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Il processo di Socrate secondo Santippe. Seconda parte
"Quando sarà eseguita la sentenza? " - domandò Santippe a Critone
che era venuto a trovarla il giorno dopo il processo. "Nessuno può
saperlo. - rispose Critone - Deve tornare la nave sacra da Delo e sembra
che non possa ancora prendere il mare a causa dei venti contrari".
"Che c'entra la nave con la morte di Socrate?" - domandò, stupita,
Santippe. "Gli ateniesi mandano ogni anno una nave sacra a Delo per
ringraziare Apollo dell'aiuto dato a Teseo quando uccise il Minotauro"
"Questo lo so". - disse, impaziente, Santippe. Critone continuò:
"Una legge ha stabilito che la città deve restare pura fino a quando
la nave non sarà tornata; e dunque non si possono eseguire le sentenze
di morte" "Ah, è così! Fino a che dura la festa la città deve essere
pura ma, finita la festa, può tranquillamente insozzarsi del sangue
degli innocenti". Il tono di Santippe era sarcastico, la sua voce
tagliente. Continuò: " E Apollo, il divino Apollo, appagato da tanti
sacrifici e canti e danze, come può non chiudere un occhio sulle
nefandezze che la città compie, a festa finita?"
Critone la guardava perplesso e stupito. Cercò di placare l'esaspe-
razione di Santippe con l'ironia. "Se ti sentissero Anito e Meleto,
direbbero, anche di te, che sei empia". "Lo sono. Almeno nel senso
che voi date a questa parola. Non credo in nessuno dei vostri dei.
Il mio Dio non si fa corrompere da facili sacrifici di poveri
animali innocenti. Esige giustizia e pietà. È molto severo con
i potenti ed ha molta pietà per i deboli."
Critone la guardava sbigottito. Non sapeva che pensare, non sapeva
che dire. "E quando è partita questa nave cosiddetta sacra?" - chiese
Santippe. "Il giorno prima della sentenza che ha condannato Socrate".
"Se i venti sono contrari c'è speranza che tardi a tornare, - la voce
di Santippe si era addolcita - ma tornerà, tornerà, un giorno
o l'altro..." Scoppiò a piangere, un pianto aspro e nervoso, fatto
più di singhiozzi che di lacrime. "Potrai andare a trovarlo. - disse
Critone - Abbiamo già chiesto il permesso agli Undici, per i parenti
e per gli amici". "Posso andare oggi stesso?"
"Meglio domani. È più sicuro che ti facciano entrare. Più tardi
farò venire Mandane a tenerti compagnia". Santippe arrossì e guardò
con imbarazzo Critone. "Credi che soltanto gli schiavi siano capaci
di spiare i discorsi? Qualche volta lo fanno anche i padroni.
Mia moglie ha spiato i discorsi e le uscite di Mandane... Non
avresti dovuto ricevere in csa tua delle schiave e intrattenerle
come amiche. Non hai pensato al prestigio di Socrate? Ma non voglio
rimproverarti, ora. Del resto Mandane verrebbe lo stesso. Tanto
vale che la mandi io quando lo ritengo opportuno".
Santippe non disse niente: era irritata e mortificata per l'ambigua
generosità di Critone che aveva svelato senza pudore un pezzo della
sua vita, aveva concesso, rimproverando.
Più tardi, rimasta sola, ripensò alla sua vita, a quanto era stata
diversa da come l'aveva immaginata da ragazza. Di nuovo fu assalita
dal dubbio di non essere stata una buona moglie. Il processo e la sentenza
l'avevano investita con tanta forza che si sentiva disorientata,
incapace di giudicare con lucidità i suoi comportamenti.
Quel vecchio che aspettava l'arrivo di una nave per essere messo a morte
suscitava in lei tanta pietà che avrebbe voluto riavere tutta la sua
vita passata per regalargliela con un atto d'amore. Ma era ancora
capace d'amore? Per tanti anni aveva cercato di stabilire con suo
marito un giusto rapporto e, via via che aveva scoperto l'impossibilità
di realizzare un'esigenza giudicata ancora irrinunciabile, in lei
avevano prevalso sentimenti di delusione e di rancore, esasperati dalla
cognizione della fitta rete di rapporti ingiusti esistenti nella città.
Quale spazio poteva restare all'amore in questa rete? Poteva il marito
amare la moglie, il padrone lo schiavo, il cittadino lo straniero?
E tutti gli oppressi della città potevano amare i loro oppressori?
In una convivenza umana attraversata dalle divisioni e dalla
disuguaglianza, ogni forma d'amore sembrava a Santippe una forma
malata e falsa, una deformazione dell'amore. Si sentì smarrita, arida
e confusa. L'aveva afferrata un malessere strano, come un'insofferenza
di se stessa, un bisogno di fuga dall'oscurità enigmatica del suo
essere. Le sembrò che anche la voce del suo Dio tacesse. Lo invocò
in silenzio, nascondendo il viso tra le braccia appoggiate sul tavolo.
"Aiutami, aiutami!..."
Sua madre, entrando, credette che si fosse addormentata ma quando vide
il viso stravolto della figlia che si era girata verso la porta al
rumore dei suoi passi, si sentì gelare. Trovò la forza per dire: "Vieni,
usciamo. Un po' d'aria ti farà bene". Santippe disse di no, aveva ancora
molto da fare. In realtà non se la sentiva di affrontare, per la strada,
gli sguardi pietosi o diffidenti e sfuggenti del vicinato.
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- Grazie, Annalisa. Un abbraccio. Franca.
- Bellissimo racconto... mi piace troppo come scrivi


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