, così come i suoi due fratelli e il cognato. Era gente semplice, coltivavano la terra ad eccezione del cognato che faceva il meccanico. Erano orgogliosi di essere contadini, non si interessavano di politica ed erano convinti che la guerra non sarebbe arrivata fino a loro. Lei studiava ed era il vanto di tutta la famiglia. Furono sorpresi una domenica durante il pranzo. Erano rimaste lei, due sorelle più piccole, la sorella più grande e il nipotino "io mi sono salvata perché ero andata nella vigna". Compresi solamente in seguito il significato di quelle parole, le sorelle erano state violentate, percosse e abbandonate prive di sensi, vicino ai cadaveri. Gli aiuti bastavano a malapena a mangiare ma la sorella aveva bisogno di medicine carissime, anche perché non erano mai disponibili nelle farmacie e bisognava ricorrere al mercato nero. "Non mi dispiace fare quello che faccio, mi permette di mantenere intatto l'odio che provo. E chissà che un giorno... naturalmente questo non vale per te, sei la prima persona che mi tratta in modo gentile e non mi riferisco ai regali."
Quelle parole avevano il potere di farmi stare ancora peggio, mi sentivo addosso un carico enorme di responsabilità come se la guerra fosse colpa mia. Allungai la mano fino ad accarezzarle una guancia, lei vi posò sopra la sua per impedire che la togliessi.
Seguì un lungo periodo di silenzio, la radio trasmetteva Almost Blue di Elvis Costello, note dolcissime, meravigliose che rendevano ancora più palpabile la mia tristezza.
Fu lei la prima a parlare "Era dal matrimonio di mia sorella che non stavo così bene. Il mio primo bacio. Dio com'era bello Goran. Fu il primo ad essere ucciso nel mio villaggio, aveva 18 anni. Forse è stato fortunato" Avrei voluto cancellare quella disperazione, trovare le parole giuste ma non dissi niente.
Avevo considerato quel viaggio quasi un fastidio, un atto dovuto, uno spazio da trovare in agenda.
Quella guerra, fino a quel momento era stata un motivo di discussione, di polemica sulla opportunità di intervenire in quel conflitto. Alla vista dei morti ci si abitua, soprattutto se filtrati dalle telecamere ma quando la realtà si mostra con sembianze inusuali, si cela dietro gli occhi di una ragazzina cresciuta troppo in fretta, allora si che tutto diventa difficile. Guardi un bambino, pensi al suo futuro e ti fa pena, soffri di una sofferenza vera, vorresti poter fare qualcosa, cambiare le cose. Incontri lo stesso bambino al semaforo rosso con la mano tesa e non lo riconosci, non distingui la sofferenza, la disperazione.
Ripensai alla foto scattata alla postazione Nato, alla paura di essere scoperto. Al cuore che si era fermato quando da dietro i sacchi di sabbia era comparso un soldato. Aveva attraversato la strada lentamente venendo verso di noi, mentre il mio compagno di viaggio, sibilava "stronzo ti avevo detto di non farlo." Il silenzio era assoluto, noi immobili in attesa, lui si accese una sigaretta, puntò il dito e mimò il gesto di infilare la pistola nella fondina, sfoderò un sorriso a cui mancava solo la marca del dentifricio. Ci fece un cenno con la mano invitandoci a partire.
Bello lo spot. Un soldato americano che sbuca dalla trincea, un tubo di dentifricio in mano e una donna, naturalmente nuda, che grida: nemmeno la guerra può fermare il tuo sorriso se usi il dentifricio Dentabel.
Nadia mi seguì in albergo, probabilmente pensò che fosse giunto il momento di sdebitarsi, corse subito ad aprire i rubinetti della vasca, rientrando nella stanza si sorprese nel vedermi preparare il divano per la notte. Tentò di convincermi ad usare il letto, scherzai sui miei quarantatre anni e la cacciai a colpi di cuscino, lei finse resistenza e si infilò ridendo nel bagno facendo sbattere la porta. A volte un bagno bollente fa miracoli. Mi svegliai di soprassalto, avvertendo una presenza, il buio era tagliato a fette dai riflessi del sole che entravano dalle fessure della tapparella, ci misi un po' a raccapezzarmi. Nadia era accovacciata in terra vicino al divano, aveva ricavato una specie di sacco a pelo con la coperta e si era addormentata tenendomi la mano. Non so descrivere cosa provai in quel momento, i battiti del cuore sembravano impegnati in una corsa folle, le gocce di sudore si rincorrevano sparendo scivolando sul collo, il fastidio era insopportabile, non avevo il coraggio di muovermi per timore di svegliarla. Rimasi immobile a guardarla per un tempo che mi sembrò lunghissimo, gli zigomi pronunciati, la guance rosa, i riccioli biondi, le conferivano un aspetto semplice, plebeo nell'accezione più nobile del termine, niente affatto sensuale anche se il resto del corpo, quasi interamente scoperto era assai provocante. Un contrasto intrigante. Il respiro appena accennato, il sorriso compiaciuto nonostante la posizione, la facevano apparire ancora più bella. La tentazione era quasi incontrollabile, accarezzare quel viso, stringere quel corpo. Il ricordo della serata era ancora vivo ma in quel momento eravamo soltanto un uomo e una donna.
