Spengo la luce. Chiudo i miei occhi.
Fa un freddo cane sulla vetta di questa montagna. I miei piedi nudi affondano nella neve ed ogni volta non so quanto profondi s’inabisseranno. La curva levigata della cima sembra scorrere sotto i miei passi, mentre il Sole si srotola in fretta e và a posarsi e a fissarsi proprio di fronte a me. Posso allungare il braccio fino a toccarlo: le mie dita ne assaggiano la consistenza come quelle di un fanciullo nella marmellata calda di albicocche. Poi le porto alla mia lingua e lei assaggia il gusto della nostra stella. È rovente e affilato, è un misto di miele e limone, pepe e petrolio. Con un gesto veloce caccio via il sole. In tasca ho uno spago. Lo afferro e lo srotolo in fretta, stupendomi di quanto sia lunga la sua corda. Annodo un cappio, lo lancio nel sordo vuoto e pesco la Luna. Il taglio della sua forma ne fa un ghigno misterioso, così squarcia il mio filo e scompare rimpicciolendosi. Ora è buio pesto tutt’intorno. Non è più neve quella sotto i miei piedi, è qualcosa di più simile al ghiaccio. È bollente. Più che camminare saltello e non so perché ma continuo a farlo, anche se non vedo che il nero dell’aria. Poi il vuoto, anche sotto. Una caduta millenaria: così conosco tutti venti, le brezze e i più flebili soffi della natura. Potrei scrivere un libro di venti, ma peserebbe troppo, infine, per essere efficace. E dopo la caduta il tonfo, senza dolore. Sono nell’acqua tiepida, riesco a scorgere i fumenti di vapore. Immergo la testa e poi tutto il resto, ora c’è molta più luce. Un’oscura massa gigantesca mi sfiora la mano. Nel mio ricordo non rimane che la sua mostruosità. Non saprò mai di cosa si sia trattato, ma avrò pane a sufficienza per sfamare la mia immaginazione. Continuo a nuotare, finché picchio la fronte contro una lastra di vetro. Non devo essere nel mare, ma in una sorta di enorme vaso. Così risalgo e più risalgo più manca il fiato. Le bolle d’ossigeno fuggono dai miei polmoni. Svengo. Mi risveglio con la faccia nella sabbia e con la sabbia nella bocca, nel naso e dentro le orecchie. Gli occhi funzionano ancora abbastanza bene per annunciarmi che non mi trovo su di una spiaggia, ma in mezzo al più secco e arido dei deserti. In lontananza, traballante, uno scorpione brancola come un ubriaco e non mi spaventa, mi fa pietà. Lo afferro, lo mastico e lo ingoio. Svengo di nuovo. Mi risveglio e sono un albero. Posso muovere solo gli occhi, nient’altro. Le stagioni mi vestono di nuovi abiti, le piogge mi rinfrescano e le grandini mi lacerano. Tutto intorno a me si muove, io solo rimango immobile. Così per cento anni. E per cento anni il Sole pare vendicarsi del giorno in cui osai assaggiarlo. Si vendica nel più efficace dei modi: mi osserva senza fare nulla. Non fa nulla, e lo fa per giorni interi. Giorni che diventano mesi poi anni. Muoio.
La luce del Sole trapassa vetri e tende. Mi obbliga a riaprire i miei occhi.