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logoopediia
Ero seduto in un autobus, concentrato sui manifesti circensi e/o pornografici che tappezzavano la via dello stadio. Stavo pensando “L'immediatezza grafica delle pubblicità per Eva Henger non mi eccita affatto. Che il mio cervello funzioni come quello di una donna?”. Ero soddisfatto della profondità di questa riflessione, ma la dovetti accantonare un attimo per ascoltare la conversazione di due vicini di posto, un maschio e una femmina di qualche anno più vecchi di me.
Intuii che parlavano delle ultime vacanze estive.
“ E poi a Luglio ho passato tre settimane ad Amsterdam.. “ disse la ragazza con tono medio.
“ Figata! “ disse il ragazzo con quella che sembrava l'espressione standard di ' empatia per qualcosa di relativamente interessante successo a qualcun altro '.
“ Con i miei... “ lo corresse la ragazza alzando leggermente gli occhi al cielo con aria delusa.
“ Ah... che sfiga.. “ commentò il ragazzo affrettandosi ad imitare il registro della ragazza.
In quel momento avrei voluto alzarmi dal mio posto, trascinare i due alla prossima fermata, prenderli entrambi per un lobo e dire loro:
“ Cosa cazzo vi prende? Perchè continuate a torturare gli ignari passanti con i vostri dialoghi privi di alcun interesse e gonfi di stereotipi adolescenziali? Sforzatevi per fare in modo che i vostri scambi abbiano almeno un'infinitesima conseguenza nella vostra vita! “
Il flash fu breve. Una persona normale non avrebbe probabilmente reagito in questo modo scomposto. Ma era emersa qui una mia vecchia ossessione, nata circa dieci anni prima?" ovvero quando avevo cominciato a mettere in fila un pensiero non necessariamente legato a bisogni primari - , che la mia vita potesse essere una commedia brillante, con una sceneggiatura esilarante e priva di tempi morti, con un pubblico che reagisse ad ogni cosa che mi succedeva. Rispondevo indietro ad un maestro, e un applauso intenso faceva da eco. Facevo un'allusione sessuale ad una ragazza, ed ecco la platea dividersi tra risate, fischi e applausi maschili e ululati di disapprovazione femminili.
Ciò aveva reso la mia compagnia ovviamente insopportabile, sempre alla ricerca di una battuta: intelligente, se possibile; scatologica, se messo alle strette. Nei momenti in cui io ero in silenzio, era mia giusta pretesa che gli altri attori della mia personale recita si impegnassero a fare una battuta che piacesse alla mia fetta di audience, e quando fallivano lo prendevo come un affronto personale.
Questa mania era rimasta sopita a lungo, ma quel breve dialogo me l'aveva fatta esplodere di nuovo.
Uno psichiatra si sarebbe scervellato per capire le ragioni di una cosa simile, ma per fortuna io trovai la risposta con tutta facilità. E andava cercata nell'ambiente più degradato, spietato e cinico delle odierne metropoli: la prima elementare.
Non è difficile arrivare a capire che sei il dislessico ufficiale della scuola. Il primo, vivido segnale è rappresentato dai ragazzi di un anno più vecchi che ti chiedono di ripetere una frase che hanno appena detto. Per un attimo credi che abbiano una forma di ritardo mentale, poi realizzi che vogliono sentire come tu suoni.
E data la tua stirpe francofona, non è difficile immaginare quali saranno le special request.
I più vecchi, esperti consumati di scioglilingua, ricorreranno all'infame Trentatrè Trentini o ramarro marrone- combinazione cromatica che cercavo di spiegare non esistere in natura, senza successo.
I più sfacciati, che non sentivano la necessità di nascondere l'umiliazione sotto vesti di filastrocca, potevano semplicemente dire fai rrrrrr.
La prima cosa che capii fu che non potevo vincere questa guerra. Ogni tentativo, fatto di fronte allo specchio, di realizzare una R convincente faceva sospettare i vicini che stessi avendo un attacco d'asma, mentre i miei genitori avevano la certezza che non volevo saperne di accettare la mia eredità. Pensai ad un'ingiustizia del mondo: se un feto era prediagnosticato con la sindrome di Down, la madre poteva abortire; ma se un bambino di madre belga stava per nascere in Italia, questa misura saggia e compassionevole, che avrebbe risparmiato tante sofferenze al figlio, non era neppure contemplata.
Realizzai quindi che dovevo sconfiggere i miei nemici (niente mezzi termini: siamo in prima elementare) con un'arma diversa: aggirare il muro anziché tentare, tra sputi di saliva e catarro, di scavalcarlo.
Utilizzai le prime astuzie per sottrarmi alla tortura pomeridiana- quando mi veniva detto dimmi tre per tre, rispondevo prontamente nove. Il bullo poteva cercare di rincarare la dose, ignaro delle conseguenze: dimmi tre per tre per tre. Ventisette. I miei due primi amici né immaginari né propriamente concreti, gli esponenziali e l'umorismo.
Il mio problema di articolazione passò in secondo piano rispetto alla mia aspirazione a diventare il più divertente, capace di indurre al riso col semplice uso della parola e rovesciare le situazioni a mio favore.
Ed ecco che la mia vita divenne la mia personalissima commedia brillante.
