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Le Ali di ICARO
Scena 1 - LA POSTAZIONE
(voce di uomo)
Gli angeli salgono e scendono dal “tubo”. Come a una stazione di autobus. Nella sala, vetrate tutto intorno che abbracciano la visione della Terra. Al centro il “tubo” è l’ascensore che porta a Terra. Sulla rastrelliera vicino agli armadietti degli oggetti, appesi vicino agli impermeabili primaverili spiegazzati, le ali da angelo pendono dalla rastrelliera. È quasi primavera adesso, sul pezzo di Terra qui sotto.
Un tavolo abbastanza grande ma non troppo, al centro della sala. Sarà un metro per tre.
Mario, Frida, Icaro e Alina, stanno giocando a carte. Sono angeli. Un’altra di quelle interminabili partite, quando il turno di guardia capita in un giorno gradito al Signore e da Terra, non ci sono tante chiamate.
Dalle vetrate altissime, il cielo si riflette chiaro e luminoso, terso. Se fossimo veramente presenti nell’atmosfera, e non lo siamo, potremmo dire che la Postazione sarà … ad un’altezza di 13. 000 metri. Direste circa 40. 000 piedi, se siete delle Postazioni del nord.
(uno degli angeli dice rivolto all’altro) “Hai notato? Siamo all’altezza giusta perché non sembri che gli aerei di linea ci si schiantino addosso. Guarda le nuvole sotto di noi, come si avvolgono su se stesse! Ahh, che meraviglia questi riflessi, che pace! Sotto però, è tutto grigio. Piove e sta calando il sole”.
Si, oggi sulla Terra, qui sotto, piove. La coltre di nuvole su cui si riflette il sole del pomeriggio è compatta.
Il pannello luminoso sulla parete, si accende ed il suono è intermittente, per fortuna abbastanza delicato, si diffonde per due o forse tre volte. La Direzione, grazie a “…Lui” tende ad evitare ogni forma di ripetitiva regolarità.
La pazzia non è un’esclusiva umana. Centinaia d’anni uguali non sono sopportabili neanche da un angelo.
Alina, corre. Lo sa, è il suo turno. Va alla rastrelliera, afferra le ali, le indossa, o meglio le “incorpora”. Va verso il tubo, l’ascensore. Entra, ripiega le ali perché le siano aderenti al corpo, poi lentamente comincia ad affondare nelle nuvole che invadono l’interno del tubo.. È un attimo e dalle pareti circolari e trasparenti del tubo non si vede che la sua testa. Poi più nulla. È andata. Ha dispiegato le ali.
Ahh, la sensazione di precipitare, che ti afferra ogni volta alla bocca dello stomaco quando scendi per una chiamata!
Non sono le vertigini, no. Che non potremmo. E neanche la velocità di caduta. È la sensazione fisica che dà il dolore del mondo quando di nuovo ti ci immergi, prende allo stomaco, come una nausea.
Passa… poi.
Alina dopo un attimo, è arrivata, è già operativa. Quando ci chiamano è sempre un caso speciale. Quando una chiamata arriva non è per una morte, o per un pericolo, o un miracolo o una rivelazione.
È sempre per un atto d’amore. Un atto d’amore che ha bisogno d’aiuto. Di un piccolo aiuto quando gli uomini non ce la fanno da soli.
Siamo noi che raccogliamo i nuovi angeli, siamo noi che setacciamo la buccia sotto del cielo, per raccogliere le anime che stanno diventando come noi: angeli. Siamo noi che li allontaniamo dalle tenebre nelle quali gli umani possono scivolare mentre percorrono la loro strada di luce. Li avremo tutti. Prima o poi.
Sono le anime che un giorno, la Pietà, libererà definitivamente come libererà noi, per salire finalmente su, nel Più alto dei cieli. Lo spero. Amen. Liberi del tutto. Liberi tutti.
…
Scena 2 - IN CORSIA
(voce di donna rivolta al pubblico)
“Per una volta, il nostro Centro ha ricevuto dei fondi, un finanziamento attraverso l’amministrazione dell’ospedale. È necessario organizzare qualcosa, una piccola festa. Per i nostri ospiti ricoverati. Io sono Alina, lavoro qui, ufficialmente come medico. Gli altri colleghi, mi chiamano Disa. Sta per ‘Disperata allegria’. Sono un angelo”.
(voce di uomo fuori campo)
Come una forza, con una allegria disperata che non cede alle spiegazioni, che non le chiede, che non cerca ragioni o torti, Alina è indomabile. Lei non è così per un qualche principio, è allegra per necessità. Quindi nulla… nulla la può scoraggiare.
