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Lo scandalo Tanlongo
Il signor Bernardo era stato arrestato. Pensare che solo pochi giorni prima era lì che festeggiava il suo compleanno con famiglia e amici. Lo avevano arrestato nel suo ufficio, mentre era intento a lavorare alacremente, come aveva sempre fatto. Tutti coloro che lo conoscevano potevano testimoniarlo, lavorava spesso fino a notte fonda.
Ad arrestarlo era giunto il colonnello Cappioni, un suo amico, anche lui presente alla festa di compleanno. L'ufficiale, che aveva cinquantacinque anni, quasi venti in meno del signor Bernardo, aveva ordinato agli agenti in borghese di aspettarlo fuori, che non c'era nessuna necessità di dare scandalo. Il signor Bernardo era molto impegnato, ma lo aveva ricevuto quasi subito e i due si erano salutati amabilmente, come è d'uso tra persone che si conoscono bene.
- Come sta la sua signora?
- Bene, grazie.
- E le sue figlie?
- Molto bene, grazie. Proprio oggi ho ricevuto un telegramma da Maria. È dovuta tornare a Genova dopo i festeggiamenti, ma mi ha promesso di venire a trovarmi per le feste di Pasqua.
- Mi dicono che sia una bella città, Genova.
- Io non cambierei mai Genova per Roma, ma suvvia, signor colonello, qual buon vento la porta qui.
- Purtroppo non è un buon vento.
In breve il colonnello spiegò il motivo della sua visita. Il signor Bernardo sembrò esserne sinceramente stupito, e chi non lo sarebbe stato al suo posto? Fino a pochi minuti prima ci avrebbe scommesso la testa sul fatto di essere intoccabile.
La carriera del signor Bernardo era iniziata nel 1851, l'anno in cui la banca aveva assunto il nome di Banca dello Stato Pontificio. Aveva lavorato nel dipartimento prestiti. Era meticoloso, alacre e dotato di intuito e della capacità di pesare le persone e stimarne la solvibilità. Lui pesava i clienti, i suoi superiori decidevano il da farsi. Poi gli fu dato il potere di decidere e il signor Bernardo dimostrò di muoversi agilmente in quelle zone d'ombra in cui i numeri non parlano chiaro e ció che conta è l'esperienza e l'intuito.
- Avete provato a parlare con quel magistrato?
- Niente da fare, non vuole sentire ragioni.
Il primo interlocutore si lisciò i baffi e mosse l'alfiere bianco, mangiando un pedone.
- Un incorruttibile?
- Così sembra, - rispose il secondo interlocutore osservando la torre nera.
- Farlo trasferire?
- Troppo rischioso. I socialisti potrebbero alzare un polverone.
- Che lo facciano. In un paio di giorni la polvere si depositerà e tutto tornerà come prima.
- Secondo me non è prudente. Questa volta il popolo è in fermento e qualcosa potrebbe cambiare davvero, - disse il secondo interlocutore spostando il re in B8 ed eseguendo l'arrocco.
Il primo interlocutore rimase un attimo in silenzio, lisciandosi i baffi e con lo sguardo assorto.
- Ditegli che agiremo quando le acque si saranno calmate.
- Nel frattempo? Quel procuratore ha l'aria di uno che continuerà a scavare.
- Faremo in modo che non trovi nulla.
Don Raffaele ascoltò con molta attenzione le parole di Don Michele. I suoi occhi non tradivano alcuna emozione, ma di emozioni ne provava, eccome se ne provava.
- In poche parole mi state chiedendo di levarvi le castagne dal fuoco.
- Vi chiediamo un favore.
- Don Michele, in questa terra i favori non si dimenticano.
- Sono siciliano anche io, Don Raffaele. State tranquillo che i vostri messaggi mi giungono anche a Roma, ma in questo momento non abbiamo l'autorità per ordinare un intervento.
- E non potete convincere chi ce l'ha a darsi una mossa?
