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LA SCONFITTA CHE TI CAMBIA LA VITA
Un omaggio a una persona conosciuta quasi per caso, una storia tra realtà e fantasia, raccontata a occhi chiusi, mai terminata, una birra ogni tanto, quel tavolino rimasto vuoto … forse non c’era un finale, o forse il finale voleva lo scrivessi io. Riposa in pace, ora.
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L’entrata era rimasta tale e quale, buia e poco accogliente, così come il corridoio, un lungo budello, con ai lati una fila interminabile di macchinette mangiasoldi, un salone enorme, tanto da far apparire minuscolo un bancone di almeno nove metri, che divideva lo spazio riservato ai biliardi dal resto del locale. Una via di mezzo tra un circolo, una sala biliardi e un centro sociale anziani. Erano dieci anni che non ci mettevo piede, l’ultima volta era stato in occasione dei campionati regionali di goriziana, una manifestazione minore, arricchita da alcune esibizioni, promosse dalla Fibis nell’ambito di un progetto finanziato dal Coni. La chicca: la sfida tra Rosanna e Marcello Lotti, una leggenda del biliardo, soprattutto nella specialità dei cinque birilli, la mia specialità.
Ricordo tutto nei minimi dettagli, la tribuna costruita per l’occasione, strapiena di appassionati attratti dai nomi in programma, la frenesia degli organizzatori, la camicia bianca prestatami da un amico perché avevo smarrito la valigia, il fiammante scudetto tricolore, la convocazione per i campionati mondiali in Argentina; sognavo ad occhi aperti: fate largo arriva il campione e …. e lei, dietro al banco, bellissima, capelli neri, occhi verdi, un corpo da paura, un culo da leggenda, una meraviglia della natura ….
“Ciao, come stai?” Era girata di spalle, riconobbe la voce, ma a parte un leggero irrigidimento del collo, restò immobile, forse per prendere tempo, per decidere cosa fare: “Sono tentata di risponderti che non sono affari tuoi, ma … sto bene, anche se questo è un incontro che avrei evitato volentieri.”
Certo dieci anni senza farsi sentire erano difficili da motivare dopo una notte come quella e soprattutto dopo un periodo, che non è esagerato, definire da favola. Adesso mi guardava, non c’era odio nei suoi occhi, si muoveva con naturalezza, il tempo sembrava non averla sfiorata, scavando un solco ancora maggiore tra noi. “E tu, come stai?” rimasi in silenzio, non c’era bisogno di parole, cinquantadue anni, una stecca (licenza poetica, perché di stecche ne avevo una soffitta, conservavo anche quelle rotte, con l’idea che un giorno ….) e una vecchia station wagon con cui macinavo chilometri per giocare tornei, sempre meno importanti, dove il mio era ancora un nome conosciuto, qualche vittoria minore e qualche ingaggio nelle tappe del circuito professionisti, chiamato per completare il cartellone: costavo poco, conoscevo tutti e non avevo pretese. A volte mi capitava di azzeccare la serata giusta, di passare qualche turno, di eliminare qualcuno tra i più forti, e allora poteva succedere di giocare contro Zito, Maggio, Rosanna; una vetrina importante, addirittura la televisione, non che questo mi cambiasse la vita, ma significava garantirsi qualche mese senza affanni.
Una stecca e una vecchia station wagon. Tutto qui.
“Perché te ne sei andato?” Ma non mi vedi, ho vent’anni più di te, e gli anni sono l’unica cosa che ho in abbondanza, non ho niente, non so fare niente, con l’ultimo ingaggio ho comprato le lenti a contatto per vedere da sponda a sponda e mi chiedi perché me ne sono andato.
Non sono abbastanza coraggioso per pronunciare queste frasi, preferisco
stare in silenzio, forse perché poi, sono più facili da cancellare.
Era stato così anche allora, prima di iniziare la partita, il responsabile tecnico della federazione mi aveva comunicato che ero stato tagliato, non sarei più andato a Buenos Aires; alla mia età significava aver chiuso, almeno a certi livelli. Inutile precisare che giocai malissimo, non riuscivo a concentrarmi, a scacciare i cattivi pensieri, l’amarezza non era dovuta al taglio o almeno non solo a quello, ricordo che provai perfino sollievo, pensando di non dover affrontare tutte quelle ore di volo, ma ancora una volta avevo accettato tutto senza reagire, senza ribellarmi, sapevo che era un’ingiustizia, avrei dovuto alzare la voce, stavo giocando benissimo, avevo appena vinto una tappa dell’International Trophy, annientato tutti i migliori nel Campionato Italiano e avevo dovuto rinunciare alla semifinale nel Campionato europeo solamente per una colica che mi aveva bloccato in Ospedale per quasi una settimana. Avrei dovuto gridare, ma rimasi in silenzio. Non era certo la prima volta, avevo solamente arricchito la mia collezione: i professori, il mio primo e unico datore di lavoro e adesso il tecnico federale. Naturalmente mio padre.