Con infinita pazienza, riprende dal giorno prima il gioco, il lavoro di scrittura mai finita con il paziente del letto 53. Quante volte saranno? 50? 500? Lui o un altro. Carlo, il letto 53, capisce tutto, ma presto dimentica. Nei giorni di lucidità ai tempi in cui insegnava lettere, era un professore. Ora è un poeta, e le sue parole, belle, scivolano come lagrime sulla carta. Non riesce a fissarle, a fermarle. Se non quando c’è Alina.
Alina ha guadagnato le sue ali qui dentro. Ora spende le sue ali qui dentro. Anno dopo anno le sua pelle era diventata più chiara e diafana. Il suo sorriso grande, sempre più di luce. Le sue spalle, magre, sempre più curve. Un giorno è partita. Salita. È tornata poi. Subito lì, con le sue ali. Che non si vedono. No, non si vedono, ma ci sono, si! … che ci sono. È giovane ora, e nuovamente forte. In eterno.
Oh, ma non c’è solo Carlo. C’è Antonio, Angelica, Fausta. Tanti altri, come si chiamano non importa! Ridono, le fanno festa. Alina gira la testa, guarda: “Dove è Fabio?”, chiede.
È nella camerata, a fianco del letto. Silenzioso. Fabio è grande, ma nella sua mente è ancora bimbo. Guarda un piccolo pacco, lo svolge, lo apre. C’una piccola bambola, tanto umana. … Il vestitino, le piccole mani, due occhi azzurri che lo guardano. Come quelli di Rosy. Rosy, la sua sorellina, gli l’ha portato oggi la bambola. Per fargli compagnia. Lei deve partire. Deve partire.
Fabio, la guarda, la gira alla luce della finestra, L’ammira. La bacia. La ripone sul letto, coprendola un poco con il bordo della coperta. “Alina! Guarda come dorme”.
“Vieni Fabio, si lei dorme. Vieni caro”.
Fabio la guarda e abbandona infine la bambola della sorella. Si avvicina agli altri e scherza con loro.
…
Scena 3 - SUPERMERCATO
(sala della Postazione Mario parla con Icaro)
“Non credevo, giuro, non credevo che ci sarebbe arrivato! Che l’avrebbe fatto. L’ha bloccata!”
“Ma cosa, cosa Mario?”
“È lì, davanti al bancone più a destra di quel supermercato, all’ultima fila, quella delle acque minerali”
“E allora?”
“E allora… allora succederà che lei non lo capirà”.
I due angeli si guardano. Nella grande sala sopra le nuvole, un potente obiettivo. Montato su un’asta, così da poterlo dirigere ovunque al di sotto, la superficie d’oro del cannocchiale riflette i riflessi del sole.
Ora Mario continua a scrutare attraverso la lente, puntandola in basso ora qui ora là. Verso quel supermercato.
Nel supermercato è come nelle strade. Giri e giri. I carrelli vorticano per le corsie come le macchine sul raccordo anulare della città. Come una danza silenziosa si intrecciano i fili dei loro percorsi.
Sono consapevoli o no del proprio girare? Sono consapevoli i carrelli, le macchine, e gli umani stessi che sembrano agiti dal Vortice, dal Signore oscuro del Labirinto?
L’uomo girava da un ora, accostandosi al ripiano del latte e gli yogurt, con una finta verso il banco del pesce, ripartiva poi verso lo scatolame. Il fatto è che l’aveva vista anche oggi. Aveva rivisto lei. E come sempre non trovava il coraggio. Quanti mesi fa aveva notato le sue gambe lunghe e snelle? Il viso pulito, la camicetta tesa sul seno pieno. E il suo sorriso.
Si era immaginato 10 volte, 100 volte, di rivolgerle la parola. Ma sempre si era fermato all’ultimo. “Penserà che sono un maniaco, se la fermo così”. “Vorrei sentire il suono della sua voce, ancora: -Mi scusi, dove trovo il caffè?- Ancora, ancora. Risentire il suono di quella voce. Sentirla rivolgersi a me”.
...
“Va bene, non c’è tempo da perdere?" dice Mario?" io scendo”. Afferra le ali dalla rastrelliera e si cala precipitosamente giù dal tubo. Dalla grande sala sulle nuvole, va direttamente lì, verso quel supermercato.
...
L’uomo, intanto ha fermato la donna, l’ha bloccata con il carrello. Una manovra maldestra. La donna lo guarda smarrita. Un primo lampo di apprensione, già quasi di paura, le si accende negli occhi di lei. In quel momento Mario, in camice bianco, la divisa del supermercato, arriva e grida: “Attenta!” mentre una grande pila di barattoli impilati al lato di una corsia, precipita al suolo, con un movimento che sembra lento. Al rallentatore.
Ma i barattoli non sono cominciati a cadere dopo e non prima quel grido? Dopo e non prima che l’uomo la bloccasse con il carrello?
