Questo breve testo è una parte del romanzo che sto scrivendo, e che ho quasi concluso. E sarebbe anche l'ora.
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Il pagliaccio piange. Lacrime bianche colano dagli occhi come gocce di cera che si gettano suicide dalla cima di una candela. Il sorriso rosso muta in una smorfia beffarda. Intorno luci basse di un circo sfarzoso. Gli spettatori ammutoliti dal suono incessante del pianto, le facce bloccate in un'espressione maligna nell'attesa egoista di una tragedia annunciata. Dopo essersi asciugato una lacrima, portando via uno strato di cerone dal viso, il clown prende un grosso coltello di plastica con la mano guantata e se lo conficca con forza nella pancia. Le budella escono alla rinfusa, e il pagliaccio torna a ridere una risata scomposta. Mentre il pagliaccio ride e muore, muore e ride di nuovo, il pubblico si alza in piedi per celebrare l'ultimo, meraviglioso spettacolo.
Mi sveglio ubriaco e sudato, disteso sullo scalino di pietra di un palazzo. Intorno a me un cielo cupo e un mondo che non conosco. Mi alzo e trotterello qua e là, borbottando frasi incomprensibili come in un qualsiasi doposbronza che si rispetti. Cerco di non pensare, SCOLLEGA LA MENTE CHARLES! NON PENSARE, VIVI! VIVI! ma è inutile, quel maledetto sogno mi ha turbato. Un pagliaccio può davvero piangere? Torno a sedermi sullo scalino che mi ha fatto da letto, e solo adesso mi accorgo di un vecchio barbone che si è sistemato qualche metro più in su. Sposta la coperta lurida e mi guarda con occhi vivi e un sorriso enigmatico -Il clown è triste- mi dice con un filo di voce. Tira la coperta sulla faccia rugosa, scurreggia, e si rimette a dormire ripiegando il corpo stanco in quel letto di stracci. Ed io non capisco dov'è finito il sogno e dov'è cominciata la realtà. Angoscia. Paura. Maledetto alcol. Devo smettere di bere. E allora grido. Un urlo spaventoso nella notte di Inglewood. Grido così forte che il mio corpo quasi si ribella, grido nella notte dei barboni, nella notte delle puttane, nella notte dei bravi e dei perdenti, nella notte che ha lacrime di whiskey e scurreggia sotto le coperte. Grido, e la mia voce accarezza un campanile, sposta una nuvola, mescola le stelle. Grido verso sud, verso Long Beach, verso la mia vecchia casa dove mia moglie dorme da sola circondata dai suoi panorami artificiali. Grido ancora più forte, ma so che nessuno può sentirmi in questo mondo con le orecchie tappate. IL CLOWN È TRISTE, il clown sono io, pagliaccio ubriaco che beve per dimenticare se stesso. Grido, ma non serve. Ho bisogno di un caffé, mentre l’urlo si disperde e io mi avvio verso casa. All’angolo fra Spruce e Nutwood il vecchio orologio bianco e nero continua a correre senza tregua, adesso segna le 5 e 26 del mattino. Triste destino, il solito giro da anni. Sotto, ancora lei, quella strana vecchia che fissa le lancette nell’attesa perenne di qualcosa o qualcuno. Mi siedo sulla panchina di ferro verde, guardo le sue antiche mani gialle che giocherellano con un rosario. Il volto è meravigliosamente liscio. I capelli, imbiancati dal tempo, racchiusi in una cuffia elastica. 5 e 29. Tossisco, accavallo una gamba, sputo per terra. Ma la vecchia non si muove, continua a fissare la lancetta dei secondi senza lasciarsi sfuggire un movimento. I suoi occhi avviliti sembrano stanchi, ma ancora carichi di speranza. Seguono il ticchettio regolare, rincorrono il tempo che scorrazza arrogante nelle strade di Los Angeles. Poi, quando il minuto finisce, ricominciano il giro con rinnovata energia. 5 e 31. È pazzesco. Tossisco di nuovo, sposto la gamba urtando il ginocchio appuntito della donna, ma lei niente, sembra che il mondo sia tutto in quell’orologio rotondo illuminato dal neon di un lampione. Vorrei parlarle, vorrei scoprire il motivo, vorrei vivere con lei su quella panchina per sempre. Ma ho bisogno di sapere cosa c’è da aspettare, cosa accadrà quando le lancette segneranno l’ora giusta. 5 e 33, 5 e 48, 6 e 12, non trovo il coraggio. Mi alzo e me ne vado. 6 e 17, un altro giro è iniziato. Non è ancora il momento.