Anche adesso, a distanza di anni, quando ripenso a quel momento riprovo le stesse emozioni, la paura di cedere, le gambe malferme, il timore di fare rumore. Mi rivedo sgattaiolare fuori dalla stanza, la chiave dell'auto che non entra, la tentazione di tornare indietro ad ogni incrocio.
Ciao Nadia. Mi piacerebbe incontrarti in uno dei miei viaggi, magari in uno di quei noiosissimi convegni, sentire la tua voce in una cuffia, girarmi e vederti sorridere dalla tua postazione di lavoro mentre mi guardi con i tuoi incredibili occhi verdi.
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0 recensioni:
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Anonimo il 21/04/2013 22:00
Dio mio, signor Bui, mi scusi, purtroppo sto partendo per l'Irlanda e starò via almeno due settimane. Al ritorno voglio comunicare con lei per esporle la mia visione sull'uso delle pause in narrativa... ma comunque sono inezie, e non è detto che lei le accetti. Il succo è che il racconto è veramente bello e fa venir voglia di leggere. Se mi dimenticassi di lei, la prego di farsi vivo... ci tengo. Saluti.
Anonimo il 20/04/2013 14:23
Ci sarebbe molto da dire, di questo bel racconto. Mi limito a rilevare che il contenuto è davvero significativo e di grande rilevanza etica, morale, sociale.
Scritto anche molto bene; ed è per questo che voglio muovere un piccolo appunto sull'uso della punteggiatura, che in generale è ben messa, con le giuste pause. In alcuni periodi, tuttavia, anche se non molti, c'è un uso eccessivo e a volte errato della virgola. Sistemate queste inezie il racconto avrebbe il mio plauso completo, al cento per cento.
Nel caso le interessasse sarei lieto di perdere del tempo per segnalarle i punti nei quali, a mio modesto parere, ha ecceduto con l'uso della virgola. Saluti.
P. S. ho letto il suo commento a Katiuscia... lo faccio mio.
- Non é antiamericanismo... anche se il soldato americano era l'ideale per far risaltare... e il riferimento all'odore era un omaggio a Suskind. Grazie del commento e del giudizio.
- Un racconto bellissimo, scritto veramente bene e di una moralità per me entusiasmante. Finalmente un uomo vero, che non si abbandona ne al malcostume corrente ne ai propri pur naturali istinti, quando in contrasto coi suoi principi. Non condivido l'antiamericanismo e, nel pezzo del'odore che anch'io conosco bene, c'è un riferimento al diciottesimo secolo che per un po' mi ha confuso, ma sono dettagli. Questo è un grande racconto e merita il plauso! Complimenti sinceri.
luigi il 08/12/2011 18:03
intenso, interessante. dominano le tue sensazioni
- Ho letto con attenzione e trovo la narrazione avvincente. I protagonisti, immersi nel male "fetido" della guerra e del degrado, s'incontrano con sinergie positive e danno il meglio in condizioni pessime. Io non parlerei di trionfo del bene sul male, sempre troppo scontato e abusato... io vedo invece, in tutta l'architettura del racconto, uno spaccato di vita reale, dove tutto è, ma dove tutto avrebbe potuto essere. Le risoluzioni sono pensate nell'intimo del proprio essere uomo e donna, non solo maschio e femmina. Ma se fossero state diverse, cioè senza la rinuncia, sarebbero state sempre risoluzioni umane, mai volgari o solo istintive. Non m'interessa se la storia è vera o verosimile o inventata: io credo che il narratore e i personaggi delle sue narrazioni siano la stessa identità. Ma i personaggi godono di una libertà che spesso la vita nega all'autore... perciò li amiamo tanto. Bravissimo!
