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Il funerale della nonna
Gli occhi erano pesanti e rivendicavano le ore di sonno sottratte dalla levataccia. Pure le gambe mancavano dell’abituale solidità, un po’ per lo stesso motivo, un po’ per la corsa del giorno prima, sanissima ma certo abbastanza forzata visto che era la terza volta che ero tornato a correre dopo avere ricominciato ad allenarmi. La vista del lago fu quindi sbiadita da tale stato fisico, ma l’aria della prima mattina mi aiutò a sgranare le immagini e a farmi rendere conto che si sarebbero stampate sufficientemente nella memoria da farmele riaffiorare in futuro, con un interessante numero di dettagli.
Mio padre, invece, era sveglissimo, diceva che aveva dormito una sola ora, e c’era da credergli dalle occhiaie che aveva portato dalle due, ora della sveglia, per un po’, almeno fino all’imbocco della tangenziale di Mestre. Aveva deciso di partire presto, l’appuntamento per la cerimonia era fissato alle 8. 30 di fronte alla stazione di Fine Lago, ultima fermata delle ferrovie Nord. Era prevedibile che saremmo arrivati con largo anticipo, ma era meglio così; effettivamente partendo più tardi c’era il rischio di trovare coda in tangenziale a Milano. “Se partivamo due ore dopo, arrivavamo almeno tre ore dopo!”, aveva ripetuto un paio di volte sul lungolago. Aveva ragione.
Sarebbe stato bello fare un giro col battello, l’aria della prua mi avrebbe certo completamente ridestato, ma questo pensiero mi balenò per andarsene in fretta. Non c’era molto tempo e Como avrei sicuramente avuto altre occasioni per vederla con calma.
Mia cugina, la Lia, arrivò trafelata provenendo dalla sala mortuaria. Disse che la zia si era fermata direttamente lì. Ci salutammo molto velocemente, lei stessa nel parlare e nel descrivere i dettagli dei preparativi per il funerale mi ricordava una segretaria. Non l’ascoltai molto, ma quel suo parlare affannato e sicuro mi fece capire che non v’erano stati intoppi di alcun tipo e che il funerale si sarebbe svolto da manuale. Fu un sollievo. Ero ancora mezzo addormentato, nemmeno due caffè presi alla stazione mi avevano tirato su.
Mia nonna, in tutta la mia vita, l’avevo vista al massimo sei o sette volte. Mai negli ultimi dodici anni, dopo che l’Alzheimer si era impadronito della sua testa. Per questo non potevo dirmici affezionato.
Mentre ci avvicinavamo alla sala mortuaria, mia sorella mi disse che non se la sentiva di entrare. Avevo provato un sentimento simile il giorno del funerale di mia zia Rosella, morta due anni prima, e la capii. In realtà poi entrò, e così ebbi fatto anch’io per mia zia.
Mia nonna era nella saletta numero 2. Mi ricordava il papa Giovanni Paolo II quando cadavere fu esposto alla folla di pellegrini nella basilica di San Pietro. Importante. Impotente. Osservandola meglio mi resi conto che questa strana somiglianza era dovuta probabilmente al colore giallastro che tendeva ad assumere la pelle, un giallo da cinese. Un giallo da papa. Anzi per il naso un po’ aquilino la associai pure a Giovanni XXIII, che in qualche programma tv di rievocazione storica avevo visto da morto. Sempre papa comunque.