“Attenta!” ripete anche l’uomo del carrello. E con un gesto sposta la donna dalla traiettoria dei barattoli.
La donna lo guarda, è un attimo. È confusa dal lieve sfasamento temporale degli eventi, i barattoli sono caduti prima o dopo del grido? Ma è convinta a questo punto che l’uomo, quell’uomo, bloccandola con il suo carrello, l’abbia salvata.
Mario, l’angelo, porta via alcuni dei barattoli caduti e così si allontana dalla scena lasciandoli soli.
L’uomo parla, ora. È felice e con la sua voce piena di sentimento rassicura la donna. Le propone di bere qualcosa per riaversi dallo spavento. La donna accetta. Lasciano i carrelli lì e si avviano insieme all’uscita. Non lo sanno ancora, ma passeranno lunghi anni insieme da quel momento. Anni felici.
…
Mario risale. Dalle vetrate della Postazione guarda il labirinto della città. Le macchine, le persone, le strade. Nel labirinto, in ogni labirinto, gli umani perdono se stessi. Ogni meandro li porta a incontrarsi con il proprio “doppio”. Nel labirinto la ragione si perde, resta un esile filo di Arianna che li separa dalla pazzia. Il filo rosso, li separa dai propri pensieri oscuri. In bilico fra il bene ed il male.
Mario, tornato al tavolo, riprende a giocare l’infinita partita.
Scena 4 - AL PARCO
“Questa volta sei tornato. Che ti venga un colpo. Questa volta che volevo lasciarti, sei invece tornato. Proprio questa volta in cui di più ho bisogno di te.
Sei arrivato con il tuo passo svelto, un po’ dondolante ed il tuo grande sorriso. Sfacciato!
“Che fai, mi accompagni? Vado a Losanna per 3 giorni”, mi hai detto. Ma il tuo labbro trema, il tuo sorriso è malfermo. Questa volta non sei sicuro.
Ma con che coraggio vieni a ripresentarti qui, davanti a me?
Mi hai lasciato sulle scale di quella casa ed ero così allibita che non riuscivo neanche a piangere.
“Devo andare” hai detto, e dopo che ti avevo dedicato due mesi del mio tempo, togliendolo ai miei figli, al riposo, alle mie notti, alla mia vita, sei partito senza una seconda parola.
Mi hai usato come una cosa, hai preso il mio corpo sempre, sempre, sempre. Mentre la mia anima si allontanava. Sempre più lontana.
Si, ti ho usato anch’io: la rabbia, la rabbia, che ci mettevo a quel punto a chiederti vestiti belli, ca-a-ri e inutili. E sorridevo, si ti sorridevo, mentre pagavi i miei conti, mentre prendevi il mio corpo. Ma intanto dentro morivo.
Basta, basta, non ce la faccio più. Voglio un uomo che mi ami. Quel moscio di mio marito se ne andato, lasciandomi qui come una cretina. Appresso ad una stronza che lo comanda a bacchetta e neanche lo fa godere. Voleva l’ordine, diceva, la pace in famiglia, e con me non ne aveva. Con me aveva la vita, l’incertezza, i sospiri, l’amore.
E adesso questo, che si circonda il cuore di filo spinato. Ma cosa vuole? Perché mi tratta come una puttana? E allo stesso tempo dice che mi ama, che non può vivere senza di me.
Finirà, tutto questo finirà. Sto invecchiando, cosa faccio? Ho un altro uomo. Grande. Questo mi aiuta, non ha pretese, non mi opprime… Questo.. ha solo tiepidi slanci. È poetico... un po' patetico. E io, mi prenderò i miei spazi… tutte le volte che mi capiterà l’occasione. Per piacere, MIO! Avrò i soldi, avrò la casa, avrò tutto, tutto quello che voglio!
Sono stupenda! Fantastica! Intelligente! Ancora bella! piena di vita! … e... e … sono sola… e finirò i miei giorni sotto i ponti.
E l’amore?! Mah!!! Ma l’amore me lo invento! Con tutti questi bei ragazzi, vuoi che non trovo uno di cui potermi innamorare? Ne ho già uno che mi piace. Proprio adesso! A cui piaccio. Dice. E se mi userà anche questo, anche il MIO principe pellegrino, per una briciola di amore che mendicherò da lui?...
Ma tu, Tu… perché mi cerchi ancora? Tu che sei riapparso davanti a me. Trovate un’altra! Non hai capito-o-o? Non ci sto più!
Quante notti ho passato con te? Quante volte mi hai preso? Più di mio marito! Ti sei inventato di tutto, l’abbiamo fatto dappertutto e in ogni modo! Hai inventato per me giochi bellissimi, mi hai trattato come una regina.. Ma poi, ad un tratto il tuo viso diventava di ghiaccio, proprio in quel momento in cui stavo per cedere, per cedere al tuo fascino, per cedere all’amore. Cedere? Si, forse!