La mia dislessia non fu più la principale cosa che attraeva l'attenzione verso di me. Ora erano le incredibili assurdità che uscivano dalla mia bocca. Avevo l'attitudine giusta, ma non la cultura sufficiente per diventare quello che volevo essere: vedevo forse qualcosa di anarchico, geniale-folle nell'alzarmi all'improvviso in classe, ad ottobre, per intonare Jingle Bells? Probabile. Era un gesto che sfidava le convenzioni sociali andare nel bagno delle ragazze a mostrare loro il mio pene- a semplici scopi umoristici, cercai di spiegare al preside-?
Ma era un'epoca di elevatissima autostima, un'appendice della mia fase anale- quello stadio della prima infanzia in cui sei curioso di quello che crei- :ovviamente la differenza è che a 2 anni puoi creare solo stronzi, a 6 puoi creare solo stronzate.
L'affinamento delle mie doti coincise purtroppo con l'adolescenza, la fase in cui cominci a capire che sei una nullità e ad amplificare oltremisura i tuoi difetti- ma non tanto da renderli interessanti.
Finalmente capii che la mia articolazione fosse davvero un problema, e per la prima volta cercai di risolverlo.
Voglio una logopedista, dissi. che possa curare la mia disfunzione.
Mi piaceva la parola 'disfunzione'. Dava una dimensione di omologazione e normalità ad una cosa che in realtà sembrava vivere in un universo parallelo in cui le leggi della fisica e della vibrazione linguale non valevano.
La prima sessione di logopedia fu strana.
Mi guardai intorno, e vidi disegni fatti da bambini, con strisce verdi a simboleggiare i prati, segmenti neri a rappresentare la pioggia.
Ritornai a dieci anni prima, al giorno in cui un'insignificante rivincita mi aveva fatto dimenticare ciò per cui ora mi trovavo in questa stanzetta d'ospedale. Avevo perso troppo tempo a crogiolarmi nella mia merda, ora dovevo uscirne.
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0 recensioni:
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- il seguito potrebbe esserci, e sarebbe evidentemente improntato sulle sessioni di logopedia.
ma sono ancora sotto terapia, quindi aspetterei per avere una maggiore visione d'insieme, you know what i mean
- Non è mai semplice raccontare storie di vita vissuta... siano esse tue oppure di altri. La prima parte non mi ha convinto molto... più scorrevole la seconda. Ma ha anche un seguito?
- vorrei dire a silvana pagella che il commento ad un'opera è qualcosa che (come avrà notato dagli altri commenti) va ovviamente oltre al giudizio numerico e non può essere espresso per chiunque allo stesso modo senza distinzione. viene da pensare che l'autrice lasci commenti in giro semplicemente per finanziare la propria logorroica prolificità e pubblicare le sue opere, che continuano ad uscire con infausta regolarità
- è probabile che tu abbia ragione, tra l'altro, scriverei se non avessi un pubblico? il mio essere rifiutato mi portò a cercare nuove caratteristiche per essere più interessante agli altri, ma l'immaturità mi portò a fare cazzate.
si può dire che il mio 'conflitto' con gli altri è stato indispensabile al mio sviluppo. in fondo siamo diversi con ogni persona con cui ci atteggiamo: se avessi incontrato più persone di un altro tipo, sarei diventato qualcun altro, anche se magari sarei stato quello che sono adesso con le poche persone dell'ipotesi, che sono invece la maggioranza della mia vita reale.
- io non ho cambiato atteggiamento per essere accettato: ho cambiato atteggiamento per vincere la mia battaglia personale. per quanto riguarda la maschera, la maschera "è" me: trovo l'espressione migliore di me stesso nelle vignette, nelle battute, nei racconti, perchè altrimenti non vedo quali qualità mi renderebbero diverso. forse è un bisogno di diversità, di avere un significato nel mondo, piuttosto che essere accettato- anche se una componente di quello è innegabile.
- io non ho cambiato atteggiamento per essere accettato: ho cambiato atteggiamento per vincere la mia battaglia personale. per quanto riguarda la maschera, la maschera "è" me: trovo l'espressione migliore di me stesso nelle vignette, nelle battute, nei racconti, perchè altrimenti non vedo quali qualità mi renderebbero diverso. forse è un bisogno di diversità, di avere un significato nel mondo, piuttosto che essere accettato- anche se una componente di quello è innegabile.
- io non ho cambiato atteggiamento per essere accettato: ho cambiato atteggiamento per vincere la mia battaglia personale. per quanto riguarda la maschera, la maschera "è" me: trovo l'espressione migliore di me stesso nelle vignette, nelle battute, nei racconti, perchè altrimenti non vedo quali qualità mi renderebbero diverso. forse è un bisogno di diversità, di avere un significato nel mondo, piuttosto che essere accettato- anche se una componente di quello è innegabile.
- si so che l'idea del truman show è comune.. l'ho sentita anche da mia madre e dal prof franceschetti, per dirne due. ma qui non ho l'idea morbosa e ansiogena che ogni mio gesto sia controllato, ma piuttosto che l'intelligenza di ogni frase che dico sia in esame. mi impegno a dire cose significative anche da solo, immaginando che un pubblico apprezzi quello che sto dicendo.
in che senso dici che mi sono adattato agli altri? il mio comportamento ne è stato sicuramente influenzato, ma adattarsi?