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L'anarca. Canto di un folletto tra i cadaveri.
Ricordo. A me stesso prima che ad ogni essere umano di passaggio da queste parti, che non è mai troppo tardi per osare. Per sentirsi vivo, anche laddove passeggiano cadaveri viventi, morti che camminano all’ombra di un dio obsoleto, rilucente nel pensiero e nel dogma di chi lo ha messo al mondo. È un dio di cartapesta o di metallo, a seconda dell’angolazione da cui lo si guarda, è un dio futile ma cannibale. Terribile, spietato, vendicativo.
La religione del mio tempo non concede indulgenze, né premi all’ultimo che arriva. Non esiste la promessa celeste, non esiste nessun paradiso; la luna è lontana, troppo lontana. Ma io vorrei raggiungerla, certo non da solo, pur accettando il rischio: sono disposto a essere solo. Sempre, se serve, se non esiste nessuno che mi accompagni in quell’altrove a noi cosi lontano: in altezza. Eppur mi sembra di toccarla, la luna, il mio metro e ottanta abbondante la sorpassa; alzando il braccio, schiudendo il pugno, mi trovo oltre. Non è col fisico che io la tocco, perché col fisico non l’ho mai cercata; non è con l’anima, comunque aperta, in accoglienza: e la sua luce arriva. E nemmeno col puro e semplice pensiero.
Potreste sorprendervi, certamente, nell’osservare la disposizione dei libri nella mia stanza: tra Evola e Guénon c’è spesso Mishima: dal “Padiglione d’oro” alle “Confessioni”. Di una maschera mi innamorai da bambino o, forse, fu una necessità o un vezzo. Non so. La fabbricai, me la misi, e forse non l’ho più tolta. Non è la stessa che ha portato Mishima, perché delle convenzioni me ne son sempre sfottuto. Eppur le convenzioni mi ci cingono d’assedio, sempre. Sono claustrofobico, cerco spazi ampi, dilatati, come i giardini d’infanzia che sembravano immensi (e invece adesso, a riguardarli…), dove ero bambino tra i bambini, amato e solo: eravamo in troppi. Tra Evola e Guénon Mishima ha senso, e non per quello che, chi lo conosce, potrebe immaginare ma perché non esiste un senso uguale per ogni essere: siamo tutti diversi. Una metafisica colta ed una più virile, proteggono un bimbo che amava vestirsi da donna. Non sono io, certo, quel bimbo, ma il piccolo Mishima che cercava (scopriva) la sua identità. Anch’io cercavo identità a 5-6-7-8-9 anni, anch’io, come Mishima, annotavo nell’inconscio ogni pensiero vivente, ogni fantasia.
La fantasia è potenza, solitudine tra i cadaveri e vita tra i folletti. Ero solo, tra i cadaveri, a 3 anni, ero acquatico e senza ancora un compagno di stanza, un fratello. Fratello mio, quanto siamo diversi. Fratello mio, quanto donerei tutto di me perché tu fossi meno disadattato di ciò che sono io. Eh si, si può essere diversi e amarsi molto, si può esser diversi e comunque disadattati, in questo mondo. Tu sei un folletto, fratello mio, solo perché io, nel mio mondo interiore, ti voglio tale. La fantasia è potenza, ma non sarà mai al potere; scordiamoci che ciò avvenga: la vera utopia, quella che non dobbiamo mai abbandonare, non è affatto questa. La vera utopia è quella di potersi emancipare, sempre e comunque, dai cadaveri che camminano, nemmeno respirando il loro odore nauseabondo, nemmeno accettando i loro doni per un compromesso, nemmeno regalandogli una qualsiasi emozione: è solo energia a perdere.
Tra Evola e Guénon c’è Mishima, tra Ende e Dahl c’è Buzzati, tra il corpo e l’anima c’è il pensiero. Su tutti, su tutto, c’è lo spirito. E nemmeno col puro e semplice pensiero, dicevo, ho toccato la luna; è solo con lo spirito che l’ho toccata. Con lo spirito ho incastrato Mishima tra un sacerdote e un guerriero, e Buzzati tra i fantastici malinconici. Con lo spirito vivo la fantasia-malinconia dei giorni delle vite andate; questa è una delle tante: non ho memoria, ma solo consapevolezza d’aver vissuto tra i folletti. E tra i cadaveri. Con lo spirito, dunque, ho trovato il mio corrispettivo lunare, un folletto dalle sembianze umane e dagli occhi color cielo: limpido, azzurro, tumultuoso e tempestoso, ancora azzurro e sempre più limpido.