Era la prima volta che vedevo così da vicino un cadavere, e per così a lungo. Non mi sorpresi di essere tranquillo, non saprei dire perché. Le mani secche contrastavano con la rosellina fresca adagiata da un becchino su un suo fianco; reggevano il rosario con fermezza, davano quell’impressione. Mi spostai sul lato destro della bara, vicino alla testa. La magrezza del corpo e la tranquillità dell’espressione mi ricordavano una bambina, la veste bianca su cui era avvolta ne accentuavano il senso di innocenza. Vidi mia zia toccarla ma mi misi rapidamente in testa che non c’era nulla di strano, in fondo era normale, era sua madre. Non solo la toccava, ma la baciò in fronte più e più volte, le baciò le mani raggrinzite come si fa con una persona che non si vede da molto tempo. Anche mio padre la toccò, ma molto più rapidamente. Veloci carezze. Mi balenò il pensiero di fare altrettanto, ma il pensiero abortì molto prima di passare una certa soglia oltre i quali i pensieri si alzano di un gradino. Per me quel gradino era alto diversi metri, e mi sorpresi di non essermi mai soffermato a pensare che quando una persona non se la sente di fare una certa cosa deve provare un sentimento analogo a quello. Non se la sente e basta perché la mente rifugge l’idea di saltare su un gradino alto tre metri. Approfondii questo pensiero pensando che forse in situazioni passate avevo peccato di insensibilità e cattiveria nei confronti di persone che non se la sentivano di fare cose molto meno anormali per me. Come se qualcuno in quella sala mi avesse obbligato a toccare mia nonna. Più tardi, nel viaggio verso casa, mio padre ci disse che (la nonna) era ghiacciata; provai un senso di piacere. Pensai che probabilmente questa repulsione al tatto era abbastanza normale per me che in pratica non avevo mai legato molto con lei. Più che con un perfetto estraneo, era come una violazione. Non ero degno, non era il caso. Troppo comodo se lei non poteva reagire. Come troppo facile è spalare di chi non c’è.
La vista del cadavere mi aveva svegliato, almeno per il momento. Era chiaro che avrei pagato con gli interessi il mio debito di sonno.
La chiusura della bara fu un momento che non volli perdere. Il pensiero che fossi presente nell’ultimo istante in cui quel corpo sarebbe stato a contatto col mondo dei vivi e con la luce del sole mi lusingò. Mia zia Grazia le baciò ancora la fronte e dopo un minuto di raccoglimento i becchini con un cenno chiesero se si poteva procedere. A lei diedero un fazzoletto bianco affichè potesse adagiarlo sul volto della madre. Lei lo adagiò una prima volta, poi un secondo dopo lo levò e baciò ancora la fronte, cosicchè vidi ancora quel volto che un secondo prima credevo inappellabilmente sparito per sempre. Questo fatto mi toccò, misi in dubbio la parola “sempre”.
Dopo la messa nella chiesetta attigua e la benedizione della salma, ci organizzammo rapidamente per la traslazione al cimitero di Tradate, circa mezz’ora di macchina.
Mio padre aveva lasciato l’auto di fronte alla stazione dei treni, circa mezzo chilometro più in là, cosicchè i becchini ci proposero un passaggio col carro funebre fino a lì. Mio padre salì su un secondo furgone guidato da due becchini, mentre io e mia sorella salimmo sul carro vero. Potevo rifiutare, ma non lo feci. Ero abbastanza tranquillo e un po’ me ne sorpresi. Mia sorella, invece, era un po’ meno tranquilla, notai che tendeva a buttarsi un po’ in avanti così mi divertii un po’ a prenderla in giro facendole cadere la mia mano sulla spalla. Un’occasione simile..! Mia madre trovò posto nell’auto guidata da mia cugina. Diversamente dal previsto, dopo che il primo furgone scaricò mio padre vicino alla sua auto, ripartì subito, e mio padre immediatamente dietro ad esso non conoscendo la strada per Tradate; questo perché in effetti il traffico impediva delle soste in seconda fila. Così io e mia sorella ci ritrovammo nel carro. La situazione fu molto ilare, anche mia sorella iniziò a rilassarsi. Percorrendo la strada in salita che affianca il lago, l’autista ci indicò una per una le case di alcuni famosi calciatori su esso affacciate. Sentii che sarebbe stata un’esperienza particolare, formante. Forse perché mi rendevo conto che parlando coi becchini e scherzando con mia sorella, compivo azioni assolutamente normali in un