E così, con poche cortesi parole di circostanza, ti allontanavi, per giorni e giorni. Come se fosse per sempre.
Ma cosa? COSA ti facevo? Perché? sono forse così fredda? Sono una stronza? È questo che a un tratto vedevi in me, quando scappavi?
O era la gelosia, che non riuscivi più a trattenere? La violenza che stava per afferrarti le mani?
...
Siii! ci siamo usati, l’uno con l’altro, forse però ci siamo anche amati, così tanto, così tanto che non sappiamo, non sappiamo …
Adesso sei tornato. È l’ultima? Ti dirò ancora una volta si, oppure basta?”
…
La donna aveva ragione. Non ci sarebbe stata un’altra occasione. L’ultima, questa.
Mario, l’angelo, non visto li accarezzo sulla testa, prima l’una poi l’altro, prima che si baciassero, fra le lagrime.
Scena 5 - LUNGO LA STRADA
Siamo partiti con il sole. Che bello ora, il sole rosso del pomeriggio! Sullo scafo argenteo della macchina lanciata in autostrada, scivola come spuma luminosa! Poi lentamente, le ombre della sera. Un uscita, la prossima, promette un rapido arrivo.
“Cara, mancano ancora solo dieci chilometri. Fra mezz’ora dovremmo essere arrivati”.
A quel punto, usciti dall’autostrada, improvvisa, la tempesta di neve. Lo so, sembra incredibile ma nel giro di soli pochi minuti la strada provinciale ha preso a imbiancarsi ed il cielo è diventato imperscrutabile. Visibilità pochi metri. Una sensazione di premonizione mi spinge ad accostare quasi subito la macchina per montare le catene. Già dai primi fiocchi. Ma no, non posso crederci, non posso credere che realmente stia accadendo questo. Questa neve improvvisa. La resistenza mentale mi gioca con il suo inganno. Tardo quei pochi secondi. Quando sono giù della macchina con le catene in mano, il sole è calato definitivamente e la luminosità anche vaga che c’era, è svanita. Le mani subito si ghiacciano, metto i guanti ma non riesco ad afferrare i ganci delle catene con i guanti, non ho sensibilità. Non ci riesco! Ecco, è bastato quel minimo di esitazione nel fermarmi e ora è completamente impossibile montare le catene.
Questa tempesta sembra originata quasi da me. Direttamente da me stesso! Dal mio dubbio, dalla mia incredulità, dalle mie incertezze. E si allunga come un ombra, un fantasma su di me, su di te cara, l’ombra si allunga su di noi.
Decidiamo di avanzare lo stesso, lentamente. La nostra macchina è grande, pesante, forse... le ruote faranno presa ugualmente sulla neve fresca, anche senza catene! Andiamo avanti per diversi chilometri fino a quando la strada non si vede più. È interrotta? Diventa irriconoscibile. Guardo con stupore e con una contemporanea ammirazione estetica, quella strada che non c’è più. Davanti ai fari della macchina la strada è scomparsa, è diventata un campo. Un campo agricolo spazzato dal vento e dalla neve. Non so come, giuro non so come, ma riusciamo ad invertire la marcia e a tornare indietro. Ci accostiamo appena possiamo. Comincio ad essere nervoso, preoccupato, anche il tuo sdrammatizzare comincia ad essere forzato, stentato. Ma lo apprezzo, tanto. Cosa facciamo, cosa facciamo? La prima cosa, la più ovvia, telefoniamo all’agriturismo che ci aspettava. La padrona ci risponde concitata.
“Mio marito non vedendovi arrivare ha cercato di venirvi incontro con la 4x4, ma anche lui è stato bloccato. La strada è scomparsa in un campo!”
Il campo spazzato dal vento. Apparso improvvisamente. Quello che si è mangiato poco prima, la nostra stessa strada.
“Ha avvertito che sta tornando indietro alla fattoria. Si, c’è un’altra strada. Fa un giro molto più lungo. Dovete tornate indietro e fare una deviazione di altri 5 chilometri”.
Cinque chilometri in più? In questo bianco, sembrano una distanza infinita!
Faticosamente, torniamo indietro e riusciamo anche ad individuare il bivio dal quale prendere la deviazione. Quando ad un tratto, affrontando un piccolo dosso ghiacciato in salita, la macchina scivola all’indietro. Lentamente comincia a pattinare di lato senza più controllo, fino ad adagiarsi dolcemente al bordo della carreggiata. Con movenze da ballerina è riuscita anche a ruotare in senso inverso a quello in cui eravamo diretti.
…
Silenzio fra di noi. Ad un passo dal panico.