- Non replico quasi mai direttamente nello spazio delle opere, ma ho voluto fare una eccezione per Katiuscia: é vero siamo troppo abituati alla guerra, ai soprusi, alle ingiustizie per coglierne la drammaticità, spazi come questo aiutano a mantenere viva la volontà (di pochi) e la voglia di non rassegnarsi, mi dispiace solamente che anche qui, i racconti si leggono sempre meno, emerge una pigrizia immotivata se si considera che questa dovrebbe essere una comunità che si ispira a... idee comuni. Forse servirebbe una "spinta" da parte della redazione, magari un specie di giuria che si incarichi di selezionare e proporre alla lettura gli scritti che si ritengono meritevoli di segnalazione. La giuria potrebbe cambiare a seconda delle opere e dovrrebbe commentare pubblicamente.
Grazie a tutti per l'attenzione.
- mi hai quasi fatto piangere... hai mostrato una realtà a cui siamo troppo abituati per capirla veramente... l'hai mostrata attraverso il cuore di un uomo e gli occhi di una bambina cresciuta troppo presto... bravo davvero!!!!!!!
- STUPENDO! Comprendo perfettamente quella "addormentata tenendomi la mano".
Grazie a presto
- Nadia apprezza più di tutto di essere Amata nella sua essenza... il rispettare l'ALCOVA apre le porte di Un Paradiso interiore... in questo Odore.. di Miseria di Morte... e quando si profuma di Buono... anche se si è in mutande da Nonna... si viene subito divorati... da Baccanti e Sileni.. per Bacco Iacco..
Orfeo si gira indietro e perde tutto... mentre Euridice Piange.. e non sa più cosa dire..
facile preda per il nostro Eroe... che ha fra le mani in macchina.. le chiavi del Paradiso e dell'inferno... resistendo a tutti gli incroci della vita... corre ormai su una autostrada che porta al Sole...
con un occhio vago... guarda cartelloni pubblicitari...
la guerra può fermare il tuo sorriso... se usi il dentifricio Dentabell
in una bellissima donna nuda... in quell'attimo.. ma l'eco... sopraggiunge
la guerra ti farà saltare tutti i Denti... butta via il dentrificio... ti regaliamo una bella dentiera... Parabellum... ti hanno mitragliato tutti i denti.. uno a uno..
Adesso sono un vecchio Tossico... rimpiango quell'amore.. sciaquandomi nella fonte del cesso la mia dentiera... e bevo grappa sul monte Grappa per allievarmi dal dolore di tutti questi morti...
ma ancora spero di incontrare Nadia... andina dina.. dalia.. ida.. naida... quanti nomi mi frullano... in questo mio povero cervello.. rimasto al verde... dei tuoi occhi Amore... incredibilmente Celeste...
Gli voglio bene.. a Lupetta... scrive storie favolose... a volte è troppo stanca.. da troppo lavoro...
Racconto Sublime... Ivan... giochi al Buio... faccio un controbuio... e mi gioco tutto... su Nadia.. tanto sono i soldi di un certo Giacomino... che se n'è andato via...
Anonimo il 04/07/2008 06:31
Vorrei fare un commento al modo di leggere di Lupoalato che immagino sia una giovane autrice... se questo racconto, leggero come una piuma dal punto di vista narrativo pur denso come il piombo da un punto di vista etico-esistenziale le è risultato pesante allora c'è qualcosa che non mi torna, mia cara. Non voglio difendere Ivan Bui, anzi mi scuso con lui per questo mio commento, ma voglio ribadire che questo racconto, dall'alto della mia esperienza biologica(parlo di veneranda età è stupendo, magistrale, molto ben scritto e leggero come una brezza di vento. Si legge d'un fiato, ti prende il cuore e la mente e fa riflettere in modo positivo. Ha molti altri pregi ma limitiamoci a questo. Il grave è non saper riconoscere l'arte, cara Lupoalato... io se avessi scritto un racconto del genere mi sarei offeso. Chiedo umilmente scusa a tutti. Buongiorno. gi&ak
Anonimo il 03/07/2008 16:32
Opportunamente sollecitato, torno su questo brano e su alcuni commenti.
Il tenore degli ultimi due precedenti, cioè quello spontaneo di un veterano della narrativa, e l'ultimo appena sufficiente di una giovane (buona) promessa, sono nell'ordine delle cose: i giovani hanno necessità della loro innata, sana presunzione per emergere per cui s'atteggiano magari a critici professionisti mentre, chi ha già raccolto, ha atteggiamenti più disinteressati e naturali.
Quanto meno originale, è invece il commento di Brumana, che ritiene sbagliato e in qualche modo maschilista il rifiuto dell’alcova da parte del protagonista.
A mio avviso, Nadia aveva capito e apprezzato chi mostrava di frequentare lei piuttosto che il suo corpo, e aveva ricambiato con lo splendido gesto finale nel quale sostituisce, per l'appunto, sè stessa al proprio corpo.
