Barcellona, 13 ottobre 2007.
È bene parlare chiaro, Andrea.
Forse ci sono arrivata tardi, ma ho capito il tuo gioco. Un gioco assurdo, crudele.
Ancora una volta, dopo tanti anni dalla nostra storia, ti ho cercato io. La nostra storia, ti ho detto tante volte, è stata per me importantissima. Con te, per la prima volta, ho conosciuto l'amore. Che significa soffrire e far soffrire. Ho sperimentato, nella mia vita, ambedue queste condizioni. Di certo tu mi hai fatto soffrire.
Ora siamo maturi, adulti. Io, come te, ho una vita non banale, ho affetti intensi, ho una famiglia felice. Ho un lavoro che mi gratifica, ho anch'io tante aspettative per i miei figli.
Io, Andrea, non avevo, non ho bisogno di te. Ciò che mi ha spinto, un'altra volta, a cercarti, è stato il desiderio di offrire la mia amicizia, il mio affetto, a te, ad una persona che mi ha conosciuta da adolescente, ad una persona che sentivo ancora vicina. Perchè mi piace ascoltarti, sapere di te, ed anche, sinceramente, dirti di me, della mia vita. Volevo poter condividere i nostri pensieri, le esperienze, i successi, le nostre ansie.
Perchè? Perchè io ti voglio bene. Semplicemente, limpidamente. Ti voglio bene. Vorrei che tu facessi altrettanto, che nutrissi per me gli stessi sentimenti. Perchè non ne sei capace?
È così, A, tu non ne sei capace. Ricordati di tutto quanto mi hai detto e scritto in questi quattro mesi. Prima mi hai fatto proposte indecenti, ed io ho sorvolato, poi hai buttato tutto il fango possibile su Piero, mio marito. Tu, dici di te stesso, sei un intellettuale, che tiene molto alle parole. E le parole, non c'è dubbio, tu le sai usare. Nel senso che con l'ironia, con la tua personale allusiva e sfuggente retorica, hai saputo esprimere verso di me tanto livore. E spargere tanto veleno su di noi. Su di noi, ma soprattutto su te stesso, Andrea.
E poi: questa puerile, teatrale venerazione di me; e la delirante - scusami - ricostruzione del nostro rapporto, perfino delle nostre vite. Capisci, A, che dicendo tutto questo tu flagelli soprattutto te stesso. Sì, tu lo capisci, perchè tu fai di professione il filosofo.
Tu una volta mi hai detto che la nostra storia è pura letteratura. Forse in questo momento stai realizzando proprio questo.
In questi quattro mesi abbiamo anche condiviso tante nostre cose: il mio nuovo lavoro, il tuo nuovo libro, i successi ed i problemi dei nostri ragazzi, i viaggi. Non immagini quanto ti ho sentito presente e vicino quando ci siamo detti tutte queste cose. Ma avverto sempre l'incombenza di un'ombra, di uno scarto di umore, che può allontanarti da me.
Io non accetto più questa precarietà, non tollero più di sapere che stai a macerarti. La nostra amicizia può continuare solo se tu la vivi finalmente con tranquillità, da adulto, se non dimentichi che Laura, la "tua piccola", ha quasi cinquant'anni, se rimuovi per sempre i ricordi che ogni tanto definisci "macigni". E se pensi di avere ancora, per me, affetto sincero e pulito. Io lo desidero profondamente.
Sia insomma un'amicizia affettuosa e serena. O sia più nulla.
Vorrà dire che mi avrai fatto, per tua scelta, soffrire di nuovo. O per dire meglio, mi porterò una (piccola) cicatrice in più.
Se non lo vuoi, se vuoi continuare, come fai spesso, a dipingerti come il perdente, non ci sto. Se non lo vuoi, se proprio vorrai essere perdente, tutto finirà. Paradossalmente avrai vinto.
E non ti cercherò mai più. Ma questo è possibile?
Cin cin, A.
L