Chiamo la stradale. Benedetti telefonini! Difficile spiegare dove siamo alla guardia di turno. Lo sappiamo a malapena. Poi … una assurda considerazione mi viene alla mente: come mi qualifico? Mi sembra paradossalmente indispensabile, necessario, doveroso qualificarsi, per chiedere aiuto! Per un attimo mi blocco … balbetto. Sono consapevole ORA di essere in stato di shok!
“ Sono un cittadino! Vi chiedo soccorso”. Alla fine esordisco così. Tu ridi, come una pazza dell’assurdità della mia uscita! La risata sblocca anche me. Rido anch’io di me.
La trasmissione è disturbata. La guardia, prende i dati, ma mi avvisa che non potrà mandare una pattuglia in breve tempo. Due ore, tre ore?
Il motore è acceso ovviamente, ma perde i colpi. Si ghiacciano le cinghie di trasmissione o qualcosa del motore. L’idea di mettere le mani, dentro quel freddo e scuro vano, mi angoscia. Le luci dei fari hanno degli improvvisi mancamenti, come delle asfissie fotoniche. Rimarremo qui tutta la notte ad aspettare. Vivi?
Prima, prima che questo orribile pensiero faccia presa sulle nostre coscienze, una incredibile vecchia auto appare sulla cresta del dosso che non siamo riusciti a scalare.
Scende, si accosta a noi. Due giovani, due bei ragazzi ne scendono scherzando fra di loro. Si dirigono verso di noi.
“Serve aiuto?”
Scendo dalla macchina. Tu preferisci rimanere dentro. Hai tanto freddo. Gli dico la situazione per come la conosco, la strada davanti a noi pianeggiante dopo quel dosso, dovrebbe portare alla tenuta, nostra destinazione.
Ti offrono una sigaretta che fumi nervosamente dal finestrino aperto. Fai due battute. Uno dei due ti risponde guardandoti intensamente. Persino ora, persino ora in questa circostanza fuori dal mondo, sento una punta acre di gelosia che mi afferra alla gola. Sei bella e incosciente e so come è difficile tenerti legata a me. Ogni vento imprevisto, ho paura che mi ti porti via. Via da me. Come questa strada, come questa neve sferzante che sembra scaturita dall’inferno per portarci via, portarti via, via.
…
Ma questa volta non è così. I ragazzi sempre ridendo e scherzando affrontano la macchina. Mi chiedono di mettermi nuovamente alla guida. Uno allora si siede sul cofano, in corrispondenza delle ruote anteriori e con il suo peso fa perno. L’altro spinge la macchina di lato, fino a che la macchina scivolando, lentamente gira ed è nuovamente puntata nella giusta direzione. A questo punto accendo nuovamente il motore e con l’aiuto della loro spinta supero il dosso. … Ci affiancano per due chilometri. Ci salutano. Vediamo in lontananza le luci della nostra destinazione. Stavamo per perdere noi stessi, ma ci siamo ritrovati. Perderci, io e te. La nostra strada.
Ciao, Angeli, grazie!
Scena 6 - ALL’UNIVERSITA’
Oggi ho lezione, i miei alunni mi aspettano nell’Aula III. Si, insegno all’università. Devo pure poter far qualcosa per passare il tempo quando non sono di turno alla Postazione!
Oggi parlo in modo sciolto ed affascinante, ne sono consapevole! L’argomento che tratto mi piace, mi da i brividi. Non importa qual’è. Non ve lo dico. È che oggi mi sento bella e l’aria della primavera mette un tocco di dolce in ogni cosa. Non sono giovanissima, almeno per i canoni umani ho una rispettabile età, non parliamo poi della mia età da angelo! Ma per sentirsi belli bisogna per forza essere giovani?
Mi dico: “Frida, smettila, che vanesia! Siì seria, sei un angelo!”
Ma proprio non mi riesce oggi, di essere seria. Che ragazzi stupendi i miei alunni! Si è creato un affiatamento, una sintonia incredibile! Un affascinamento reciproco. Sono ormai grandi, prossimi alla laurea. Una di loro mi ricorda me stessa, così curiosa, romantica, amante dell’impossibile e sopratutto attratta dallo stupore. “Lo stupore è l’essenza della vita!”, mi ripete spesso, quando senza svelare fino in fondo quanto la sento affine, la prendo in giro, con la razionalità ed il buon senso.
La lezione va avanti per il suo tempo, ed al momento di lasciarsi, il solito gruppetto aspetta al di fuori dell’aula. Spesso andiamo a bere qualcosa insieme, se capita come oggi che la mia lezione sia l’ultima del pomeriggio. Ma oggi ho percepito qualcosa nell’aria ad un tratto.
Una nuvola ha oscurato il sole che calava. È stato solo un brivido passeggero. Ma qualcosa è stato.