Mentre infilavo la stecca nella custodia, incrociai il suo sguardo, mi guardava con insistenza, con interesse, senza fare niente per nasconderlo, si avvicinò mentre stavo raggiungendo la porta e mi prese sottobraccio senza dire una parola. Una notte meravigliosa, uno di quei momenti che ti segnano la vita.
“Ho sempre saputo che sarebbe accaduto,” mi disse dopo avermi baciato a lungo. Ogni volta che sbucavi da queste parti, speravo in un gesto, una parola, ma le mie speranze andavano sempre deluse, giocavi, qualche commento, poi te ne andavi, non importa, mi dicevo, prima o poi succederà. Davvero strana la vita, avevo esplorato quel corpo centinaia di volte con la mente, ma non avevo mai azzardato, non avevo trovato il coraggio per avvicinarla, certo non per timidezza, nemmeno la giovane età normalmente mi avrebbe frenato, chissà forse era tutto già scritto. Ero abituato a conquiste facili, gli amori di una notte erano la mia specialità, nella collezione c’era anche qualche tentativo di far durare una storia, qualche illusione, ma niente che assomigliasse a qualcosa di serio.
Compresi subito che questa volta le cose erano diverse, non ci sarebbe stato niente di facile. Seguirono due mesi intensi, straordinari, giocavo a biliardo per ore senza mai toglierle gli occhi di dosso, stavamo insieme tutto il tempo, l’angoscia sembrava avermi abbandonato, ma le favole hanno il lieto fine solo sui libri, almeno così credevo. Non parlavamo mai del futuro, mai un programma a lungo termine, la parola domani sembrava bandita dalle nostre conversazioni. Una notte, l’ultima, facemmo l’amore in continuazione, quasi con ferocia, sentivo il suo disagio, ma non riuscivo a controllarmi, non una parola, sembrava una prova o forse era solamente il tentativo di non pensare; prima ancora che riprendessi fiato lei mi chiese cosa stesse succedendo, “hai fatto l’amore come se fosse l’ultima volta,” mi resi conto che avevo paura, non sapevo perché, ma ero terrorizzato. Non sopportavo l’idea di perdere Francesca, ma sentivo che se fossi rimasto, sarei soffocato, sembrava esserci una forza che mi imponesse di partire, anche se non sapevo per dove, a casa non ci tornavo da tre anni, mia madre mi ripeteva in continuazione che la mia stanza era ancora come l’avevo lasciata, ma dopo la morte di mio padre, avevo perso ogni legame. Mentre mi allontanavo, continuavo a ripetermi di aver fatto la cosa giusta, non posso scaricare su di lei le mie tensioni, i miei fallimenti, le mie fobie, ma era davvero questa la ragione? Quando mai ero stato così generoso? Perché si fosse innamorata di me, era ed è rimasto un mistero, ma era successo e adesso era tutto diverso.
“ Perché te ne sei andato? “ Era l’unico modo che avevo per dimostrarti quanto fossi importante, riuscii a dire. Non sapevo nemmeno perché fossi tornato in quel posto, non avevo niente da dare, ma nemmeno da chiedere, semplicemente, sentivo l’esigenza di rivedere l’unica donna che avesse contato davvero qualcosa, di rivedere quei luoghi per convincermi che anche uno come me può avere ricordi da custodire.
“ Pezzo di merda, non hai pensato che avessi il diritto di dire la mia?”
Quante volte ero stato sul punto di chiamarla, poi mi dicevo, “lo farò quando sarò riuscito a combinare qualcosa,” ma il tempo passa e tu resti lì, aspettando il miracolo, non puoi nemmeno nasconderti dietro la passione del gioco, un gioco che non ti coinvolge più da tempo, non provi più nessun brivido, vinci e perdi, senza differenza.
Lavorare in una sala biliardi, giocare a pagamento per far divertire i clienti non é molto diverso da qualsiasi altro lavoro, anzi è peggio, ti inaridisce, perché il biliardo non è solamente tecnica, è cuore, carattere, brivido, devi sentire l’adrenalina che ti sale fino al cervello, chi è “fuori” non può capire cosa si prova entrando al Casinò de La Vallée a Saint Vincent, vedere venti biliardi allineati in modo perfetto, un esercito di arbitri, troupe televisive e l’elite del rettangolo verde, otto formidabili stecche che hanno superato un esercito di migliaia di giocatori e adesso si contendono il titolo.
Bellutta, Zito, Diomajuta, Maggio, controllano ogni minimo dettaglio, sembrano volersi fondere nell’ambiente. Una volta ho visto Gastone Cavazzana, misurare lo spessore della pedana con il calibro e cambiarsi due volte le scarpe. Quando hai provato tutto questo non puoi più farne a meno, allora resti aggrappato a tutto, ai ricordi, alle speranze, quando non ci credi più, quando anche l’illusione ti abbandona, ti senti svuotato e inutile, incapace di cercare altrove, le ragioni per lottare. Ti chiedi se ne è valsa la pena, ma sono domande senza senso, perché qualsiasi risposta è quella sbagliata.
