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La casa stregata
Era, per il suo aspetto, stata soprannominata “casa stregata”, nicchia di misteri inquietanti il suo giardino, ma la porta di legno scuro, i muri vinti dall’edera, attraevano da sempre lo sguardo di Mario, da quando bambino, si recava in visita ad un’amica della madre. In paese ventilavano leggende di fantasmi legate a quelle mura decadenti, di presenze oscure che custodivano ed abitavano quelle stanze. Qualcuno improvvisatosi testimone addirittura aveva affermato di aver sentito voci e visto immagini ultraterrene passando da quelle parti ad una certa ora della notte, per non parlare poi d’alcuni muratori che sostenevano di avere tentato di montare la loro attrezzatura per cercare di ristrutturare quel gioiello d’architettura, ma sempre era stata trovata divelta, come se qualcuno o qualcosa di misterioso appartenente al passato non desiderasse intrusioni di nessun genere da parte del presente, respingendo la vita e la luce. Il bimbo nei suoi giochi di fantasia l’aveva soprannominata “teatro d’ombre” ma non guardava con timore il cancello di ferro battuto imbrigliato dai rovi, catene di spine che sembravano volerlo chiudere per sempre, sigillandone i segreti in uno scrigno cui nessuno più aveva accesso e le statue di putti antichi erte ai lati dell’entrata principale parevano sentinelle vigili, pronte a scacciare con i loro occhi ipnotici i riverberi del sole d’agosto.
Era sempre stato attratto da quel luogo, dallo sguardo vibrante delle finestre private dei vetri, alcune delle quali avevano conservato tendine di pizzo lacerate: gli incuriosiva sapere cosa vi fosse al di là delle imposte di legno corrose dalle piogge e dall’inesorabile lavorio del tempo, voleva dipanare le favole delle quali era sicuramente stata dilatata la portata viaggiando di bocca in bocca ai pittoreschi personaggi dei paesi, ma era sempre troppo piccolo per potervi giungere da solo ed attendeva ansioso l’età giusta per viaggiare con la sua bici e più liberamente mettersi nei guai. Quel giorno che sembrava non volere mai arrivare, giunse. Pur memore delle fiabe inquietanti che gli anziani raccontavano aggiungendo particolari diversi e sempre più coloriti a quelle storie già note da anni, non si scoraggiò e con il suo amico Giulio si avvicinò a quella nicchia di mistero, s’intrufolò attraverso la ringhiera arrugginita nel giardino ormai gerbido e percorse il vialetto che portava all’uscio della villa. Le due statue tendevano le mani verso i due ragazzi come a volerli invitare ad entrare in quel mondo sconosciuto con il loro sorriso di pietra.
Il marmo delle colonne che sostenevano la tettoia dell’entrata principale, s’intravedeva appena dall’intreccio di rovi che le cingevano in un abbraccio convulso, ma si poteva intuire l’antico splendore, il lusso e l’agiatezza che aveva caratterizzato quella dimora anni e anni or sono, dalle rifiniture in marmo incise da abili scultori che incorniciavano porte e finestre. Vi si potevano ammirare motivi di angeli che sorvegliavano la strada oppure composizioni floreali decorative; il tutto ingrigito dall’incuria e dall’assenza di chi vi aveva vissuto per anni e che forse lì era stato felice.
Marco tentò di spingere l’uscio e s’accorse che quella porta era semplicemente socchiusa, non sigillata dalle forze occulte di cui tanto si raccontava. Represse il brivido di ghiaccio che gli percorreva la schiena nonostante il suo scetticismo di sempre e dovette farsi forza per violare quel regno di silenzio e di penombre. Ora non ci si poteva fermare. Giulio lo seguiva baldanzoso ed impavido come sempre e volle farsi avanti visto che l’amico improvvisamente s’era fatto titubante. Varcò la soglia di quella che un tempo doveva essere stata la cucina. Dal piastrellato di cotto annerito d’antica polvere riecheggiavano passi muliebri intenti a governare i pasti che forse venivano serviti nella grande sala adiacente dove troneggiava ancora un enorme tavolo di legno massiccio circondato da alcune sedie tarlate e invase dalle tele di ragno che regnavano ovunque. Un coltrone di velluto rosso incupito dalla polvere e sdrucito in alcuni punti, divideva la cucina, regno delle donne di quella famiglia benestante oppure, più probabilmente, luogo di lavoro di camerieri e cuoche indaffarati nelle loro mansioni, dall’ ambiente destinato ai convivi. L’incuria attuale lasciava trapelare la cura meticolosa del passato e si poteva facilmente immaginare che quei mobili ora sgangherati, un tempo erano cosparsi di cera grassa e profumata, che le vetrine rilucevano di bicchieri di cristallo e le bottiglie di liquore dovevano essere state numerose, là allineate sul ripiano della credenza ora polveroso e cosparso di vetri rotti.
Forse in quel salone erano stati festeggiati molti e molti natali e compleanni e il grande tavolo che troneggiava ancora imponente in mezzo alla sala era stato apparecchiato con tovaglie di lino ricamate, pronto ad accogliere i pasti fastosi, di molte portate, che caratterizzavano quelle occasioni speciali. Gli invitati, numerosi, sfoggiavano i loro vestiti migliori, soprattutto le donne che non volevano di certo sfigurare di fronte alla padrona di casa.