Sono andata avanti come niente, ma quella sensazione di benessere che avevo all’inizio è svanita un po' per volta. Le ossa hanno cominciato a dolermi e la mia voce, mi arrivava alle orecchie non più limpida e affascinante come prima, ma artefatta, rallentata, incupita.
Non era reale, in quanto vedevo che i miei alunni ridevano ancora, allegri e stimolati dalle mie ossevazioni, dalla lezione. Loro stavano bene.
È più che altro qualcosa che risuona dentro di me. Un eco.
Ho visto Arturo ad un tratto. Lì in fondo nell’aula. E subito ho pianto. Un fiotto, uno sbotto, improvviso di pianto.
E ho capito perchè la nuvola nera.
Arturo, un mio alunno, il più sensibile e intelliggente. Ha preso una tragica decisione. Lo sento. Come lo salverò?
“No ragazzi, stasera non verrò con voi a bere qualcosa. Andate, andate... a presto.
Arturo! Arturo, mi aspetti? Ti vorrei parlare”.
Ma già. Non scappi, non mi sfuggi, non sei il tipo da ricorrere a questi sotterfugi. Anzi mi stai aspettando. Sei così sicuro di te, della tua convinzione, della giustezza della tua analisi e della conseguente decisione che vuoi sfidarmi. Mettere me alla prova, mettere alla prova le mie convinzioni e la mia saldezza.
Ora lo so, hai deciso di partire, hai deciso di recarti in quel Paese lontano e lì diventare un combattente. Forse anche un “martire”.
Cosa? cosa userò per argomento? per salvarti, per dissuaderti figlio mio? E non solo figlio mio, per salvare la tua vita, ma... l’anima. La retorica, no, la ragione no, i sensi colpa no: La Fede? la piètà ... aimè no. Non ne hai più. Sei un innamorato respinto, il tuo cuore è troppo ferito anche per aver pietà. Non ce la fai più a vedere la gente soffrire, a vedere l’ingiusto dolore. VUOI ESPLODERE! La rabbia, la rabbia e l’unico sentimento, che con la sua lama di ghiaccio è ora dentro il tuo cuore!
Come farò!?
No, non ti dirò niente. Vieni Arturo, prendimi per mano. Voliamo insieme verso il Cielo.
Scena 7 - AL LABORATORIO
Sono ore che sgobbi su quel computer. Ore di giorni che si sono accumulate ad altri giorni. Non so come, ma hai intuito la legge dell’Universo. Hai capito il concetto dell’Uno. No, non ci sei arrivata da sola. Lavorate in gruppo. Tu e il tuo gruppo siete carini e ragionevoli. È forse un delitto? È un delitto che le belle idee vengano anche a persone che praticano la tolleranza, che si lavano e che hanno anche una discreta posizione economica? Certo, nessuno di voi sembra uno scienziato pazzo, una poetica imitazione di un’anima bella e dannata che si perde per raggiungere la conoscenza suprema. Siete invece, come dire? ... piuttosto il tipo di “politicamente corretti”! Dei cricetini, bellini che rosicchiano con garbo, fino ad oggi, la propria esistenza.
Vi vedo la sera. A casa di Lucia, che sdraiati sul tappeto, che abbracciati sul divano al vostro amore, parlate e parlate. Di grandi sistemi, di teorie, di materia ed antimateria. Parlate di Dio.
E poi, un po' di vino, le castagne d’inverno, una pizza quando si può, una corsa al mare o alle terme secondo la stagione... quando è finito un esame la tensione si deve pur allentare per un attimo!
E andava bene così. Già bene così. Certo, così ci vorranno secoli prima che facciate quell’azione che vi liberi. Ma la direzione è giusta e il vostro futuro da angeli è segnato.
Ma tu no. L’altro giorno ci hai visti. Hai visto noi angeli. Non come persone. No, ma come se fossimo numeri. Un lungo elenco di numeri che hai memorizzato.
Come hai potuto? Come hai fatto?
Non ti basta però, non sei mistica. Non sei andata in giro a predicare, a dire: “Ho visto gli angeli! Ho avuto l’illuminazione!”. No, tu no. Hai chiamato i tuoi amici, cosi carini, così seri ed hai detto: “Ragazzi, ragazze, qui ci sono alcune sequenze numeriche che dobbiamo analizzare insieme. Sembrano portare tutte ad una stessa conclusione. Ad una stessa inspiegabile soluzione. Ora propongo, che ognuno di noi prenda un insieme di ‘stringhe’ di questi numeri e li sottoponga ad una seria analisi”.
E così, e così state andando avanti da settimane. Niente più pizze, niente mare o terme. Crollate la sera cotti, che non avete neanche più la forza per fare l’amore. Il tempo per studiare e poi tutto il resto del tempo a fare questi benedetti calcoli!