“Sei sposata?” Mi sarei morso la lingua per la stupidaggine, ma lei non reagì come credevo, anzi non reagì per nulla, sembrava indecisa, le rughe della fronte indicavano che stava pensando intensamente, fece un cenno a qualcuno, prese il giubbotto e mi chiese di accompagnarla, uscimmo dal locale in silenzio, sempre in silenzio camminammo fino al parco: ogni tanto guardava l’orologio, sembrava sempre sul punto di dire qualcosa, ma non parlava, sembrava di essere tornati indietro nel tempo. Improvvisamente mi abbracciò, “Ho sempre pensato che fino a quando la mia rivale fosse rimasta una stecca, avrei potuto farcela.” Poi mi guardò “devi venire con me, forse mi pentirò tutta la vita di questa decisione, ma non posso perdere questa occasione.” Tentai di dire qualcosa, ma mi implorò di stare zitto. Ripercorrendo a ritroso lo stesso tragitto, arrivammo davanti a una scuola proprio mentre un gruppo di ragazzini ripetendo il rituale di sempre: urti, urla, risate, stava riempiendo il cortile, alla fine delle lezioni. Il fracasso non mi impedì di sentire: “Mamma, mamma!”, un biondino corse verso di noi e abbracciò Francesca, sbarazzandosi subito del voluminoso zainetto. Non c’era bisogno di dire niente, sembravamo due gocce d’acqua. Ero svuotato di ogni energia, non riuscivo a reagire, immobile e paralizzato, le domande mi morivano in gola, non riuscivo nemmeno a piangere. Non so perché mi venne in mente mio padre, ma scacciai subito il pensiero, tanto non avrebbe potuto guardarmi in quel modo, non avrebbe più potuto umiliarmi, né farmi paura; avevo bisogno di concentrarmi, non potevo continuare a fuggire.
Il locale é diventato la meta di molti giocatori, si disputano tornei importanti, domani si gioca la finale della terza tappa dell’Omega International Trophy, Crocefisso Maggio contro Zito, uno scontro che vale un Campionato del Mondo. Gustavo mi ha chiesto perché ho smesso, “Potresti ancora giocartela contro tutti.” probabilmente é sincero, d’altronde ogni tanto partecipavo a qualche torneo con risultati tutt’altro che disprezzabili. Qualche nostalgia è normale poi guardo lei (ha sempre un corpo bellissimo e troppi sguardi che lo confermano) e l’unico rimpianto è di aver sciupato tanto tempo. Giacomo gioca già piuttosto bene, usa l’effetto con la sicurezza del campione: il suo professore alle medie, grande appassionato di biliardo, lo chiama Gomez, passa ore nel locale e mi tempesta di domande, quando ho vinto il campionato italiano, se ho mai vinto contro questo, contro quello. Sono una specie di attrazione, gli appassionati accorrono da tutte le parti per giocare con l’ex Campione, peccato che Scudetto e Trofei, siano “conservati” in un banco di pegni a Torino, mi piacerebbe recuperarli, ma non ho nessuna voglia di allontanarmi, di viaggiare. Paura? Può darsi. Ogni tanto, la sera, quando chiudo il locale, entro nel garage, facendo attenzione che nessuno mi veda e accarezzo la mia station wagon, mi siedo alla guida, chiudo gli occhi e penso a quanto sia strana la vita.
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I nomi dei campioni che ho citato sono veri, ma le situazioni sono quasi tutte inventate, non credo ci siano molte possibilità che qualcuno di loro legga questo racconto, nel caso, spero non me ne vorrà. Il protagonista o diciamo chi ha ispirato il racconto, è stato davvero un giocatore di stecca, ha sfiorato il grande palcoscenico e ha vissuto tutta la vita sospeso tra realtà e rimpianti.
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Un sentito ringraziamento a Marta Niero per la preziosa collaborazione.
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0 recensioni:
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- Bel racconto, scorrevole, scritto con proprietà di linguaggio: alcuni passaggi rievocano alla mente suoni e situazioni, luoghi e sentimenti reali. Ben costruito e di piacevole lettura.
Ada
- Racconto dettagliato ed interessante, anche se non è tra i preferiti tra quelli tuoi che ho letto.
- Scritto bene come al solito, personaggi vivi, intreccio interessante. Hai sempre una grande abilità nell'elaborare storie vere con elementi di invenzione.
- ... dimenticavo: complimenti anche a Marta Niero!!!
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- Penso che la persona a cui hai fatto omaggio di questo racconto, se potesse, ti ringrazierebbe... bellissimo racconto!
Un sorriso!
- in pasticceria si usano i confettini colorati per la decorazione delle torte, ma sono ottime anche senza di essi.. e il racconto di Ivan era già splendido, garantisco! grazie della fiducia che hai riposto in me, davvero e di cuore
- Racconto strano. é, in effetti piuttosto emozionante, malinconico sopratutto, il che ne fa, a mio avviso, un racconto riuscito, ma mi ha affaticato, la lettura m'è risultata lenta. Saluti.
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