- A Roma sono tempi duri.
- A me lo dite? Anche qui stiamo vivendo tempi duri. Sono mesi che quelli si stanno organizzando nelle nostre città e ora anche nelle nostre terre. Avete letto di Caltavaturo?
- Ho letto, Don Raffaele, ho letto. Undici morti e quaranta feriti. A Roma non si parla d'altro.
- Si parla troppo, se volete il mio parere. Quelli si stanno dando da fare, stanno cercando alleanze. Undici morti non li fermeranno e noi non possiamo frontreggiare gli operai in città e i contadini in campagna.
- Tenete duro ancora un po'. Interverremo appena possibile.
Bastiano era nervoso. Era stato scelto personalmente da Don Raffaele in quanto persona esperta e affidabile. Aveva studiato con calma la sua vittima, un uomo sulla sessantina, di corporatura robusta, leggermente claudicante, che camminava con il supporto di un robusto bastone. In ogni caso il corpo a corpo era da evitarsi, anche senza il bastone un ex combattente come lui sarebbe stato un avversario formidabile. Bastiano avrebbe preferito ucciderlo con arma da fuoco, ma Don Raffaele gli aveva affiancato Salvatore, che se non usava il coltello non ci provava gusto.
C'era di buono che il treno che andava a Palermo era spesso quasi vuoto. Il signor marchese era quasi sempre solo nella sua carrozza di prima classe, soprattutto nel tratto tra Termini Imerese e Trabia. Ma se era sempre solo non si sarebbe insospettito vedendo due volti nuovi? Ed era per questo che Don Raffaele aveva scelto proprio Salvatore. La maggior parte dei suoi manovali era gente povera, rozza, non era gente da prima classe. Salvatore e Bastiano, vestiti di tutto punto, sembravano dei mercanti sufficientemente ricchi da potersi permettere di viaggiare in prima classe. E se un po' rozzi lo erano anche loro, ciò li rendeva più credibili come neo ricchi desiderosi di far dimenticare da dove provenivano.
Il signor marchese li aveva visti almeno dieci volte nell'ultimo mese. Inizialmente aveva scambiato con loro due chiacchiere, ma non gradendo la loro compagnia aveva iniziato a fingersi assopito. Si sedeva vicino al finestrino, il corpo leggermente piegato in avanti, gli occhi chiusi, il bastone sul sedile di fronte a lui.
Quel giorno i due entrarono nel vagone parlando a voce alta e esaminando lo scompartimento con attenzione. Non c'era nessuno. Gli si avvicinarono continuando a parlare, superarono il suo sedile e si sedettero. Attesero ancora qualche minuto, poi si alzarono. Salvatore aveva notato il giornale sul sedile accanto al marchese e si avvicinò come per chiedergli il permesso di buttarci un occhio. Il marchese continuò a tenere gli occhi chiusi sperando che, vedendolo addormentato, non gli avrebbe rivolto la parola. Dieci minuti dopo il suo corpo senza vita giaceva in una pozza di sangue.
In una mattina di febbraio del 1893 una bara color mogano uscì dalla cattedrale di Palermo, trasportata a spalla da sei uomini robusti e seguita da una piccola folla, in cui spiccava un gruppetto di donne anziane, vestite di nero e con lo sguardo spento. La bara fu adagiata in una carrozza trainata da quattro cavalli neri. Sotto il cielo limpido di una luminosa mattina di febbraio il corteo funebre si incamminò lentamente verso il cimitero. I figli della vittima avevano scelto un percorso che consentisse alla salma di porgere l'ultimo saluto al Banco di Sicilia, e che le evitasse di passare di fronte alla casa di don Raffaele Palizzolo.
- Come procede il lavoro di quel magistrato?
- Continua a lavorare.
- Ha scoperto altro?
- Sembra di no, ma vuole estendere le sue indagini ad altre banche del regno.
- Siamo coperti?