Oh quanto siete vicini! O quanto siete arrivati vicini alla verità!
Per forza! Lucia ha gia in mente più di metà della formula! L’ha sognata, l’ha intravista, ha visto noi angeli in trasparenza, sotto forma di numeri!
Ma come è potuto accadere?! Come?! Come?!
...
Sii!, ma si! Sono forse un angelo senza Fede? È chiuso il mio cuore e la mia anima, per non capire una cosa così ovvia?!
Sei Tu, sei Tu, Signore nostro, che hai concesso loro il passagio. Sei Tu, che li vuoi guidare, verso di Te! Vuoi provare con un Mondo più giusto? Vuoi provare a dare un’accelerata?
Sia fatta la Tua volontà.
E ci arriveranno da uomini, Te lo prometto, ci arriveranno da uomini, come Tu hai deciso. Con i loro mezzi.
...
Il computer di Lucia, snocciola sul video serie di numeri. Seguono un algoritmo, una formula, al quale di volta in volta, Lucia e gli altri, aggiungono o tolgono qualcosa, quanche segno più, qualche segno meno. Per poi ricominciare a ‘far girare’ il programma e ricominciare a snocciolare i dati sul video. I dati appaiono anche sotto forma di linee, tracciate dal pennino del plotter connesso al computer.
È notte, il lampione della finestra di fronte si spegne e si accende a tratti. Si sarà esaurito il gas, il neon nella lampada?
...
“La lampada, la nuova lampada di Aladino del genere umano!
Questa lampada, al neon, esaudirà i vostri prossimi sogni?
Attenti! ... a formularli bene, i prossimi desideri!”
...
Sfrigolio, di elettricità. Il campo magnetito variabile, prodotto dal reattore che nel lampione eccita ed accende il gas della lampada, sembra, dico sembra, aver prodotto un campo elettrico indotto all’interno del computer di Lucia nella vicina finestra. Ha bloccato per un attimo il computer.
Gli altri del gruppo ti hanno appena passato da analizzare quell’ultima sequenza di dati che hanno elaborato. La sequenza di numeri sul video si è momentaneamente interrotta, il video si è per un attimo oscurato. La curva tracciata dal plotter, registra un improvviso cambio di angolazione.
“Ragazzi! Eureka!”
Lucia guardando quel grafico sulla carta, ha capito cosa mancava alla formula dell’Universo.
Scena 8 - A CASA
Nell’appartamento di due piccole stanze vicino alla stazione, Icaro era disteso sul letto. La testa la teneva sulle ginocchia di sua madre, seduta sul bordo. Il pavimento di mattonelle in graniglia, assorbiva la poca luce proveniente dalla finestra. Icaro sudava malato. La mamma, gli bagnava la fronte a tratti, immergendo una pezzetta in una bacinella di plastica turchese contente acqua con un poco di aceto. Immergeva la pezzetta, la strizzava, poi gli la passava leggermente sul viso come una carezza, sulle labbra come un bacio, poi gli la posava sulla fronte. Dopo un poco riprendeva.
“Icaro, basta. Perché vuoi soffrire? Lascia, non mi trattenere.”
Icaro non rispondeva. Solo i suoi lamenti manifestavano il dolore che stava provando.
“Ti prego figlio mio, basta, basta! Ho fiducia in te. Vedrai che ce la faremo. Vedrai, la tua vecchia mamma ti stupirà ancora una volta. Andiamo”.
Fra i lamenti, Icaro apre gli occhi. Sono luminosi, bagnati di lagrime, di incertezza.
Quanto avevamo aspettato quel momento! Quanti anni e anni ed anni. Ed ora, che il momento era giunto aveva paura e si aggrappava alla vita, a questa vita, come un bambino che ha paura del buio e non vuole entrare in una stanza scura. La sua mamma, coraggiosa, serena, era più forte di lui che pure aveva le ali. Lui. E non avrebbe dovuto aver paura.
“Su, figlio mio, andiamo. Butta fuori questa paura e vedrai starai subito meglio. Ci sono io con te, ti proteggerò”.
Icaro, comincia a tirarsi su. È un ragazzo bruno, alto, bello. La sua pelle ora sudata per via del malore è però ora bianca, quasi livida.
“Prendo le mie cose figliolo. Tu vai, su! Lavati un poco il viso”.
La mamma, si diresse verso la porta dove vicino ad una specchio un po’ ossidato, pendevano dall’attaccapanni una borsa ed un giacchetto. Il giacchetto, color prugna, era di quelli con grandi trafori a rombo che lo rendevano quasi inconsistente. Evanescente. La mamma se lo infilò e prese anche la borsa. La borsa era di quelle quadrate con ampi manici. Era fatta di ampi riquadri di pelle, ormai sbiadita, alternati a scacchi gialli e marron.