I cadaveri si affollano, tra Junger e Heidegger c’è Céline: l’ordine è giusto. È il mio ordine, con chi condividerlo? L’anarca, quale immensa figura ha trovato Junger, a nessun’ altra mi sento tanto vicino. Se io sono un anarca ho certamente viaggiato nelle vite altre, fino al confine del buio: ed ho incontrato cadaveri che camminavano su cadaveri, che camminavano su cadaveri, che camminavano sul nulla!
Ti prego, Atreju, vienimi in soccorso come sei venuto allora, che camminar sui cadaveri e sul nulla non voglio. Non posso. Non potrei, nemmeno a volerlo, perché mi mancano gli arti e dovrei strisciare, dovrei sporcarmi col sangue per cui non ho pena alcuna. Sono egocentrico ed egoista, non voglio salvare chi non è più salvabile: che i cadaveri ardano nel fuoco, divenendo cenere. E che la cenere se la porti il vento, come le parole che non voglio ascoltare: benessere, democrazia, tolleranza, uguaglianza, solidarietà. Il benessere non esiste, esiste Fantasia, esistono i folletti, esiste l’utopia, esiste il sogno, non il benessere. Benessere mi fa orrore, come la tolleranza. Tollerare, chi? Tollerare, perché? Io non vorrei mai essere tollerato, né tollerare alcuno: è degradante, non ha senso. Vomito nell’udir che esiste l’uguale. Uguale a chi? A me? Non l’augurerei né a me né al clone possibile. E non mi parlate di uguaglianza di diritti, da che mondo è mondo non è mai esistita. E poi, io odio tutti, non sono solidale con nessuno, non li vorrei nemmeno questi uguali diritti in un mondo come questo: i cadaveri passeggiano sui cadaveri, che passeggiano sul nulla.
Amore mio, ti porto con me da tante vite, forse troppe. Amore mio sei l’eterno ritorno. Tra Dostoevskij e Hesse c’è Friedrich Nietzsche. Tra tutti Nietzsche è il più infantile, il più bambino, un piccolo principe dall’animo puro: un folletto vero. Fu lui ad ammonire me: “Non guardare nell’abisso, o l’abisso in te guarderà, prosciugandoti poco a poco”. Sono umano, troppo umano per riuscire a vivere come i folletti. Avrei voluto ascoltare i suoi consigli. Ma non lo feci: ho amato veramente, questo è già molto.
Ho guardato nell’abisso, dunque, sono diventato anch’io cadavere tra i cadaveri con un’unica, parziale attenuante: volevo misurare l’orrore su me stesso. E ci sono riuscito. Ad oggi, è una gioia sapere che non ho mai coinvolto nessuno nei miei pellegrinaggi nel lato oscuro: “the lunatic is in my head”.
Amore mio, i miei versi, seppur strano, amano questo mondo, nonostante i cadaveri che passeggiano e i tanti folletti che più non trovo. Amore mio, sono un misantropo che frequenta troppe persone. Sono una contraddizione, uno spirito inquieto, un disadattato supremo. Quel dio obsoleto mi dice che non ho scampo e che mi tratterrà a lungo in questa vita. A contatto coi cadaveri.
Ma lui non si cura delle mie vie di fuga e, forse, mi sottovaluta. Non dà peso all’utopia, alla fantasia, al sogno. Ignora, amore mio, che noi cerchiamo i folletti, che, probabilmente, siamo folletti anche noi.
E allora mi trasfiguro, trasmigro, l’anima mia è in accoglienza, ed i cadaveri non mi vedono. Li eludo, le mie sembianze sono le stesse e tu vivi (amore mio) in me (ed io in te). Tutto è mutato, torneranno i cadaveri, e muteremo di nuovo. Fino alla prossima vita.
Ricordo. A me stesso, e a tutti coloro che hanno incontrato i folletti ma son circondati da cadaveri, che non è mai troppo tardi per osare. Per toccare la luna anche da questa terra: non con il corpo, né con l’anima, e neppure col semplice pensiero. Quando il pensiero vive, il braccio si alza, il pugno si schiude, e ci troviamo oltre. Con lo spirito, nel cielo: siamo folletti. E i cadaveri più non esistono. Amore mio, il nulla non ci appartiene.
Léon
(Aprile 2006)
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