- Siamo coperti.
- Ma a Palermo non c'è il marchese di San Giovanni? quello del Banco di Sicilia?
- Notarbartolo?
- Proprio lui. Quello che parla troppo.
- State tranquillo, Notarbartolo non è più un problema.
Il Signor Bernardo aveva fatto carriera e forse l'avrebbe fatta anche senza concedere prestiti "a fondo perduto" a persone con conoscenze importanti, ma non sarebbe arrivato così in alto. Si dice che avesse avuto contatti con Camillo Cavour, che non aveva voce in capitolo nello stato pontificio, ma era primo ministro di un regno in espansione.
Dopo la breccia di Porta Pia la sua banca, ribatezzata Banca Romana, aveva conservato il privilegio di stampare moneta, come altre banche dei territori conquistati, per esempio il Banco di Sicilia, e il signor Bernardo ne era diventato direttore e amico personale della regina.
- Quanto peggiorata?
- Rispetto a Maggio? Molto. Due mesi fa erano solo Corleone e Piana dei Greci, ora ci sono anche Bisacquino, Villafrati, Chiusa, Contessa Entellina, Roccamena, Belmonte.
- Praticamente tutto il palermitano.
- E l'agrigentino. Casteltermini, Acquaviva, Santo Stefano. I braccianti si rifiutano di lavorare, i mezzadri si rifiutano di rinnovare i contratti e le terre sono abbandonate.
- Ma in tutto quanti sono?
- Tanti, veramente tanti. Solo nelle campagne sono almeno 50. 000 e ci sono avvisaglie preoccupanti anche tra gli operai e tra i minatori. I nostri non resisteranno a lungo.
L'uomo dai baffi bianchi osservò nuovamente la scacchiera, corrucciato. Da un lato i Fasci dei Lavoratori, dall'altro l'inchiesta della Banca Romana. Entrambe minacciavano di travolgerlo. I suoi elettori gli chiedevano un intervento militare, lui non aveva il potere di autorizzarlo e chi aveva questo potere non ne aveva l'intenzione. No, per Giolitti erano 50. 000 potenziali alleati.
Per qualche secondo i due rimasero in silenzio, poi un lieve sorriso illuminò lo sguardo dell'uomo dai baffi bianchi mentre muoveva la regina.
Il signor Bernardo aveva ricevuto per l'ennesima volta il suo avvocato, che aveva già provato a farlo scarcerare per motivi di salute, ma il magistrato era stato inflessibile. I suoi uomini avevano letto i libri contabili, avevano scoperto quasi tutto sui finanziamenti di quegli anni, ma di coloro che avevano ottenuto i prestiti conoscevano solo dei nomi cifrati che il signor Bernardo aveva taciuto. Ma ora l'avvocato gli aveva dato il via libera. Sua maestà, la regina Margherita, gli aveva chiesto di collaborare e gli aveva dato precise istruzioni.
E Bernardo Tanlongo aveva iniziato a parlare. Sì, gli avevano chiesto di dare il denaro all'onorevole Tizio. Sì, la cifra era esatta. Sì, aveva finanziato l'onorevole Caio per la campagna elettorare. No, non aveva dato i soldi all'onorevole di persona, era venuto un suo uomo di fiducia a chiedere un finanziamento per un investimento immobiliare. Come lo sapeva? Perché il palazzo era stato venduto a meno della metà della cifra chiesta in prestito, ma lo aveva già capito. Signor giudice, tratto con imprenditori edili da decine di anni e se mi dicono che devono costruire un palazzo così e così crede che non sappia quanto costi? Come? Ma no! Precisamente no, ma a spanne lo capisco se costa la metà o un terzo di quello che mi chiedono.
Il vocio dei colleghi parlamentari si era calmato. Dai banchi del governo il primo ministro, l'onorevole Giovanni Giolitti, osservava nervosamente alleati e avversari. I giornalisti avevano fatto un buon lavoro riportando la testimonianza di Tanlongo, che era stato prodigo di dettagli nel parlare del primo ministro e molti ne aveva taciuto sui suoi avversari.