La grandezza e insieme la semplicità di questo gesto ha sublimato, in entrambi i protagonisti, il ricordo.
Il Brumana ha naturalmente facoltà di espimere le successive considerazioni quanto il sottoscritto di dissentire.
Anonimo il 02/07/2008 13:14
In alcuni tratti e un po' pesante, ma poi si riprende. Buona la storia e il suo sviluppo. Un che di triste speranza. Bravo
Anonimo il 27/06/2008 01:25
Stupenda.
Scritta in modo magistrale.
Cento notiziari su quella guerra non riescono a farcela sentire, anzi, capire,
quanto questo breve racconto.
Atmosfere e situazioni ricostruite attraverso gli odori, gli atteggiamenti, i sentimenti, i dettagli.
La sublimazione finale della ragazza che dorme sul pavimento non avendo altro da offrire che quel gesto di riconoscenza e di semplicità estreme.
Infine, il dolore del distacco.
Sono esperienze che segnano una vita.
Sono favorito nel comprendere certe situazioni e ambienti, per il fatto che da bambino stavo in uno strano collegio per orfani trasformato in caserma dalla Wehrmahtc. Non era molto diverso da un campo profughi e gli odori, si sa, si ripetono con qualche variante come quello del pane d'orzo che non sopporto più.
Ciao e grazie dell'esperienza.
Tornerò a leggerti.
- mi sono commossa.. Stupendo.
ma è una storia vera o pura immaginazione?
- ... ricordo perfettamente questo tuo racconto... fu il primo che ti commentai e ancora una volta ripeto: bravo!
- L'ho riletto, è veramente bello. Ammiro molto questa tua capacità di descrivere particolari, di rappresentare visivamente i sentimenti.
- ...
sinceramente credo che tu abbia fatto male a non accettare il suo invito in camera da letto.
semplicemente perchè non credo che lei te l'avesse chiesto per sdebitarsi, ma perchè sentiva di voler stare con te, di far l'amore con te, una volta tanto non sesso ma amore! certo l'età... ma quella non conta in situazioni come questa, lei era più donna di molte 40enni occidentali. voleva offrirti quello che aveva di più caro, non solo il corpo ma anche l'anima...
ma probabilmente la morale con cui sei cresciuto, la situazione, ti hanno portato a decidere quello che era giusto fare per entrambi solo dal tuo punto di vista, e lei si è adeguata come sempre al volere di lui.
chissa se forse con il tempo anche tu ti sarai reso conto che questa non è stata una storia di pietà... ma di amore!
Anonimo il 24/11/2007 08:51
Ancora una volta l'esigenza della normalità e la spasmodica ricerca della semplicità sono alla base di quella burattinaia dinamica di situazioni che intreccia i fili di due vite apparentemente diverse ma, in realtà, molto simili.
Feriti da eventi di un passato ancora vivo, stufi di vivere in un mondo che "puzza", in una realtà amorfa e scialba, imprigionati in una condizione "che non ti permette di sfuggirgli nemmeno se corri a tavoletta sulla tua auto potente"; i due protagonisti, per un giorno, diventano semplicemente "un uomo e una donna".
Un bagno caldo, quasi purificatore, un goccio di vino, una montagna di buona panna, una lotta con i cuscini; il tutto per creare quell'atmosfera familiare, quasi infantile, in cui l'imbabarzzo lascia spazio alle parole, l'odio allo sfogo, il desiderio sessuale alla tenerezza più vera...
Ci sarebbe tanto altro su cui commentare e su cui riflettere in questa tua opera, Ivan, ma penso di essermi dilungata abbastanza...
Ti lascio, quindi, non senza dirti, però, che sei stato bravissimo!!!
- Ma non è una storia vero giusto?!?! Molto bella cmq.. vera o no... suscita gli stessi sentimenti..
- Più che concordare c'è da arrossire. Grazie.
ayumi il 10/10/2007 20:16
è bellissimo!!!!!
davvero davvero bello!! mi è piaciuta tanto la parte in cui descrivi la puzza che si respira quasi come se rappresentasse l'odore delle loro anime in putrificazione... è un racconto molto toccante e ammetto che mi sono commossa...
a stento riesco a credere che questa sia una storia vera... forse perchè la mia realtà è molto lontana ma... è tristissimo pensare a ciò che è stato...
però... che triste finale!!! avevo quasi sperato in un "per sempre felici e contenti" poi mi sono ricordata che era la realtà!
bello davvero! tanti tanti complimenti, sigh!^_^ ciau!!
- Penso che scrivere su queste cose richieda coraggio, oltre che capacità descrittiva e narrativa. Complimenti.
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