“Devo ricordarmi le pantofole. Non si sa mai, se dove andremo le troviamo quelle giuste. Ho questo piede che mi fa sempre penare!” Da un cassetto della credenza, prese poi il borsellino, con il gancio di ottone sbiadito. Lo aprì, c’era la tessera sanitaria, il numero di telefono dei nipoti, del droghiere all’angolo e di amici scomparsi da tempo. La calligrafia a caratteri grandi ed ampi, un po’ incerta, aveva tracciato il foglio con l’inchiostro di una biro blu. Mise le pantofole avvolte in una busta ed insieme al borsellino le infilò nella borsa. “Ahh, i mie occhiali per leggere!”. Prese anche quelli e li ripose.
“Sono pronta. Ho tutto.”
Icaro, pensava. “Servirà tutto questo nel Luogo dove andiamo?”. Ma in fondo ogni oggetto è un simbolo che vale oltre la sua funzione materiale e quelli nella borsa, erano tutti simboli d’amore.
Era ormai pronto anche lui, lo spirito rinfrancato, le grandi ali bianche ricomparse dietro di lui, fremevano per dispiegarsi.
“Vieni mamma, sono pronto anch’io. Andiamo”.
L’aiutò a salire sul parapetto della finestra e salito anche lui l’abbraccio stretta.
Per un attimo prese ancora fiato, percorse l’orizzonte con lo sguardo, poi saltò nel vuoto.
…
Dopo un attimo di caduta libera… “Ahhh!!!”, fece la mamma! Dopo un attimo, le sue ali grandi come vele, cominciarono a battere l’aria. Lente, potenti. Ed i due cominciarono a salire nel cielo, descrivendo una lunga spirale. Il cielo era luminoso, la città si allargava sotto di loro. Rumori dalle strade, profumo di arance dal mercato, i bambini che uscivano da scuola. Era mezzogiorno.
Piano piano, si avvitavano nell’azzurro.
“Ho freddo figlio mio”. Icaro la strinse più forte ed aumentò la velocità con cui batteva le ali.
“Ancora un poco mamma, resisti. Fra un po’ non avremo più freddo”.
Erano ormai sulla cima delle nuvole, e sembravano camminarci sopra.
Le bianche distese silenziose si aprivano davanti a loro a perdita d’occhio.
“La Postazione, mamma, guarda. È qui che ho passato tanto tempo! Così tanto. Siamo liberi adesso! Liberi! Finalmente! Ti rendi conto?! Ho aspettato che liberassero anche te, ma adesso siamo finalmente liberi!”
A poco a poco, la Postazione si allontano sotto di loro e sulle sue ampie vetrate, non era più visibile il riflesso del Sole.
Il Sole. Dove erano diretti? Non lo sapeva neanche lui, neanche Icaro. Sapeva solo che il loro viaggio questa volta sarebbe stato più lungo, che avevano superato la Postazione e che non vi avrebbero più fatto ritorno.
L’aria si fece nuovamente tiepida, notò che i loro corpi stavano cominciando ad avere una certa lucentezza, una certa trasparenza. Rallentò.
“Che dici mamma? Va bene qui? Ci fermiamo”. Si adagiò su un raggio di Sole e richiuse le ali.
“Perché no, figlio mio. Perché no! Qui mi sembra perfetto. Sento che Lui verrà più tardi a chiamarci, per far quattro parole con noi. E poi… rivedremo gli amici che verranno a trovarci. Restiamo qui figlio mio, va benissimo”.
Scena 9 - MARE
L’Oceano si stendeva tutto intorno. Il sole a picco a mezzogiorno. Poca brezza tiepida.
Le onde, solo una leggera increspatura sulla superficie.
I minuti passavano, senza che nulla succedesse nella calma innaturale di quel mare.
Mare celato a tutti, nessun spettatore, nessun essere visibile, nessuno, nessuno.
I minuti passavano ma il Sole era fermo.
Le bolle all’improvviso.
Le bolle che salivano dalla profondità del mare.
Sempre di più, sempre di più, sempre più grandi.
Fino a quando un getto gigantesco, una alta colonna di mare si protese al di sopra della superficie.
In cima alla colonna c’era qualcosa. Qualcosa d’oro.
Una sfera, un uovo, balzò sopra la colonna di mare.
Era gigantesco, era lucente, era d’oro..
Ricadde nel mare con un grande tuffo.
E rimase lì a galleggiare ed a brillare.
Il Sole riprese il suo cammino.
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- Fantastico racconto
- Quasi ti dispiace di arrivare alla fine, bello é dir poco e bravo é limitativo. Sarò felice di rileggerti. Ti ha conosciuto attraverso un commento ad un mio racconto, che adesso mi sembra anche più ... pregiato.
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