luogo (il carro) sinonimo di morte e dolore. E non in cimitero. Il carro è più suggestivo del cimitero perchè ricorda il punto di non ritorno, come la bara e la fossa appena scavata. Il cimitero si può visitare anche da vivi, il carro solo da morti. Il carro e la bara sono come la scritta della parola fine e l’inchistro è ancora fresco. In cimitero la parola fine ha l’inchiostro asciutto. L’autista, sentito che eravamo dai dintorni di Venezia, ci chiese se anche da noi ci fossero molti extracomunitari. Gli rispondemmo in modo affermativo e che specialmente negli ultimi cinque o sei anni il loro numero era aumentato nettamente. Gli chiesi se sapesse di quella storia sui cinesi di Milano, che in pratica non morivano mai perché , si diceva, i vivi prendevano i documenti ai morti regolarmente entrati in Italia. Egli, del mestiere, mi confermò che effettivamente non aveva mai praticato funzioni per i cinesi, e alla mia domanda sul dove, secondo lui, finissero allora i morti, mi rispose : «Al ristorante cinese! ». Pareva convinto e mi rallegrai di non andarci mai, qualunque fosse la verità. Tra un discorso e l’altro mi disse che era felice per mio padre che fosse già in pensione da dieci anni, nonostante la relativa giovane età. Mi fece un discorso abbastanza articolato sulla fugacità del tempo e di quanto sia fortunato chi ha del tempo da dedicare a se stesso o comunque non è affannato dal lavoro e magari si deve rompere la schiena dieci ore al giorno per portare a casa la paga. Facendomi un rapido gesto che colsi nonostante la velocità, così fatto per non allontanarsi troppo dalla professionalità, indicò la bara e disse: «Tanto alla fine vedi come si finisce.. ».
Poco prima di raggiungere il cimitero mi sentii ancora una volta lusingato per essere vicino a mia nonna nel suo ultimo viaggio in una automobile.
Arrivati a destinazione, due becchini ci aprirono le porte dell’auto e ci fecero scendere. Ringraziai del giro turistico, sorridendo.
La cerimonia d’inumazione fu preceduta da un breve rito relegioso espletato da un prete che molto velocemente intascò la busta di soldi che l’altra mia cugina, la Luciana, gli offrì. Mi ricordò quando un tempo vedevo il prete che entrava a benedire la casa, e solo dopo che mia mamma chiedeva a mio papà «Saranno stati pochi..? » capivo che era stata fatta l’offerta al prete che nel frattempo era già in un’altra casa.
La bara fu deposta nel loculo dal custode che si servì di un rullo metallico mezzo arrugginito per farla scivolare. Notai che le pareti interne del loculo erano molto scabre e ciò mi diede un senso di irrispettoso. È vero, pensai che non cambiava nulla anche se le pareti fossero state levigate come il marmo delle lapidi, anzi, sarebbe stato assurdo. Ma il contrasto era evidente e ci restai un po’ male. Contrastava molto anche con la bara che di fatto era un gioiello di arte del legno.
Non ci fu nessun pianto. La nonna era spirata tre giorni prima ma la morte fu quasi una liberazione, almeno per mio padre, viste le condizioni in cui versava negli ultimi anni. Fu una morte prevista e assimilata ancor prima che si compisse.
Il custode del cimitero ci informò che prima di un paio d’ore non sarebbe stato portato il quadrato di marmo da piazzare alla porta del loculo e che provvisoriamente sarebbero stati piazzati al suo posto i mazzi di fiori portati da noi parenti. Nessuno battè ciglio e un po’ me ne sorpresi, anzi vidi mia zia ringraziare il custode con un sorriso prima di avvicinarsi ad uno dei becchini per rifinire un particolare economico della cerimonia. La bara di mia nonna era così visibile ai passanti, non molti per la verità. Immaginai un momento di essere uno sconosciuto e di passare a fianco di quella bara così esposta, praticamente incustodita; uno strano sentimento, sapeva di immorale. Comunque non parlai, anche se tesi a pensare che quell’immagine rasentava il limite del pudore.
Subito dopo ci avviammo verso il parcheggio, per salutarci. Era aleggiata fra gli zii l’idea di fermarci tutti a mangiare una pizza, ma noi avevamo portato apposta dei panini e i miei rifiutarono. Ormai non restava più nessuno presso la tomba, ed allontanandoci da essa osservai per l’ultima volta il legno della bara, ben visibile fra i petali dei crisantemi.
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