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UNA SERATA PARTICOLARE
La serata era piuttosto fredda, il viottolo illuminato solamente da qualche lampadina aveva un’aria sinistra, nonostante si trovasse in un quartiere del centro, a pochi passi dalla centralissima Piazza della Libertà .
Avevo parcheggiato l’auto in un area privata, dove la sosta era consentita solamente ai residenti ed era proprio quello che mi stava rimproverando una voce che intuivo venire da una finestra al piano terra. Cercai di scusarmi, balbettando qualcosa e misi in moto. Non avevo ancora appoggiato la mano sulla leva del cambio, che mi partì la testa senza controllo e sbattei con forza la fronte tra il cruscotto e il volante. Non sentivo dolore e dei pochi secondi che rimasi stordito, l’unica cosa che ricordo era il sapore dolciastro del sangue, in bocca. Avevo una gran voglia di sputare, ma non riuscivo a capire dove fossi e cosa stesse succedendo. Sentivo una voce concitata, ma non distinguevo né le parole, né la provenienza. Qualcuno aprì la porta e mi estrasse quasi di peso. Come sta? Mi scusi, o mio Dio, guarda che casino.
Mi avevano fatto sdraiare per terra, coperto con un panno, non sentivo freddo, anzi per la verità , non sentivo niente; avevo voglia di vomitare, ma in quella posizione mi sarei sicuramente strozzato. È morto? Chiese una voce in lontananza. Col cazzo, gridai e mi alzai di scatto. Il gesto mi procurò una forte sensazione di vertigine e non riuscii a trattenere il vomito.
Per fortuna dopo un tempo che mi sembrò interminabile, restammo io, un anziano signore che era accorso per soccorrermi e una ragazza bionda, con il viso stravolto, sembrava uno straccio e non era difficile intuire che era lei la causa di tutto quel trambusto. “È sicuro di non voler andare all’ospedale?” Al mio ennesimo rifiuto, l’uomo salutò e se ne andò. Tentai di verificare l’entità dei danni, qualche graffio e una piccola ammaccatura al parafango. Il dolore al collo era ancora piuttosto forte, guardai per la prima volta in viso la ragazza “ma dove stavi guardando?” Non accennò nessuna difesa, scoppiò a piangere, in modo così violento che provai imbarazzo. Mi invitò ad entrare in casa, la porta del suo appartamento, era quasi ostruita dalla mia auto e mi resi conto che, in quel punto, il muro era disposto in modo da rendere difficoltosa la vista e considerato, che avevo parcheggiato, quasi in salotto, sentii il bisogno di scusarmi a mia volta. Ci guardammo e quasi con imbarazzo ci presentammo, scoppiando a ridere. Francesca, sciolta la tensione, mi invitò a mettermi in libertà e ad approfittare del suo bagno. “Ti vanno due spaghetti al pomodoro?” Gridai, che li preferivo in bianco, considerando le condizioni del mio stomaco e ci ritrovammo seduti sul divano, a sorseggiare un bicchiere di vino bianco, in attesa che la pasta fosse pronta.
Avevo messo la testa sotto il rubinetto dell’acqua fredda e nonostante un massaggio vigoroso, i capelli umidi mi conferivano un’aria ridicola, sembravo la caricatura di quei gentiluomini d’altri tempi, impomatati e impettiti. Anche Francesca sembrava risentire dell’accaduto, era spettinata e si muoveva a scatti.
La conversazione era piacevole, frequentava l’ultimo anno di architettura, viveva in città da quattro anni e non aveva ancora deciso cosa fare dopo la laurea. I genitori, vivevano a Roma, l’unico fratello, più vecchio di lei, si era stabilito a Londra, dopo aver sposato una facoltosa ragazza inglese, conosciuta in India.
Ogni tre minuti si sincerava delle mie condizioni fisiche e si scusava per essere stata così ciorda. “È la prima parola che ho imparato del vostro dialetto.” . Finalmente una risata liberatoria.
Quando rideva era ancora più bella.
Più volte fui sul punto di toccarla, sfiorarle il viso, ma controllai quell’istinto e mi limitai ad osservarla. Si era infilata un paio di jeans e una camicetta, ma non riusciva a nascondere un corpo, quasi dirompente. Si muoveva in modo molto naturale e non sembrava far caso a qualche mio sguardo prolungato.
Si era creata un’atmosfera particolare, il tempo non esisteva, sembrava che ci conoscessimo da sempre, non c’era differenza d’età, non c’erano ostacoli. La desideravo da star male, ma non riuscivo a trovare il coraggio di andare oltre le parole, gli sguardi. Speravo fosse lei a prendere l’iniziativa, ogni volta che accennava un gesto, sentivo l’ansia crescere, ma non successe niente. Uscii da quella casa alle prime luci dell’alba.
Le sue ultime parole furono ancora rivolte al mio stato di salute, si offri più volte di accompagnarmi e mentre salivo sull’auto, mi sfiorò le labbra con un bacio, un contatto lieve, quasi inesistente, ma abbastanza per paralizzarmi.
Con i pensieri che mi passarono per la testa in quegli istanti, avrei potuto scrivere un libro, ma non dissi neppure una parola. La guardai cercando un gesto, un’espressione, qualcosa che mi facesse tornare sui miei passi. Continuai a fissarla per un tempo che mi sembrò lunghissimo.
Francesca non si mosse, non fece nessun cenno, fece qualche passo indietro e mi mandò un bacio con la mano.
Peccato.
Non ho più parcheggiato in quel cortile, non l’ho mai cercata, non l’ho più rivista.
Peccato.
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