Dai banchi della destra l'onorevole Francesco Crispi si era alzato, in silenzio, aveva dato l'ultima lisciatina ai baffi bianchi e aveva iniziato il suo discorso, deplorando, con forza, il malcostume e le pratiche moralmente riprovevoli di alcuni suoi colleghi parlamentari, soprattutto alcuni suoi colleghi di Governo.
- Azioni riprovevoli e indegne, che persino il primo ministro ha commesso. Azioni da codice penale, azioni che hanno infangato il nome della nazione, offeso il re e offeso tutti gli italiani onesti, compreso quelli, Signor Ministro, che Le hanno dato la loro fiducia.
Applausi dai banchi della destra. Un lieve mormorio dai banchi della sinistra. Qualcuno gli era ancora fedele.
- In questo momento storico, in cui più che mai si chiedono sacrifici alla nazione, in questo momento in cui si chiede al popolo italiano di stringere la cinghia e sostenere l'azione del governo, per il risanamento delle finanze dello stato, il primo ministro più di tutti gli altri dovrebbe essere un esempio di moralità e di rettitudine.
Applausi dai banchi della destra. "Ipocrita! Ipocrita!" dai banchi della sinistra.
- Ed invece l'onorevole Giolitti cosa fa? Ruba i soldi della Banca Romana e intralcia il lavoro della giustizia, facendo sparire documenti, mentendo e ingiuriando magistrati, poliziotti e giornalisti che, compiendo il loro dovere, svelano le sue trame e la sua smodata avidità di potere e di denaro.
L'Italia, onorevoli colleghi, non merita un ministro del genere. l'Italia deve essere governata da uomini migliori, ed è per questo motivo che oggi è nostro sacrosanto dovere, nei confronti del re e del popolo italiano, votare la sfiducia al governo e all'onorevole Giovanni Giolitti.
Dai banchi della destra un applauso scrosciante, ma Giolitti non ci bada neanche. Il primo ministro osserva i suoi alleati e gli uomini del suo partito. La destra appoggia il suo avversario, il re appoggia il suo avversario e tra i suoi alleati alcuni sono già pronti a cambiare bandiera.
Erano stati giorni concitati, caratterizzati da estenuanti incontri, mediazioni, discussioni, ma ora quella fase stava per concludersi. Dai banchi del governo il primo ministro, l'onorevole Francesco Crispi, osservava serenamente alleati e avversari. Nei giorni successivi alle dimissioni di Giolitti aveva chiesto ai partiti una "tregua di Dio" per risolvere i problemi del paese. Aveva chiesto delle misure straordinarie e urgenti per riportare la calma in Sicilia e ora stava seguendo pigramente il conteggio dei voti. Ogni tanto qualcuno usciva dall'aula per scambiare due parole con un collega e qualcun altro si affacciava per accertarsi che il conteggio non fosse già finito. Il risultato finale fu di 342 voti a favore, 45 contro e 22 astenuti.
Francesco Crispi si alzò per ringraziare i suoi colleghi, attese che il presidente della camera dichiarasse chiusa la seduta, si fermò ancora qualche minuto per una parola con i suoi alleati e infine lasciò l'aula e si incamminò verso casa. Uscendo ricordò a don Michele di inviare un telegramma al loro comune amico.
Nei giorni seguenti iniziò la pacificazione della Sicilia:
25 dicembre 1893, Lercara (Palermo), 12 morti,
1 gennaio, Pietraperzia (Enna), 8 morti,
2 gennaio, Gibellina (Trapani), 20 morti,
ancora 2 gennaio, Belmonte (Palermo), 2 morti
3 gennaio, Marineo (Palermo), 18 morti
5 gennaio, Santa Caterina Villarmosa (Caltanissetta), 14 morti.
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