Chissà, probabilmente era quella donna raffigurata nell’immagine di fronte a ciò che restava della libreria, una personcina esile, chiara di carnagione, di rara bellezza.
Un vento gelido fece turbinare la polvere, regina indiscussa di quelle stanze. Si udì un sussurro lontano che pareva assumere caratteristiche di voce umana e che poi si dissolse rimbalzando su quelle pareti, sui ritratti ad olio patinati d’ombra, sui lampadari curvati ed indeboliti dalla ruggine sui volti impalliditi dei due ragazzi che non s’aspettavano l’eco che aveva percorso il corridoio che l’invitava sinistramente a proseguire.
Allora i vecchi raccontavano il vero? Allora le favole non erano tali ma verità che avevano ragione d’esistere? Bisognava scoprire il vero, strappare a forza le maschere colorite delle leggende per poter deridere finalmente le paure che avevano animato i sogni o gli incubi di molti e deridere finalmente chi aveva messo in giro certe voci anche se quello pareva essere davvero un luogo posto al di fuori del tempo.
Ormai il corridoio era stato imboccato ed i timori di entrambi parevano averli rivestiti curiosamente di una forza che non credevano d’avere. Seguirono invece di sfuggire a quella voce: proveniva dal fondo del corridoio e a questa voce d’uomo se ne aggiunse anche una femminile che pareva essersi spaventata di fronte all’intrusione dei due ragazzi. Sempre più chiaramente essi realizzavano che i discorsi concitati provenivano da esseri terreni almeno quanto loro. Ma chi erano? Si arrestarono di fronte alle due figure che avanzavano con passo lento ma deciso e non avevano per nulla l’aria di fantasmi. Un uomo canuto e dallo sguardo vivace, li accolse con un’espressione di sorpresa e la sua aria trasandata faceva pensare più ad uno zingaro che ad un essere ultraterreno. I tratti del suo volto ripiegarono in un sorriso ed un ventaglio di rughe gli s’aprì sulle guance rubiconde, raggiungendo gli occhi piccoli e scuri che fissavano Mario e Giulio ora in preda all’imbarazzo. Il primo si torturava il bordo della maglietta attendendo che qualcuno prendesse l’iniziativa di parlare mentre il secondo fissava la donna che stava un po’ in disparte ed avvolta nell’ombra.
Chi siete? osò chiedere Giulio. Prima di rispondere l’uomo assunse un espressione bonaria e domandò loro il motivo di quella visita inconsueta da parte di due ragazzi. Era convinto fermamente che i ragazzi fossero stati intimoriti a sufficienza dalle chiacchiere che circolavano a ruota libera nei paesi del circondario e considerava una stranezza il vedersene di fronte due così in tenera età. Essi gli spiegarono il motivo di quella loro violazione ed attesero risposte convincenti. Il vecchio li invitò in una stanza trasandata, l’unica forse che avesse i vetri, ma a modo proprio confortevole e li fece accomodare sulle poche sedie buone e private delle tele di ragno appartenenti alla casa.
Spiegò che erano due nomadi che una volta raggiunta una certa età non se la sentivano di sostenere i lunghi viaggi imposti dallo stile di vita che avevano condotto fino a pochi anni prima e vedendo la casa avevano pensato che era ora di ritirarsi, di andare in “pensione”, così l’avevano occupata.
Era stato facile successivamente mettere in giro voci di fantasmi: era bastato accendere un paio di candele per qualche sera e passeggiare in vestaglia per essere scambiati per creature appartenenti al mistero e su questo ci avevano navigato per molto tempo dato che nessuno aveva mai osato avvicinarsi a loro. Inoltre lui stesso aveva pensato bene di rincarare la dose in quanto nel momento in cui arrivavano i muratori a cercare di compiere il loro dovere, sistematicamente smontava le impalcature che dovevano servire a ristrutturare la villa durante la notte e quelli non insistevano di certo perché temevano d’essere colpiti da chissà quale maledizione. Insomma con una serie d’espedienti si erano guadagnati una casa non poi così male e se la godevano indisturbati. Il vecchio in cambio del silenzio dei due giovani esploratori propose loro una visita guidata e senza pericoli nelle altre stanze.. Videro la camera da letto padronale. Il letto a baldacchino un tempo doveva essere stato drappeggiato di velluto dato che ce ne erano ancora alcuni brandelli. Le mura raccoglievano l’intimità passata dei due antichi sposi custodendo i loro segreti in silenzio e ciò che testimoniava la loro felicità veniva sussurrata appena dalle correnti che turbinavano di corridoio in corridoio, di antro in antro, ma non si convertiva in parole. Rimaneva un eco reiterato in una lingua sconosciuta e lontana, che proveniva da altri tempi, che sarebbe mai stata compresa da nessuno. Fino a che i due anziani avrebbero abitato la casa nessuno avrebbe frugato in quel luogo, nessuno avrebbe profanato l’antico nido d’amore ora decadente e i due anziani in compenso trascorrere i loro ultimi anni in tranquillità lontano da tutti, vedendo solo di rado i loro parenti che di tanto in tanto venivano a fare visita
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